Caterina Bonvicini, la bambina sull'Endurance

2 Ottobre 2024

Molto molto tanto bene (Einaudi, 2024) è una frase che pronuncia Amy, una bambina ivoriana che chi racconta, insieme alla squadra impegnata su una nave ONG, ha salvato dal mare.

“Spesso la saluto con un Ti voglio molto bene o Ti voglio tanto bene, e Amy fa due conti. Per aggiungere quantità, basta usare tutti gli aggettivi insieme. – Ti voglio molto molto tanto bene, – dice”.

Quello che segna l’inizio della storia è solo uno dei moltissimi salvataggi in mare a cui la voce narrante, che porta nome e vissuto dell’autrice, prende parte, durante le numerose missioni sulle navi ONG per il soccorso ai migranti, su cui si imbarca come giornalista.

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Ogni salvataggio è diverso, Caterina lo sa bene, ma quello raccontato nel romanzo per lei lo è di più, perché in qualche modo continua, anche fuori dalle acque di quel mare volubile e inafferrabile, divinità insondabile e spietata, dalle tante facce, dalle innumerevoli lingue.

In Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie (Einaudi, 2022), reportage narrativo e fotografico (con le foto di Valerio Nicolosi) Caterina Bonvicini aveva già provato a raccontarlo, dando voce ai protagonisti che in quelle acque cercano e portano salvezza, in un mare che pare un mondo a parte, con leggi e regole sue, ma è un “mondo come il nostro, sbagliato”.

Nel suo reportage Bonvicini accompagna chi legge sulle navi per il salvataggio in mare, sui rhib, le imbarcazioni gonfiabili a chiglia rigida che si tuffano tra le onde per soccorrere i migranti in distress, sul ponte, dove, a salvataggio concluso, ha modo di parlare con i sopravvissuti, di raccogliere ferite, ricordi e speranze, e nelle riunioni di addestramento, durante le quali si apprendono la prassi, le regole, i riti e il vocabolario necessari per sapere cosa fare quando ci si trova in mare aperto, davanti a un gommone che sta affondando e a onde alte disseminate di corpi e voci che chiedono aiuto.

“Il trucco è non guardare quella persona. Bisogna dimenticare l’individuo” spiegava Ottavia, a capo della squadra di salvataggio durante una sessione di addestramento: “Stavo dicendo che in questo mare devi sollevarli, gli occhi […] per avere una visione più ampia. La tua visione deve essere a trecentosessanta gradi. Perché solo così puoi accorgerti che pochi metri più in là altre due persone, diverse da quella che hai sotto il naso, la persona che ti coinvolge, altre due, ancora senza salvagente, stanno affogando. E sono loro, gli ignoti e i lontani, la priorità.”

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Per svuotare il Mediterraneo dalla morte, per salvare le vite che ci si lanciano contro, bisogna aprire lo sguardo, misurare tempi, distanze, possibilità, dimenticare l’individuo, limitarsi ad accompagnarlo nel breve pezzo di mare in cui lo raccoglie e poi lasciarlo ad altra terra, perché altri attendono di essere salvati.

Per raccontarlo il Mediterraneo, invece, “immenso, sterminato e vuoto, come ti appare durante una traversata – puoi solo aggrapparti ai dettagli. Una visione del problema dall’alto rende tutti troppo ragionevoli, o troppo irragionevoli. E questo ci fa perdere umanità. I dettagli invece destabilizzano, diventiamo più fragili e quindi più capaci di cogliere la fragilità degli altri. È il dettaglio che agisce davvero su di noi, e ci cambia”.

La letteratura, d'altronde, è “scienza del dettaglio”, così, nel romanzo Molto molto tanto bene Bonvicini decide di fare l’esercizio inverso, restringe la focalizzazione, isola il momento in cui il suo sguardo si è posato per la prima volta su Amy e da lì sulla sua minuscola famiglia esplosa e poi ricomposta, e infine racconta di come ha provato a non distoglierlo più lo sguardo, perché non smettesse mai di salvarli.

Cate, imbarcata come giornalista in quota stampa sull’Endurance, nave ONG impegnata nella SAR libica, si trova in mezzo al mare mosso, trenta miglia a nord di Zawiya, alle prese con un salvataggio critico. Tiene in braccio un neonato che piange e si dimena, intorno a lei persone urlano, si gettano sul rhib, la situazione è fuori controllo, “poi arriva lei. Una bambina che può avere cinque o sei anni. L’unica calma. Il tempo rallenta di colpo, il mio sguardo si ferma, la sua entrata in scena sembra durare un’eternità. Sorride tranquilla, come una diva che sale su un motoscafo nella laguna di Venezia”. Amy resta seduta composta, con il suo berretto nero di lana pieno di strass che scintillano sotto al faro di pattugliamento, Caterina è come ipnotizzata, Amy sorride e fa ciao con la mano.

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Da quel momento lo sguardo di Cate la segue. Sul ponte mentre gioca e disegna, nella sala del medico, mentre tiene la mano alla madre Chantal, una giovane donna che ha fatto la traversata in stato di incoscienza e che la bambina accudisce con dolcezza e serietà, e poi ancora, fuori dal mare, quando le due, madre e figlia, entrano nel Cara, il centro di accoglienza per richiedenti asilo, e Cate compra loro un telefono e invia pacchi con vestiti e giocattoli. Cate sente Amy ogni giorno e lo sguardo si fa discorso, relazione, legame affettivo.

Amy la chiama “mamma”, Chantal comincia a chiamarla “mamam chérie” e Cate fa spazio, nella sua casa, nella sua vita e dentro di sé, per fare entrare anche loro, per dar loro un posto e un futuro.

Non accade per tutte le persone che si salvano, gli incontri sulle navi umanitarie riempiono testa e cuore, ma solitamente si esauriscono sul ponte, o sulla scaletta che quelle vite venute dal mare percorrono per scendere dalla nave: “li incontri che hanno già fatto la traversata, prima e dopo non sono tuoi” scrive Bonvicini, “ti vergogni perché li salvi e basta. Tutto quello che succede prima e dopo è fuori dalla tua portata: sei completamente impotente davanti al loro passato come davanti a loro futuro”.

Il mare è un luogo di mezzo, un luogo altro, la traversata è un momento, una cesura tra un prima e un dopo, e in quell’interregno di acqua e cielo vengono a galla storie che quasi sempre raccontano dei punti in cui le vite si sono incagliate, arenate, hanno iniziato a girare a vuoto.

E sono proprio i dettagli che riescono a bucare la distanza più grande del Mediterraneo, quella che separa chi è da questa parte da quelle vite che ci si tuffano dentro perché non trovano altra via; sono i dettagli a trapassare l’indifferenza, il non riuscire a capire, perché “i nostri corpi non hanno idea di quello che succede ai loro e questo è il primo grande limite all'empatia”.

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Bonvicini quei dettagli li raccoglie con delicatezza e attenzione, come qualcosa di fragilissimo e prezioso, qui, come in Mediterraneo.

Amy, ad esempio, ripete la sua età con una curiosa precisione – “cinque anni e sette mesi” –, ma è la precisione di un orologio rotto: “per essere davvero fiscali, durante la traversata Amy aveva cinque anni e nove mesi. Ma è stato suo padre a insegnarle tanta esattezza, e lui è morto in Libia quando lei aveva cinque anni e sette mesi. Da quel momento in avanti nessuno l’ha più corretta. O nessuno le ha più chiesto l’età”, e lei è rimasta ferma lì.

C’è un punto preciso in cui la vita si inceppa e, una volta salvi, lo si racconta, per farla ripartire. 

Per alcuni adolescenti del Bangladesh, ritratti in Mediterraneo, erano i pianeti: “era stata l'ultima lezione quando erano ancora in Bangladesh e andavano a scuola. Poi tutto si era interrotto, in Libia li avevano messi a cercare oro. Ma a loro era rimasta la curiosità e così chiedevano ad Alessandro: “e Venere dov'è? E Giove? E Urano?” Erano stati ripescati dall'acqua il giorno prima e sentivano il bisogno di ricominciare da quel cielo che solo in mezzo al Mediterraneo puoi vedere. “E Marte?”.

Per un ragazzo somalo, raccontato in Mediterraneo, era il sole. Imprigionato in Libia, dai quattordici ai diciassette anni, per tre anni non aveva mai visto la luce del sole, perché i carcerieri libici obbligavano i prigionieri a dormire di giorno per poter bere e drogarsi fino all’alba. Una volta sulla nave non aveva più smesso di guardare nella luce: “Il vento si era alzato, ma il ragazzino somalo non si muoveva dalla poppa della nave. Voleva stare lì fino al tramonto, non importava se era il sole freddo e scialbo di gennaio e gli arrivavano schizzi di acqua gelida in faccia e gli restava il sale sulla pelle e sui vestiti. Il dolore fisico a un certo punto passa, ma quel buio – ininterrotto, per mille e novantacinque giorni di seguito – no. Quel buio entra nella testa e bisogna lottare con se stessi per non impazzire”.

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Molto spesso, per leggere le storie che affiorano sul ponte della nave si seguono le tracce lasciate sulla pelle, ferite, bruciature, segni di tortura, che vengono esibiti, narrati, condivisi, perché c’è bisogno che quel dolore, che occupa ormai gran parte di ciò che si è, sia visto, riconosciuto, rivendicato.

Nel romanzo questo vissuto accompagna Cate anche una volta sbarcata; intrecciando la sua vita a quella di Amy, si trova infatti a fare i conti con quello che è rimasto dall’altra parte, che il mare restituisce un pezzo alla volta, con un salvataggio che non finisce una volta scesi a terra, ma perdura e mette a confronto con tutte le contraddizioni che il Mediterraneo porta a galla e con la fatica di tenerle insieme, con i piedi sulla terra e onde alte che continuano a spostare il suo baricentro.

Una volta a terra Caterina scopre che Amy ha un fratello gemello, rimasto in Libia con un’amica della madre. È l’altra metà che a Amy manca, il vuoto che affiorava nei suoi disegni sempre doppi – due delfini, due elefanti, due bandiere.

È la prima volta che Cate ha un rapporto con qualcuno che è ancora dall’altra parte, di solito incontra i migranti una volta che la traversata è già fatta. Improvvisamente sente di avere due figli, di cui uno è dall’altra parte del mare, così si trova a sperare dapprima che non affronti la traversata, poi che non muoia dentro una barca di fortuna, e infine di non trovarlo lei, durante un salvataggio, perché come spiegare, poi, che ha salvato suo figlio per caso, che non era d’accordo con i trafficanti?, come sopportare di riconoscerlo tra i corpi di chi non ce l’ha fatta?

Cate sperimenta “un turbamento diverso, che non avrei mai sospettato di provare: l’egoismo di quello che ti riguarda. Annegato un bambino ghanese, menomale. Morti sei bambini nigeriani…”, la sua nuova posizione poggia su contrasti inconciliabili: l’altruismo di affrontare il mare e l’ingiustizia del mondo per salvare chiunque lo chieda e l’egoismo di sperare che muoia qualcun altro al posto di chi ami; la difesa della libertà dell’altro e l’istinto di protezione, il desiderio di rimanere insieme e il rispetto della volontà degli altri, l’amore smisurato e la fatica dell’incontro e del lasciare andare.

Così Cate porta con sé Amy, Chantal e il piccolo Buba tornato dal mare, coltiva il progetto di un salvataggio che dura, di un dopo, insieme. Ma alle difficoltà della cieca burocrazia, dei permessi e delle pratiche infinite, si aggiunge quel pezzo di storia che è rimasta dall’altra parte del mare e che riempie la mente e la vita di Chantal di confusione, fantasmi, visioni minacciose e bugie, e c’è quella fuga, che le è entrata nelle gambe e nel cuore e non smette di spingerla via: “Ma chi è Chantal? Ne sono stata ossessionata, eppure non sono mai riuscita a capirla. Se mi avesse detto la verità, magari avrei potuto provarci. Ma senza verità, non c’è comprensione possibile. Quando qualcuno ti fa mancar tutti gli elementi, non sai se ti fa più paura la sua immaginazione o la tua, che cerca di ricostruire la sua. Due immaginazioni che si danno la caccia finiscono per provocare una carneficina.” – “Cerco di capirla, ma non ci riesco. Lei non fa nessuno sforzo per capire me. Del resto, non può immaginare la fatica che c’è dietro a qualcosa di banale come la libertà”.

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La difficoltà dell’incontro e della comunicazione è un leit-motiv nel romanzo, Cate si sforza di comprendere, scandaglia con una certa lucidità e ironia i suoi bias, i limiti e le aporie che minano la strada verso l’altro, quando lingua, passato, cultura, desiderio e bisogni non collimano.

Il linguaggio talvolta fallisce, diventa fardello, ostacolo, muro, è per questo che sul rhib le parole da usare sono pochissime, brevi e convenzionali. A volte ci si incontra su una sola parola giusta per tutti, altre volte la comprensione passa da una singola preposizione, che cambia completamente la percezione della storia dell’altro. 

Come nella poesia di Amy: “Ma voi sapete cosa vuol dire Boza? | Boza vuol dire che ho attraversato il deserto nel deserto | e il Mediterraneo nel Mediterraneo”.

La preposizione “nel” Amy la scrive in verde, come un corsivo espressivo: “ci teneva a sottolineare che il mare e il deserto lei non li aveva solo sorvolati, magari in aereo. No, li aveva attraversati proprio da dentro.”  

Anche il romanzo è disseminato, qua e là, da parole in corsivo, si tratta di parole tecniche, con un significato preciso o di parole familiari che acquistano improvvisamente sfumature nuove, o parole nuove, da riempire di senso e di storia, segnano confini, sono porte, ponti da attraversare per arrivare all’altro.

Cercare di capire l’altro, mettersi in ascolto, è un’azione che comporta fatica. Attraversare il Mediterraneo, per Cate, è attraversare vite, storie, dolore; riempie e usura, come le onde del mare (“da vecchi saremo come scogli levigati dal mare, il Mediterraneo logora”). Entrare nel mondo dell’altro, tenere insieme tutti quei mondi consuma: “Sai, a volte il mio cuore è pieno”, – diceva Annabel in Mediterraneo “e allora devo smettere”.

Se in Mediterraneo Bonvicini scriveva del mare che ha attraversato innumerevoli volte, in Molto molto tanto bene racconta un Mediterraneo da cui si è lasciata attraversare, e della fatica di tenersi fermi, in mezzo alle onde che non smettono più di squassarla.

In Mediterraneo Bonvicini racconta che una volta ha tenuto in mano una luce chimica, “una barretta che di solito si distribuisce alla gente in acqua, per non perdere le persone in quel buio, per colpa della corrente”. L’immagine di quella luce artificiale in mezzo alla notte “nera nera nera”, in quelle righe evocava un profondo senso di solitudine: “fissavo la barretta e pensavo che alla fine di notte, in mezzo al Mediterraneo, diventiamo tutti invisibili”.

Anche nel finale di Molto molto tanto bene compare una luce nell’acqua, ma questa volta è un bagliore profondo, affiora dall’abisso scuro di un mare che non si può conoscere né addomesticare, eppure qui, sul finire di una storia senza lieto fine, pare illuminare ancora una possibilità di salvezza, dentro il sole che traballa per sorgere, prima che tutto scompaia.

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