Pierpaolo Vettori e l’imperatore distopico

10 Gennaio 2024

“Oggi non riesco a vivere” sono le prime parole della voce narrante nell’incipit de L’imperatore delle nuvole (Pierpaolo Vettori, Neri Pozza, 2023). Si chiama Franco Zomer, ha cinquantadue anni e da quando è ragazzo lavora come guardiano al Muro, un “serpente di ferro, pietre e cemento” in continua espansione sulle coste nordafricane, che disegna i confini europei con una barriera invalicabile.

Siamo in un futuro alternativo che ha i tratti distopici di una realtà vicinissima e inquietante.

Sulle carte il Muro è una linea di oltre milletrecento chilometri che attraversa quattro stati africani e infrange i flussi migratori prima di arrivare al Mediterraneo.

“Sembra impossibile ma, una volta, i migranti sbarcavano direttamente sulle spiagge europee. Improvvisavano barconi fatti di bidoni di lamiera, con quattro assi fissati alla bell'e meglio e nessuna vela, oppure cercavano di arrivare su gommoni o addirittura legandosi tra loro con salvagenti fatti di camere d'aria. Molti morivano ma tantissimi riuscivano ad arrivare a nascondersi nei boschi dove sopravvivevano uccidendo cani e conigli. Trasformare le coste meridionali del Mediterraneo in protettorati ha risolto gran parte del problema. È bastato spostare in Africa le frontiere europee e desertificare la zona al di là del confine con prodotti chimici. Adesso, chi cerca di arrivare da noi deve attraversare una terra di nessuno arida e pericolosa dove pochi riuscirebbero a sopravvivere.”

Nel 2026, in seguito a diversi attentati che hanno colpito il vecchio continente, Stati Uniti ed Europa hanno convenuto, in un’ordinanza ufficiosa, di blindare i propri confini con il muro del Messico e quello di FRASPI (Francia, Spagna e Italia), sulle coste dell’Africa, impedendo il passaggio a chiunque non fosse in possesso di un passaporto europeo o statunitense. 

Compito dei guardiani come Franco Zomer è vigilare affinché il Muro non sia attraversato, proteggerne i varchi, distribuire fogli di respingimento, sguinzagliare i pit bull se qualcuno insiste troppo, passare le notti a indagare il deserto, individuare movimenti nel buio, mirare, sparare.

Zomer si trova incastrato in un contesto militare apparentemente rigido, edificato su fedeltà, disciplina e un banale quanto spietato sistema di colpe e punizioni che si rivela però fallato e si tiene in piedi grazie a un largo uso di sostanze psicotrope e stimolanti per dimenticare una verità lampante, ossia che l’intera impalcatura che regge il Muro e il sistema che lo circonda è fondata su un inganno e la missione di chi lo presidia, su un’intollerabile, manifesta ipocrisia.

La rivelano i maxischermi luminosi che ricoprono i settori più frequentati del Muro e su cui scorrono pubblicità e inviti al consumo di musica, beni e prodotti degli sponsor, inframezzati da qualche straniante messaggio umanitario.

Il Muro stesso è diventato negli anni un’attrazione turistica, su cui i giapponesi organizzano matrimoni e gli europei gite ed escursioni, come alle piramidi, o alle cascate e che le giovani turiste oltrepassano in cerca di avventure pericolose da raccontare agli amici.

Franco e i suoi colleghi, trasfigurati da soprannomi ed epiteti in personaggi di un’epica di serie b, si muovono in luoghi che somigliano a un set cinematografico, approntato senza troppa cura per intrigare i turisti e illudere i disperati che, come falene, vanno a bruciarsi sotto le sue luci al neon.

Franco lo sa fin da quando era bambino, da quando il padre, anche lui guardia muraria, lo aveva accompagnato all’inaugurazione di un nuovo settore e lui aveva assistito con sgomento alla rivelazione di un’enorme nuovissima parete di specchio, progettata per annullare alla vista ogni barriera replicando all’infinito, nel suo riflesso, cielo e deserto e spalancando alla vista un orizzonte ingannevole e in quell’illusione di libertà gli uccelli avevano cominciato a schiantarsi e morire.

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Pierpaolo Vettori.

Dolorosamente ipocrita è anche il teatrino che quotidianamente i guardiani devono mettere in piedi per respingere i migranti che ogni giorno si riversano lungo il Muro con passaporti falsi e speranze vane, e che vengono rispediti indietro con la garanzia di un pasto caldo e la promessa di poterci riprovare. Franco Zomer li guarda da postazioni vetrate sopraelevate, studiate per incutere frustrazione e soggezione. Da lì sembrano colonie di formiche in cortei da cui si alza un canto, talvolta gioioso, altre lugubre; “vengono con qualsiasi mezzo: furgoni scassati, pullman rubati chissà dove, biciclette, motorini, alcuni anche in strane carovane a metà tra il film western e il circo straccione trainate da cavalli talmente magri da sembrare giraffe grigie. Poi segue la folla a piedi, come una processione. Molti cantano e questa è una cosa che mi stupisce sempre. Se io fossi in loro l'ultima cosa che mi verrebbe in mente è cantare, eppure lo fanno. Tutti in coro, senza conoscersi e senza parlare la stessa lingua”.

Franco aveva giurato a sé stesso di scegliere una vita diversa da quella del padre, si era quasi laureato sulla poesia di Rilke, ma dopo qualche fallimento e una serie di lavori precari era finito a piantonare quel muro e a tornare a casa con la stessa faccia triste del padre, a prendere parte a quella farsa riempiendosi di anfetamine, sognando il viso di una collega e i turni insieme a lei, a bordo di un pick-up che attraversa la notte con il sottofondo dell’autoradio, musica country per trasformare quel deserto fittizio nel far west, canzoni ridicole infilzate, come da spine, dalle interferenze con la voce dei muezzin e dalle preghiere che si sollevano nell’aria morta.

Adesso vive a cavallo del Muro, tra la sua casa a Gadjia, città tirata su con materiali scadenti insieme alla barriera, fatta di case addossate una all’altra e rubinetti che sputano acqua sporca come fango, e Kadjouine, città di nessuno al di là del muro, ritrovo di migranti e delinquenti, con i bar pieni di alcolici scadenti e di videogiochi immersivi che regalano la speranza di un facile guadagno e l’illusione di una seppur provvisoria ed effimera via di fuga.

Il deserto intorno a Franco si moltiplica, sempre uguale, a perdita d’occhio, una distesa di pietre seminata di trappole e tagliole che non offre alcun appiglio, in cui disperazione, desolazione e ferocia sembrano estirpare ogni residuo di poesia.

Quello descritto da Vettori, in pagine intrise di lirismo smorzato dal disincanto e disinnescato dal tentativo di descrivere una realtà in cui la poesia non può attecchire, è un deserto a tratti buzzatiano, da scrutare all’infinito aspettando qualcosa che non arriverà mai, ma è anche un biblico interregno di deprivazione, introspezione e trasformazione spirituale, disseminato di miraggi e tentazioni.

Qui nascono divinità terrene e mutaforma, attecchiscono profezie e leggende antiche, come quella di una balena preistorica sprofondata verso le radici della terra, un enorme leviatano sopito che infesta i sogni e le fantasie allucinate che fioriscono intorno al muro.

L’enorme mostro marino dà nome anche alla nuova sostanza messa in circolo dalla malavita locale, la Moby Dick, grosse sfere bianche che promettono uno spazio onirico in cui è possibile tornare indietro nel tempo, al momento della propria vita che si vorrebbe cambiare, interrompendosi però appena prima di poter agire sul passato e mutarlo.

Per Franco è una giornata di sole al mare, insieme alla famiglia e alla sorella più piccola, il momento preciso in cui gli si spalanca davanti un vuoto che non si chiuderà mai più. Ma è anche l’illusione di una via d’uscita, per lui, per tutti, che assume le forme incerte e confuse delle leggende che migrano di bocca in bocca e crescono arricchite di parole e speranze nuove.

Per tutti gli altri, per quell’umanità in cammino, per quel popolo giovane senza passato che sa camminare solo avanti, la droga che trascina indietro nel tempo non fa che annientare anche il fragile futuro.

L’ennesima contraddizione trafigge Franco, che si sforza di guardare alle file di persone che implorano scampo dalla loro miseria, come a cumuli di stracci, bocche affamate di salvezza che raccontano disperazioni tutte uguali. Franco sa che numericamente potrebbero soverchiare lo sparuto gruppo di guardiani e burocrati del Muro, ma sa anche che “non lo faranno mai, perché loro non vogliono farci la guerra, vogliono solo passare, vogliono diventare come noi”.

Franco inghiotte pastiglie bianche e voluminose come cetacei in miniatura e per una manciata di minuti sembra trovare il filo che lega le cose, che tiene insieme disperazione e poesia, promesse e bugie.

“La menzogna odia abitare nel nostro corpo. Fa di tutto per uscire” dice Zomer, e per non esserne annientati bisogna trovare un senso, anche in quel luogo in cui il senso sembra essersi irrimediabilmente smarrito.

Così affiora la fantasia che tutto sia collegato, le antiche leggende, le traiettorie spezzate dei viaggiatori del deserto, i serpenti parlanti che strisciano tra le pietre, lo scheletro sbriciolato di un mostro marino preistorico, la statua del profeta Giona che sprofonda nel sogno, la promessa di una salvezza, di una fine.

Così si alternano i piani, fino a rendere arduo discernere i sogni vividi da una realtà allucinata, fino ad attorcigliarsi sul finale in un nodo che non riesce più a sciogliersi.

Tutto sembra suggerire che l’unico modo per uscire da quella realtà distopica sia rovesciarla in un’utopia condivisa, affidarsi a una gigantesca divinità addormentata, dimentica di noi e dei nostri peccati, scommettere tutti insieme su una fede senza incrinature, che possa trasformare il trauma collettivo in arca di salvezza, o forse è solo l’ultimo abbaglio di un’esistenza che si spegne, inutile poesia, l’assurda illusione di aver presa sulle cose, di poterne dirigere il verso, la direzione, di poter muovere con un dito nuvole e destino.

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