Ernesto Aloia, la casa sulla Linea Gotica
La casa di Castagneto compare per la prima volta nel libro in fotografie: muri di pietra chiara che si stagliano massicci e spogli tra le case del paese, sulle stampe color seppia.
Ma c’è una foto che chi racconta predilige, conservata negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra: “è l’autunno del 1944 e la casa, inquadrata dal retro da una cinquantina di metri di distanza, si staglia isolata, il paese non l’ha ancora raggiunta”, chi ha scattato la foto aveva i piedi a cavallo della Linea Gotica e immortalava la casa popolata da militari inglesi che l’avevano trasformata in una mensa dell’esercito.
La voce narrante si ritrova nello stesso punto della foto, molti decenni dopo: “parcheggiata la macchina all’ombra residua dei tigli, scendo e cammino sulla ghiaia che brilla sotto il sole. Se il fotografo inglese fosse ancora al suo posto, potrei salutarlo con la mano”.
Sin dalle prime pagine si accostano e sovrappongono i piani temporali, in una storia in cui “si sta in equilibrio sui tempi verbali come su una corda tesa”.
Camere oscure, di Ernesto Aloia (Hopefulmonster editore, 2024) sancisce sin dal titolo un’ambivalenza, traccia i confini di uno spazio narrativo nebuloso, permeabile e aperto: ci si muove in un’oscurità che, se attraversata da un raggio di luce, riporta in vita immagini e ricordi, come nella tecnica stenopeica, come in vecchie stanze custodi del tempo, dove la luce filtra da piccoli lucernari e arroventa la polvere sospesa, risvegliando sogni, memorie e presenze che ancora le abitano.
Aloia richiama a Bachelard, secondo cui “la casa è uno dei più potenti elementi di integrazione per i pensieri, i ricordi e i sogni dell’uomo” e ricorda “un romanzo di Stephen King, in cui il protagonista, scendendo un paio di scalini nella stanza che serve da dispensa sul retro di un piccolo e anonimo ristorante, trapassa senza soluzione di continuità, con una lieve perdita di equilibrio, in un pomeriggio di sessant’anni prima”.
La casa non è infatti mera “giustapposizione di mura travi pietre di fiume e coppi d’argilla, ma ristagno di pensieri, luogo di fantasmi”, varcarne la soglia è come attraversare un portale e una volta entrati ci si muove in direzioni parallele e divergenti.
A un primo sguardo, la casa del 1930 offre “una impressione di straordinaria saldezza e stabilità”, priva di grazia ma saldamente sorretta da rinforzi di cemento e travi d’acciaio, non si può però ignorare la natura del luogo, “che all’acqua apparteneva e all’acqua sembra voler ritornare. La casa, come tutto il paese, è stata costruita con i caratteristici ciottoli a forma di pagnotta che nei tempi impensabili della geologia il Santerno ha rotolato, modellato, levigato […] Queste pietre e queste terre hanno nostalgia dell’acqua, perciò si scalfiscono, diventano polvere, si sciolgono in fango con tanta facilità”.
Chi racconta torna nella casa di Castagneto per controllarne lo stato, misurare l’estensione di muffe e crepe, riempire buchi e fessure per chiudere le vie all’acqua, che reclama il suo posto: “l’acqua forzerà ogni sconnessura tra i coppi, ogni incrinatura degli infissi, dei lucernari, il foro alla base dell’antenna della TV. […] vedo l’acqua precipitare implacabile, nera come l’inchiostro, la sento scrosciare nelle grondaie, sussurrare nel buio all’interno delle murature, nelle connessure tra una pietra e l’altra. Scorre, erode, cancella, ossida, scioglie, spezza, gonfia per poi fiorire giorni o settimane dopo in muffe verdognole sulle travi dei soffitti. Nel sogno, talvolta, la casa sono io.”
“Dobbiamo porci di fronte allo spaccato di un edificio e fornirne una spiegazione, − scriveva Jung ne La terre et les rêveries du repos − il piano superiore è stato costruito nel XIX secolo, il pianterreno è del XVI secolo ed un esame più minuzioso della costruzione mostra che essa è stata innalzata su una torre del II secolo. Nella cantina scopriamo fondazioni romane e sotto la cantina si trova una grotta colmata, sul cui suolo si scoprono, nello strato superiore, utensili di selce, e, negli strati più profondi, resti di fauna glaciale. Questa potrebbe essere, all’incirca, la struttura della nostra anima”.
La casa raccoglie la stratificazione di tempo, memorie e desideri sopiti, “è anima e corpo. Ha uno scheletro, una pelle, è innervata di cavi e tubi e le stanze sono i suoi organi. Nei miei sogni le sue scale scendono sempre, anche quando salgono, e se mi inerpico nel sottotetto mi sto calando dove tutto ha inizio. È lì che entra in scena l’acqua con il suo scorrere senza rimedio. Le acque non risalgono mai alla sorgente e niente, niente è mai rimediabile. L’acqua è la clessidra definitiva”.
C’è un tempo della narrazione, che segue il corso silenzioso dell’acqua, che procede in avanti, erodendo i giorni e le cose, perché “le case vanno in rovina come tutto il resto”.
Ma c’è anche un moto contrario, che risale le scale e attraversa i piani e le stanze come nel racconto di King, tornando indietro nel tempo.
“Brisa zirè all’indrè, che t’ve incontr a e’ gevel” dicevano gli anziani, “chi cammina all’indietro va incontro al diavolo”: “a lungo ho creduto che alludessero al rischio di incespicare, cadere, farsi male. − dice la voce narrante − In seguito in quella frase ho letto un ammonimento diverso: non arrenderci al nostro personale mito delle origini, Arcadia o Età dell’oro o magazzino universale delle forme della nostra immaginazione e della nostra sensibilità, non lasciare che i travestimenti della memoria confondano senza rimedio il nostro sguardo sul mondo”.
Cosa cerca davvero chi torna?, “Cosa cerca davvero Gatsby, − si chiede l’autore − Daisy oppure la luce verde tremolante sulla lontana sponda dello stretto? Non è una donna che vuole recuperare ma, al di là delle apparenze, un momento preciso del passato, il momento in cui tutto ancora era possibile. Il momento cosmogonico delle nostre vite”.
“La casa-nido non è mai giovane” – sosteneva Bachelard, si anela al ritorno come l’uccello sa di dover tornare al nido, “il segno del ritorno sottolinea infinite rêveries, dal momento che i ritorni umani avvengono sul grande ritmo della vita umana, ritmo che supera gli anni, che lotta attraverso il sogno contro tutte le assenze”.
La scrittura di Aloia procede sicura in quello spazio instabile, si muove all’indietro sfidando la corrente distruttiva del tempo e le trappole del diavolo, visita le stanze e gli spazi sopiti di quella casa dentro cui, uno dopo l’altro, si manifestano le vite che un tempo l’hanno abitata.
Sfilano così figure familiari, alcune riconquistano corpo, spazio e luce e chiedono voce per la propria storia, altre rimangono silenziose, non abbandonano del tutto la nebbia da cui sono richiamate.
C’è, però, in quasi ogni piega del racconto, una sorta di indugio verso il buio, una certa fascinazione per l’oscurità da cui i personaggi riemergono e di cui sembrano conservare traccia, come un’eredità o una maledizione; nelle loro storie si annida sempre un “quid obscurum” (“una vena di nero fiele scorre per ogni ramo nel sangue della mia famiglia, una generazione dopo l’altra, un volto dopo l’altro, un aneddoto dopo l’altro fino a perdersi nella grande dimenticanza” si legge nell’incipit del racconto.)
Così c’è Olga, che viene da un mondo “prima della parola dove vivere era lottare in primo luogo con chi ti dormiva accanto. L’inimicizia era legge, l’asprezza un vanto, nulla era più vergognoso di un gesto gentile”, e ritrova il suo sposo di ritorno dalla guerra e con lui una schiera di fantasmi e di voci che le rubano le forze e la pace e la spingono nel silenzio e nel buio.
C’è la giovane Maria, fresca di Cresima, che si guarda allo specchio, e “si chiede se davvero i sette doni abbiano fatto la magia, se potranno liberarla dal suo tempo sospeso, se le serviranno a qualcosa quando la domanda tornerà. Cosa farò quando sarò viva?”.
In bilico tra la vita adulta e quella bambina, con il tempo che la spinge e sembra sfuggirle tra le dita, si inginocchia e prega Gesù di scacciare pensieri che non sa spiegare, che forse è il diavolo a sussurrare e “dovrebbe ammettere che Satana le parla da più vicino di Gesù, che entra dalla sua bocca ogni volta che fa la comunione ma poi si scioglie, tace, sparisce, immagini non ne porta.”
C’è poi Rino, alto, poderoso, instancabile corridore, che teneva spettacolo alla fiera di paese con le sue imitazioni e poi improvvisamente “sprofondava con terrore al centro della terra”, spariva dietro gli scuri chiusi per giorni, senza uscire mai dal buio, finché un giorno ricompariva e ricominciava a correre, e si ritrovava a giocare la sua partita sul campo del paese, sotto la luce dei fari in un vorticare di falene, con la sua racchetta e “tutto il peso dell’azione irreversibile, di far emergere nel mondo, in forma dinamica,la nostra volontà. E Rino era troppo solo su quella linea di fondocampo. Cercava con lo sguardo Roberta e i figli oltre la recinzione. La palla gli ricadeva sui piedi. La macchina muscolare crollava su se stessa. E l’applauso che allora si sollevava non era tanto un incitamento ma un tributo di fratellanza nella debolezza dedicato a chiunque, piccolo smarrito e solo, abitasse quel corpo colossale.”
“A turno da sfondi nebbiosi vengono a delinearsi in primo piano le persone che nella casa sono vissute, in tempi diversi, i rapporti fra loro e quelli con gli altri abitanti del paese. − scrive Dario Voltolini, curatore della collana, nella postfazione − Una di queste figure non si emancipa del tutto dal vapore dell’indistinto (lo straordinario “uomo non c’era”), non subito, non definitivamente: un tocco fantasmatico allora punge tutto il racconto e di nuovo i sogni, i pensieri e i ricordi si rimescolano.
E torna infine il timore legato al monito iniziale, il pericolo di andare all’indietro e cedere alla tentazione dell’immaginazione e agli inganni della memoria, confondendo il proprio sguardo sul mondo. Ma se il destino delle case è andare in rovina, come tutto il resto, per salvare qualcosa bisogna ricostruire il percorso dell’acqua all’indietro, fidarsi dei fantasmi, sfidare il senso del tempo, e tutto ciò che resta è quel che brilla nella polvere sospesa, illuminata per un attimo da un raggio di luce.