Mezzena Lona e il nero delle storie

4 Marzo 2025

Quando aveva otto anni, lo scrittore Cornell Woolrich andò insieme al nonno a vedere Madama Butterfly a Città del Messico. Assistere al tragico epilogo e alla sorte della protagonista Cio-Cio-San, come ricorderà più tardi, fu il suo primo incontro con la morte, una porta schiusa sul buio. «Avevo la sensazione di essere in trappola – dirà negli anni a seguire – come un povero insetto bloccato in un bicchiere capovolto che cerca di arrampicarsi su per le pareti e non ci riesce, non ci riesce, non ci riesce».

La frequentazione con il mistero e i lati più scuri dell’esistenza caratterizzerà poi grossa parte della sua opera letteraria, trasposta sul grande schermo in numerosissime pellicole, firmate, tra gli altri, da registi come Hitchcock e Truffaut. Ma lui sembrerà sempre restare in disparte, scrittore fantasma, spesso nascosto da pseudonimi o da una fama che lo oltrepassa senza quasi toccarlo. 

Il protagonista di Nero è il colore delle note, di Alessandro Mezzena Lona (Ronzani Editore, 2024) porta non solo lo stesso nome dello scrittore statunitense, ma sembra ereditarne anche il destino e la vocazione. Come lui fa lo scrittore, ma, dopo un’opera inaspettatamente fortunata, riesce a stento a comporre racconti hard boiled, da distribuire sui pulp magazine per soddisfare le fantasie più torbide e cupe dei lettori. Con il suo più celebre omonimo condivide poi un matrimonio naufragato in pochi giorni e un rapporto soffocante con la madre Claire, figura seducente e castrante, che suscita in lui un “amore profondo, malato, straziante, per la sua prigione. Che, poi, era anche l’unico posto dove poteva essere sé stesso, senza sentirsi costretto a recitare uno stupido copione scritto da altri”.

La storia si apre con il protagonista che si decide a lasciare la casa della madre, palesando da subito tratti della sua persona che trasudano incertezza, timore e un atteggiamento verso la vita titubante come la sua balbuzie, “l'aria stropicciata, lo sguardo inquieto, la carnagione pallidissima, quasi grigia, erano perfetti per chi, come lui, era venuto al mondo per rincantucciarsi nella solitudine. Cercando di schivare, quando poteva, gli schiaffoni che la vita gli aveva riservato”.

Le prime scene lo vedono vincere la riluttanza e lasciare la casa, percorrere “il gomitolo di strade che si dipanava davanti ai suoi occhi”, scrutare “l’orizzonte intasato di nuvole buie come una caverna inesplorata”, sfidare i gas di scarico e un vento cattivo “che si faceva largo a spallate tra i palazzi schierati sul lungomare”, per raggiungere la sua nuova dimora, una topaia in un palazzo buio, battezzata Finnegans Wake in onore dell’ospite che l’avrebbe abitata durante la stesura dei suoi più celebri romanzi, e che della presenza di Joyce conserva solo ombre, allucinazioni e cattivi presagi.

In quelle stanze poco accoglienti, l’unico elemento degno di attenzione sono le grandi finestre affacciate sulla strada e sul condominio di fronte. Cornell Woolrich ci guarda attraverso, osserva le luci che si accendono nelle case degli altri, le ombre che le attraversano e le figure che, talora, si fermano davanti, offrendosi al suo sguardo più a lungo. Tra queste compare una donna che, seduta di fronte alla finestra, abbraccia un violoncello e suona una musica che pare provenire da un luogo remoto. Chiuso nella sua stanza Woolrich la guarda, la segue, la fotografa, non riesce a smettere di cercarla, “sicuro di aver intercettato con l'obiettivo una creatura sospesa tra il reale e l'impossibile”.

Solo una donna sapeva suonare così, ma è morta da anni, costretta al silenzio dalla sclerosi multipla, eppure quella donna che affiora dal buio somiglia incredibilmente alla musicista Jacqueline du Pré.

Nella sua mente comincia a farsi strada una storia, al limite tra la realtà e l’immaginazione; intorno alle domande che lo tormentano e contagiano anche i suoi tentativi falliti di scrivere un nuovo romanzo, si costruisce la trama del libro. Woolrich passa le giornate tra la macchina da scrivere e la finestra, bevendo Pernod e spiando dietro il vetro quella donna fantasma e gli altri personaggi che gravitano nel perimetro del suo sguardo; scende nelle strade buie inseguendo il filo della sua storia impossibile, che assume via via tutte le sfumature delle sue storie “nere”, sempre più tetre e violente.

Scuro è anche lo sfondo che accompagna tutto il romanzo, con un cielo cupo e pesante, sempre sull’orlo di rovesciarsi e un paesaggio urbano percorso da fumi tossici e stridori delle strade, acceso da rare luci e dai fulmini che piovono su tetti e illuminano le cose di una luce troppo breve e abbagliante, che le trasfigura e ne sfuma i confini tra realtà e allucinazione.

Il nero del titolo si riversa nella storia e nelle storie che questa contiene e produce, con una scrittura traboccante di segni, rimandi, topoi e cliché del noir e del thriller, una scrittura che pare giocare con il genere, trasformandolo e venendone trasformata, in una sperimentazione a più livelli, che si intersecano e si contagiano a vicenda.

Uno di questi livelli è la sequenza degli Inni alla notte, le tavole illustrate da Romeo Toffanetti e seminate tra le pagine, notturni urbani popolati da ombre che si cercano e si sfuggono, profili neri stagliati contro il blu di un cielo acceso dalle luci elettriche della città e da quella morbida della luna, unico appiglio di una trama scomposta e scura.

Le tavole dialogano con il racconto, gli fanno da controcanto, disegnano una storia parallela, che in parte vi si sovrappone, in parte sembra deviare in una traccia alternativa.

Il concetto di alternativa o doppio è uno degli elementi cardine del racconto; vale per luoghi, situazioni e scenografie, che paiono traslati da fotogrammi di film, o da romanzi thriller, di fantascienza o distopici, tra aggressioni in strada, sparatorie, bar fumosi o allucinogeni, giganti di cemento armato che crescono come mostruose infiorescenze, disordinate o anacronistiche redazioni giornalistiche, un vecchio porto abbandonato che cela loschi traffici e misteriose sperimentazioni con la robotica, il potenziamento umano e la tecnoscienza.

E vale, soprattutto, per i personaggi, che vestono sempre nomi o epiteti di qualcun altro, in alcuni casi ne ricalcano il destino, in altri deragliano bruscamente, costruendo traiettorie nuove.

Così il libro si popola di alterego, versioni alternative, più o meno consapevoli, come il ventriloquo Giorgio Carmelich, che lavorava con un’inedita Dora Maar, o come un alternativo, massiccio e violento Eugène Ionesco, o come il giornalista Alberto Spaini, o Sylvia Von Harden, Tommaso Landolfi, Nora Carrington e molti altri, una “collezione di squinternati” che sembrano venire direttamente dal romanzo che il Woolrich del libro si stava sforzando di scrivere, in cui protagonista è un ladro di biografie che “si innamora di attrici, musicisti, scrittori, personaggi famosi [...] Ma non gli interessa avvicinarli: preferisce conoscere tutto di loro accumulando informazioni. Fino a quando, per scacciare la noia, comincia ad aggiungere ad altri dettagli, date, episodi. Immagina retroscena sicuramente non veri, però verosimili” e “concede alla realtà un’altra possibilità”.

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Alessandro Mezzena Lona.

Lo stesso sembra fare Mezzena Lona, che, in un gioco di specchi, come il personaggio del suo personaggio, “taglia e cuce le biografie. Manipola i file di memoria. Scrive varianti menzognere, eppure credibili, delle vite dei personaggi che prende di mira. Si attiene ai fatti e, nello stesso tempo, li infetta con la fantasia”.

Ogni cosa sembra rimandare a qualcos'altro, tutto pare familiare e nello stesso tempo divergente, suscitando una sensazione straniante che ricorda il concetto di Uncanny Valley, quello spazio di contatto che separa l’umano dall’artificiale e che, all’aumentare della prossimità, si fa perturbante. Un fenomeno descritto a partire dagli anni Settanta, ma che con i rapidissimi sviluppi nell’ambito della robotica e dell’intelligenza artificiale torna utile per spiegare quel cortocircuito tra empatia e repulsione che si prova di fronte a ciò che replica troppo da vicino l’umano, e torna anche nella lettura del romanzo, mentre ci si avvicina sempre di più a uno dei temi chiave del libro, all’idea di un’ibridazione possibile tra essere umano e macchina e alle riflessioni intorno ai confini etici di tali sperimentazioni.

Nero è il colore delle note è un libro interamente costruito sui confini. Sin dalla scenografia che fa da sfondo al romanzo, che “un po’ assomiglia alla mia Trieste, proiettata però in un corridoio spazio-temporale parallelo al nostro. È piena di anime inquiete. Abitata da un progresso fuori controllo. Incarognita dalla totale indifferenza verso l’umanità più miserabile. Ma, al tempo stesso, assemblata come la creatura di Frankenstein con pezzi di mondi diversi”.

È una città di frontiera, sul bordo di un confine geografico, ma anche in bilico tra passato e futuro, con i grattacieli-dinosauri che strangolano la foresta e la città vecchia e l’ultimo avamposto dei “professionisti della nostalgia”, “quattro fanatici dei giochi di guerra incapaci di arrendersi alla fine delle ostilità”, che ancora girano intorno al vecchio confine “imbracciando fucili ad aria compressa e abbaiando ordini nel silenzio dei boschi”.

Anche la scrittura di Mezzena Lona si muove in uno spazio liminale, sul confine tra realtà e immaginazione; il suo protagonista inciampa nelle bolle di intersezione tra queste, gonfiate dall’alcool o dalla sua febbricitante fantasia (“tu percepisci le cose che la tua testolina immagina, mia rondine. Ma non sono vere. Devi considerarle inganni, proiezioni dei desideri. Credimi, soltanto a occhi chiusi vedi la realtà – avrebbe detto Claire”), fino a sfiorare l’ultimo confine, quello che separa la vita dalla morte.

Cuore del racconto è proprio il confronto con il limite della morte e lo sconfinamento al di là di essa, nell’ipotesi di poter trascendere i limiti fisici del corpo umano e riversare l’intera galassia di connessioni contenuta nel nostro cervello in reti neurali artificiali, di ingannare la morte conservando memoria e immaginazione, grazie alla robotica e alla cibernetica.

Simbolo esplicito di tale pulsione è l’operazione oculistica che un misterioso scienziato visionario effettua su una donna che ha perso la vista durante un gioco da bambina, restituendole la luce grazie alla simbiosi delle sue reti neurali, dei bulbi artificiali e di microcamere stereoscopiche.
“Il mercante di luce” capace di restituire la vista si chiama Dippold, come l’ottico raccontato da Edgar Lee Masters.

Ma se il suo alter ego letterario riprendeva brevemente voce, dalla sua tomba sulla collina di Spoon River, per narrare di come in vita avesse provato a creare lenti capaci di allargare l’orizzonte e vedere mondi nuovi, il Dippold di Mezzena Lona, prigioniero dell’ossessione della morte e del tentativo di superarla, “voleva apparire agli occhi del mondo come l’uomo capace di addomesticare il futuro. Come lo scienziato che, per primo, avrebbe ridicolizzato le fragilità del corpo umano”.

Dippold esprime in qualche modo l’energia maschile che nel libro diventa quasi sempre smania di controllo e sopraffazione: mentre le donne sono quasi tutte seduttrici e forti, di una forza resiliente e positiva, gli uomini sembrano impegnati nel grossolano tentativo di addomesticare la vita, di dominare l’altro, con il potere o con la forza.

Anche la voce del Woolrich originale, che risuona nella testa dell’omonimo protagonista sembra esprimere, seppur più goffamente, tale proposito: “Tentavo solo di ingannare la morte. Tentavo solo di superare un po’ il buio che per tutta la vita avevo saputo che sarebbe arrivato a travolgermi, a cancellarmi. Tentavo solo di restare vivo ancora un po’, mentre ero già morto. Di restare alla luce, di essere un altro po’ con i vivi dopo che il mio tempo era già scaduto”.

Eppure Woolrich, che le storie sa solo scriverle, non viverle, che sembra avere scarsa presa sulle cose e sente che ogni sua rivolta si riduca a “una reazione infantile. Perché la ribellione di uno come lui contava quanto una goccia d’acqua nel mare”, può rappresentare il solo “traballante rifugio di chi prova a percorrere i giorni dell’esistenza lasciandosi guidare da una luce flebile”.

In questo senso, Woolrich funziona come maschera allegorica dell’invenzione letteraria, forse l’unica strada per uscire dal buio.

“La storia della mia vita non esiste. Non c'è un centro. Non c'è un percorso, né una linea portante. Ci sono vasti spazi dove si è fatto credere che ci fosse qualcuno, ma non è vero, non c'era nessuno” scriveva Marguerite Duras, e “proprio in questi vasti spazi – scrive Mezzena Lona – si intrufola chi ama inventare trame narrative. Accumula particolari, cuce assieme i dettagli per creare un affresco. Il centro di cui parlava la scrittrice francese. Anch'io, come il ladro di biografie, non mi sono accontentato di quello che già sapevo su certi personaggi amati. Ho voluto andare oltre, aggiungendo nuove traiettorie alle loro vite. Li ho persuasi a celare il volto dietro maschere mai indossate. Li ho fatti diventare altro da sé.”

Funzione della letteratura, in fondo, è smontare la realtà e ricomporla e come nel paradosso della nave di Teseo, il rischio o l’auspicio è che, alla fine, della realtà di partenza non resti più nulla, che la voce che racconta, come nel titolo del romanzo incompleto di Woolrich, sia sempre un inganno.

Ma “in fondo, che cosa chiede la gente a uno scrittore? – si ripeteva Cornell – Di raccontare bugie, per difendersi dalla vita. Più grosse saranno le balle contenute nei suoi libri, più venderà e sarà amato”, e sta lì, in quell’inganno, il gioco salvifico dell’invenzione, “tra la letteratura la realtà e il privilegio di fantasticare”.

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