Andrea Bajani: una geometria famigliare
Nelle interviste che hanno seguito l’uscita del suo ultimo lavoro, L’Anniversario (Feltrinelli 2025), Andrea Bajani cita quasi sempre una pubblicazione di Rachel Cusk, Coventry, che raccoglie scritti letterari, riflessioni culturali e autobiografiche.
Il titolo della raccolta viene da una curiosa espressione inglese, che rimanda forse alla sorte della cittadina delle Midlands e della sua magnifica cattedrale, bombardata e rasa al suolo nel 1940: si viene infatti “mandati a Coventry” da chi smette improvvisamente di parlarci, relegandoci in un luogo di silenzio e macerie.
Rachel Cusk racconta di aver passato lunghi periodi a Coventry, punita in un esilio emotivo dai genitori, e di come, nel tempo, abbia familiarizzato con quel luogo, fino a meditare di restarci.
In L’Anniversario di Bajani succede una cosa simile, ma la cultura da cui proviene, quella italiana, a differenza di quella anglosassone, non ha le parole per dirlo.
E l’intero romanzo dà conto dello sforzo, faticoso, salvifico, doloroso e importante, di trovarle.
Al centro del romanzo c’è una famiglia della piccola borghesia romana, un figlio, una figlia, una madre e un padre, che l’ha edificata esercitando un potere intimidatorio e tirannico e ne è rimasto a sua volta incastrato, in qualche modo vittima della sua stessa narrazione, impoverito e derubato di una fortuna familiare e di un credito d’amore di cui esige la restituzione, attraverso la violenza e il ricatto emotivo.
Anche al mutare della geografia familiare, dalla metropoli romana alla provincia torinese, nel bordo più alto della cartina, l’ecosistema disfunzionale rimane blindato, impermeabile, soffocato dal padre che ruba tutto l’ossigeno, in una costellazione di accessi di ira che piovono come allucinazioni nella quotidianità sempre uguale e, tra un’esplosione e l’altra, rimane l’aria ferma e pesante dell’attesa e della paura.
Si è detto che al centro del romanzo c’è una famiglia, ma sarebbe più preciso dire che la famiglia, nel libro, è come spostata di lato, chi scrive la osserva da una posizione dislocata, lontana.
E al centro, per l’esattezza, c’è una sparizione: il tentativo del figlio (che è voce narrante) di recuperare, attraverso la scrittura, la figura fantasmatica della madre, schiacciata sotto il volume ipertrofico del padre fino a sbiadire.
Il padre è la legge cui il figlio ha creduto e ubbidito ed è rimasto sempre al centro della scena e dello sguardo filiale (tra idolatria e legittima difesa, dice chi parla, o per codardia, direbbe sua sorella); l’autorità del paterno è tanto ingombrante da invalidare il resto e occorre spostarlo per scoprire che esiste qualcosa al di fuori (“fuori dalla finestra, sul balcone, c'è Roma. Tolta la figura di mio padre il mondo è grande: c'è spazio per le palazzine, per il cielo, e per mia madre.”).
La narrazione costruita dal padre è una trappola per tutti, un “piccolo universo concentrazionario”, un sistema chiuso all’interno del quale ognuno occupa un ruolo simbiotico alla tirannia paterna e qualunque rivolta viene soffocata e riassorbita. E la madre cede al dispotismo del marito ogni parte di sé, “il tessuto nervoso, il suo slancio verso la vita e la fantasia”: colpita a morte, si lascia morire per sopravvivere e perché il sistema non frani.
Nel romanzo familiare di chi racconta, la madre è figura marginale, trascurabile, vittima e colpevole di aver accettato quella posizione subalterna e sconfitta, non per paura del marito, ma per una rassegnazione all’infelicità, una rinuncia alla vita, “perché essere niente era almeno qualcosa”.
Il proposito di chi scrive è dar corpo e luce a quel niente, sganciarlo dalla figura paterna di cui è superflua appendice (“scorporare mia madre da mio padre, dunque, equivale a estrarla da quell’oscurità per farne a tutti gli effetti il personaggio di un romanzo”).
“Per questo, potrei anche dire, non ho mai scritto un romanzo prima d’ora. Un dispositivo, cioè, che dia corpo a un universo di cui non sono stato testimone diretto, se non parzialmente. Un dispositivo che produca fatti, pensieri e persino una memoria del tutto differente, alternativi, generati nell’atto dello scrivere” scrive Bajani e sta forse qui la ragione dietro la precisazione che cade nel frontespizio.
Subito sotto il titolo si legge “un romanzo”, come a ricordare la qualità della materia che si sta maneggiando, che è “conseguenza dunque più dell’invenzione che del ricordare”, e sembra l’unica via per ricostruire una storia, colmare lacune, ricucire memoria e ferite.
Nel ricordo di chi scrive la madre è difficile da individuare, “non c’è spazio che le competa, non c’è angolo di appartamento, stanza, sedia, finestra in cui la riesca a mettere a fuoco del tutto”, gli unici elementi che affiorano sono le anomalie che richiamano lo sguardo su qualcosa che altrimenti passerebbe inosservato, come la ferita sulla gamba causata dalla poliomielite, difetto che viola la sua invisibilità, dettaglio di troppo che presuppone una storia.
I rari racconti che la riguardano, tramandati nella tradizione familiare, non servono a restituirle profondità, così lontani da sembrare ricordi di un’altra; sono invece i pochi squarci nel velo della sua monotona esistenza, piccoli, inutili e strazianti atti di protagonismo, a restituirle vita e colore: lei sola con i figli sul treno verso il mare, il suo profilo contro il finestrino abbagliato dalle luci del Tirreno; lei su una bicicletta che corre verso l’ospedale dopo una caduta del figlio, che spinge sui pedali attraverso i prati e sulla circonvallazione e poi al ritorno camminano piano, vicini a una pace senza futuro; lei che, per breve tempo e per concessione del marito, lavora in un supermarket e insieme a una precaria illusione di indipendenza riconquista anche il sorriso e qualcosa da raccontare.

Ma nella tessitura della storia si illuminano anche, per contrasto, scene e gesti che sanciscono la sua subordinazione e questa volta la madre si ripiega nel ricordo e i protagonisti sono gli oggetti che la inchiodano alla sua resa, con una tristezza dai toni quasi grotteschi: lei che va al primo appuntamento con il futuro marito con una grossa sveglia da camera in mano perché non trovava l’orologio da polso e temeva di tardare; lei che si lava i denti con l’acqua dello scarico prima di una partenza, perché i rubinetti erano già chiusi; lei che raccoglie le macerie dopo la furia distruttiva del padre, sul naso gli occhiali a cui manca una lente, perché togliendoli non vedrebbe più nulla; lei dietro il plexiglass di una cabina telefonica, mentre cerca la voce della sua famiglia lontana subendo lo sguardo del paese che violenta la sua timidezza, perché il marito si rifiuta di avere un telefono in casa.
Il telefono è uno degli oggetti chiave del libro, simbolo del legame con l’esterno e con la famiglia, che viene dapprima negato dal padre, poi assoggettato, come tutto il resto, alle sue leggi e ai suoi umori. Il filo del telefono diventerà poi il principale canale di contatto con il figlio lontano e il vincolo che lo trattiene dentro quella storia, prima di essere definitivamente reciso (“la voce di mia madre era la porta che si apriva, e imparare a discernere, nella vibrazione delle sue corde vocali, l'assenza di pericolo dalla guerra in corso era un istinto che possedevo da tempo”).
Come nel romanzo precedente di Bajani, Il libro delle case, si ritrova qui una poetica dei luoghi e degli oggetti familiari, unici appigli per costruire un racconto fondato sul ricordo e sulla ricostruzione, seppur frammentaria, dell’altro, di sé, e della propria storia.
Nel romanzo precedente di Bajani l’unica casa priva di indicazione temporale era la Casa dei ricordi fuoriusciti, la scatola nera della memoria, che raccoglie anche ciò che non si riesce a ricordare, e solo la finzione letteraria rendeva possibile l’esercizio di tenere insieme le schegge di un io disgregato e moltiplicato, disseminato nei luoghi che aveva attraversato.
“Questo accedere, attraverso l'invenzione, a ciò che il ricordo non possiede, è precisamente la forza brutale del romanzo. Che si disinteressa quasi sempre del reale e fornisce sempre il vero” ribadisce Bajani in questo suo ultimo libro, e anche qui luoghi, oggetti e paesaggi sono strumenti di quell’opera di ricostruzione che tenta il romanzo, con una scrittura che indugia, torna sui suoi passi, ricalca il segno, traccia traiettorie e confini e cerca un tono descrittivo e nitido, che non cede all’enfasi o al sentimento, un vocabolario chirurgico e preciso, capace di restituire con precisione l’autopsia della perdita, in un esercizio di riduzione e sottrazione che si spinge fino a incidere piccoli punti di poesia. E precisione e poesia sono l’unica via per cercare di dire ciò che non si può dire.
Se al centro del romanzo c’è il vuoto del materno da ridefinire, l’oggetto vero è nel titolo, e nel tempo che esso presuppone. Sta in quello iato temporale, i dieci anni dalla separazione dai suoi genitori, la possibilità di dire qualcosa del distacco, della cesura dalla famiglia di origine, della scelta di venire meno che appare quasi blasfema in una cultura in cui la sottrazione del figlio suona più violenta degli abusi familiari, e il dispositivo del romanzo permette di formulare una domanda impossibile: “si possono abbandonare i propri genitori? O meglio, ci si può sottrarre a loro, semplicemente togliendo il proprio corpo di mezzo con un gesto netto e definitivo?”.
L’azione di sottrarre è un verbo che ritorna, nel libro si contano una quindicina di occorrenze della radice nelle sue diverse declinazioni.
Si sottrae sua madre, alla vita, a sé stessa e ai suoi figli: “in ogni scena – mio padre che colpisce il figlio a mani nude o lo spinge contro il muro pronto a farlo – mia madre non compare. O meglio, in ogni scena mia madre guarda altrove. Più che il corpo di mio padre che sovrasta, è quello di lei che si sottrae. Quel sottrarsi, per timidezza o per timore, è quello che mi resta”.
“Pur di salvarsi, si era trasferita altrove, in uno spazio intermedio tra il succedersi delle cose e il suo prenderne atto” e in quell’altrove la madre si sottrae ma non del tutto, si mette tra parentesi, rimane dentro il sistema e dentro un’infelicità che fa da rifugio, distoglie lo sguardo. In quello sguardo che si sposta c’è tutto il peso di un abbandono che grava sul figlio, un tradimento che la sconfigge.
È una sottrazione anche l’operazione che chi scrive fa per ritrovare la madre (“scorporare mia madre da mio padre significa, letteralmente, sottrarla all’invasione con cui la figura di mio padre si è imposta sistematicamente al nostro immaginario”), e nella “spietatezza di questo tentativo di sottrazione al buio, l’atto crudele di portarla in piena luce” risiede l’ultimo atto di pietà del figlio tradito.
Di sottrazione parlava anche Rachel Cusk quando descriveva i suoi soggiorni a Coventry come punizione dei suoi genitori: “è impossibile scambiarlo con qualcosa che non sia una deliberata punizione. E il tentativo di recuperare potere sottraendosi, allo stesso modo in cui un bambino inerme immagina la propria morte come una punizione per gli altri”. Ma il silenzio dei genitori, imposto alla figlia come ricatto d’amore, è l’opposto del potere, perché sottende il rischio che l’esiliato non desideri più ritornare.
Al contrario, l’autoesilio a Coventry diventa rivendicazione del proprio potere, un’affermazione di libertà non scevra del dolore connesso al lasciare una storia incompiuta, all’uscire da una storia e non farne più parte.
“La guerra è una narrazione” dice Cusk e per restarci occorre la disponibilità alla sospensione dell’incredulità, occorre credere che sia l’unica storia possibile, ma “alla verità, come alla gravità, si può resistere solo fino a un certo punto, perché resta ad attendere tetramente, il dissiparsi della fantasia”.
È questo l’atto terribile del figlio di L’Anniversario, uscire dalla guerra di quella storia e cercare di costruirne una nuova. Un’altra sottrazione, questa volta a un sistema di cui si mette in discussione la verità; la rinuncia all’eredità di quella narrazione, al suo linguaggio, la ricerca di parole nuove.
Alla terapista a cui mette in mano le macerie di una storia dolorosa e violenta, chi racconta dice che è grato per “l’avermi spiegato che uno dei modi per esprimere la violenza era la distruzione, ma che l’altro, più importante e per così dire virtuoso, era la precisione.”
Rachel Cusk, che tra le macerie decide di stabilirsi, scopre che “anche altri hanno deciso di venire qui; hanno, per così dire, mandato se stessi a Coventry, in cerca di silenzio, di qualsivoglia verità sia reperibile fra le rovine fumanti della storia”.
In esergo, in L’Anniversario, si legge una citazione da Candor, di Anne Carson: “Se non sei la persona libera che vuoi essere, devi trovare un posto dove dire la verità al riguardo. Dove dire come stanno le cose per te”.
L’ultimo libro di Bajani sembra fare questo: spostarsi, mettere spazio e tempo fra sé e una verità rifiutata, e, da quel posto nuovo, tornare tra le rovine ancora calde e cercare finalmente le parole per dire la propria storia.
