Giulia Corsalini: fantasmi del passato
“La condizione della memoria”, che dà il titolo all’ultimo romanzo di Giulia Corsalini (Guanda, 2024) è un luogo in cui abitare, uno spazio mitico in cui cercare rifugio e risposte, nell’illusione di impedire alle cose di perdersi o di finire.
Quando inizia il racconto, Anna, protagonista e voce narrante, deve fare i conti con diverse forme di abbandono: un matrimonio appena finito, un figlio ormai adulto e lontano, un padre che non c’è più e una madre che mostra i primi segnali di una resa; “facevo i primi assaggi della solitudine di una famiglia divisa, – dice – una solitudine che scavava il vuoto in ogni paesaggio che potessi ammirare, nell'eleganza, nell'agio di un albergo, in ogni cosa che ormai ero impossibilitata a condividere e che per questo aveva il sapore di un frutto tardivo dolciastro e stomachevole; di quella vacanza triste come sarebbero state ormai tutte le mie, ricordo come unica esperienza reale, ossia impressa nelle mie emozioni, quella breve deviazione, quel paese, la evidente contraddizione di un passato pullulante di vita con un presente carico di una vita che non ha nulla a che fare con la precedente.”
In viaggio da sola verso la costiera amalfitana, Anna sfiora il paese d’origine del nonno materno e sente il desiderio di rivedere i luoghi dell’infanzia di sua madre, da cui manca da quand’era ragazzina. Si ferma allora per una sosta, quasi un inciampo, tra le vie strette di quel paesino arroccato su una rupe della Ciociaria e, attraversandolo, avverte i ricordi farsi più nitidi nelle parole dei paesani, tra pietre e strade che sembrano custodire storie e memorie improvvisamente accessibili.
Anna decide quindi di tornarci con la madre, affaticata nel corpo come nella memoria dal tempo e dalla malattia, e di passare un’estate nella casa che la madre ha abitato da bambina insieme alle tre zie paterne, e che ancora conserva parte del mobilio originale, ma soprattutto reperti e reliquie della vita che l’aveva abitata.
Anna osserva sua madre, indagando nel suo sguardo stanco l’effetto di quel ritorno: “era dunque tornata a salire la grande scala di pietra logora che saliva da bambina e lo aveva fatto completamente frastornata più ancora che per la malattia che, senza che lo sapessimo già le premeva sul cervello, per l’improvviso avvertimento del tempo vissuto lontano da quel luogo, i settant'anni di vita trascorsi altrove, separato dalla propria infanzia e da lì; un'intera esistenza che in quel momento doveva sembrarle smisurata e insieme breve come un soffio”.
Tra le stanze di quella casa, insieme alla madre, ad Anna sembra di muoversi in uno spazio altro, in un tempo che contiene in sé anche tutti i tempi che lo hanno preceduto, e in alcuni momenti pare di sentire il fruscio dei vestiti delle zie, di sentirne le voci, “per entrambe – dice Anna – si era fatto chiaro che l'intimità che ci legava era il relitto di una vita in stato avanzato, e ci stringevamo in quella convivenza estemporanea con lo stordimento di due sopravvissute. In quella casa, com’era inevitabile, storie più antiche chiedevano udienza”.
Tutto il paese pare traboccare di quella memoria depositata nei luoghi e nei ricordi di chi è rimasto, una memoria stratificata e imprecisa, labile e malferma, riplasmata dal desiderio, dalla colpa, dallo sguardo che si volge indietro e chiede il conto di ciò che è stato e di ciò che sarà. E la stessa materia sembra comporre il romanzo, nel tentativo di tenere insieme passato e presente, sovrapponendo piani che non riescono a collimare.
Lo scenario in cui si muovono i personaggi è segnato dall’abbandono; è un paese di finestre chiuse, strade silenziose, ruderi e crepe nelle pareti, svuotato dalla vita che aveva acceso le stanze dietro gli intonaci scrostati e le facciate in rovina e anche laddove ancora resiste una premessa di futuro, come nella villa decadente di fronte alla casa di Anna, con i balconi colorati dai panni stesi e il vociare animato dei giovani migranti che la abitano, ogni rivolta sembra appianata, soffocata nell’immobilità di un passato che non smette mai di finire.
Incastrata in un presente che le sta strappando gli ultimi appigli, di fronte a un futuro che sembra inaccessibile e vuoto, Anna rimane aggrappata a quello che ancora resiste della vita che è stata fino ad allora, e tutto ciò su cui posa lo sguardo appare appesantito da una storia che non lascia spazio al divenire.
Anche Luca, ultimo erede della famiglia che aveva occupato in un tempo remoto il palazzo su cui si affaccia il balcone di Anna, e con cui lei coltiva un’amicizia nell’estate di villeggiatura, per quanto si adoperi per cambiare, per costruire qualcosa di nuovo, si ritrova irrimediabilmente zavorrato dalla sua storia ingombrante. Nelle descrizioni di Anna anche Luca indugia tra i ricordi del prestigio di un tempo, invischiato in cimeli e simboli spenti, come il giardino della villa, una volta svuotata dagli ospiti della cooperativa per migranti, che “immerso com'era nell'umidità invernale, conservava e ricordava la malinconia dei pomeriggi di un tempo, il chiaro scuro profondo e intimo del passato, quando di pianta in pianta veniva chiudendosi la sera e dentro si accendevano finalmente le luci del salone” o i piccoli libricini di memorie storiche compilati dal padre, “ricostruzioni accurate che lasciavano pensare a una forma di gratuità, di abnegazione, potevano sembrare addirittura maniacali tanto erano minuziosi nel ricostruire episodi secondari di una storia molto più grande e già raccontata”.
Tutto nella visione di Anna sembra rimandare al passato “il paese, la casa delle zie, la sua, mi suggerivano delle riflessioni, intorno alle quali, in modo molto confuso, si coagulavano delle storie, che riguardavano il nostro passato familiare e un presente da cui mi sentivo interpellata. Volevo capire alcuni aspetti della nostra vita e allo stesso tempo avevo bisogno di allontanarmi dalla mia situazione consueta [...] Volevo rifugiarmi, piuttosto, in una sfera per così dire mitica del nostro passato, nella quale i giorni riacquistassero la profondità e in qualche modo il fascino del tempo; non sapevo come spiegarlo, ma cercavo un passato non personale e tuttavia per me riconoscibile e familiare, che nella mia prima breve visita a quel paese mi aveva attratta con l'ascendente dei ricordi”.
Sul punto di perdere anche l’ultima battaglia contro il tempo (“crollata con mia madre l'ultima roccaforte alle mie spalle, ora il tempo avrebbe consumato e battuto me”), Anna cerca disperatamente di trattenere con le parole un passato che affiora e le scivola tra le mani, tentativo riflesso nella scrittura, disseminata da periodi vertiginosi che si srotolano sulle pagine raccogliendo a strascico dettagli, incisi, analessi, quasi a volersi sforzare per strappare una parola in più all’oblio, in una corsa affannosa e vana per dire le cose, in modo che non svaniscano per sempre.
Se sua madre sembra decisa a camminare lentamente verso la sua fine e rifiuta di ricordare, lasciando andare i lacci che ancora la trattengono al passato, Anna va alla ricerca di una memoria mitica in grado di contenere la sua storia e quelle da cui essa discende, o con le quali la sua si è intrecciata, un’infanzia collettiva, un luogo in cui i legami non si possono recidere, in cui nulla è perso per sempre.
Solo retrocedendo nel tempo si può impedire la deriva, cristallizzando un punto comune in cui ritrovarsi, così pensa Anna mentre marcia in coda alla sgangherata manifestazione di una manciata di migranti che attraversano quel paese di morti, un po’ defilati senza troppa convinzione, “Desmond che sfidava l'aria, Abel la terra, ognuno la delusione e quel sabato pomeriggio fallimentare, avrei voluto per un momento entrare nelle loro menti e pensare con loro non solo a quel futuro per cui stavamo manifestando e che a tutti poteva essere ben comprensibile nelle sue condizioni minime – cibo, lavoro, benessere – ma anche a un tempo antecedente. Desideravo scendere più giù, laddove, che so, un rumore come quello, di passi su un ponte di ferro, o l'odore di ruggine surriscaldata della ferrovia, o uno squarcio di luce tra la foschia dell'afa o chissà che altro, anche una sola sensazione riemersa per associazione dal loro passato, li riconducesse alla terra che avevano lasciato, negli spazi quotidiani e affettivi dove erano stati bambini: lì avrei voluto ritrovare il senso della nostalgia che forse ci accomunava, giovani e vecchi, africani e italiani, lo strazio così felice di riuscire a oltrepassare per un istante gli eventi inauditi del tempo della loro migrazione e del nostro esilio e ritrovarci nella pura infanzia”.
“Mi sarei aggrappata piuttosto ai ricordi, pensa ancora Anna, avrei cercato di ritrovare in me mia madre, mio padre, i miei morti, non era possibile, non era concepibile che tutto finisse così”, ma la memoria, se ne rende conto, è fatta di una materia inaffidabile, i ricordi “assumono spesso nel tentativo di restituirgli un carattere stilizzato e per molti aspetti inservibile per una ricostruzione che ne renda la verità più intima”, su alcuni di essi “la vita scorre dolcemente, il suo fluire non ha potere abrasivo ma modellante, certi ricordi sono figure di bellezza e, se la ripetizione degli aspetti memorabili affrancata dal contesto che li ha resi reali conferisce loro quel carattere di stilizzazione che li rende talvolta oleografici, per chi li nutre sono continua ragione di interesse e di attrazione, alimentano un sentimento di approvazione e di tenerezza per il proprio passato, anche il più inclemente e doloroso”.
La memoria non crea nulla di nuovo, in barba alle voci che riecheggiano in epigrafe del romanzo, “il tempo è un abisso profondo, vertiginoso” e Anna si sente “tanto impotente di fronte alla fine, tanto incapace di trattenere uno qualunque dei momenti che il tempo decideva via via, inesorabilmente, di trafugare”.
E allora l’unica via sembra il lasciare andare, congedare ciò che è stato e far spazio a ciò che non è ancora e gli ultimi momenti nella casa, nel paese, assumono la forma di un commiato; il passato, quello più remoto e quello più prossimo, tornano per un addio e il futuro scintilla tra spiragli e bagliori.
Anna cammina per le vie del paese e ancora i fantasmi le passano accanto, chiusi nel loro tempo, senza vederla la superano e i tempi e le strade si confondono un’ultima volta, finché il presente arriva a dileguare le ombre e apre davanti una via sola, ancora da percorrere.