Quando eravamo sorelle
Kausar, il nome della protagonista di Quando eravamo sorelle (Fatimah Ashgar, 66thand2nd, 2023), è un “nome così rigido che inizia con uno schiocco”; non è dolce come quello della sorella più grande, Noreen, fatto di grazia e di luce, né vellutato come quello della sorella Aisha, che suona leggero come un soffio di vita.
Ma lo schiocco che apre quel nome schiude le anse di Al Kausar, il fiume del paradiso, fonte di abbondanza nell’escatologia islamica, promessa di una via accessibile e personale, fuori dal dolore del sentirsi divisi da sé, dal mondo, scomposti, soli: “Ogni giorno all’intervallo cerco il mio Kausar – dice la protagonista – il mio portale per un mondo possibile a cui appartengo. Dove c’è posto per sorelle e fratelli e per quelli fra noi che non sono né l’una né l’altro. Dove possiamo cantare e urlare e ricordare il nome di ogni zietta e il volto di ogni madre e dove ci sono padri che non se ne sono andati.”
Il tempo del racconto è un tempo al passato e inizia con una perdita improvvisa: “Un uomo muore in una città dove sono nate le sue figlie, una città che però non sarà mai loro, un paese che non sarà mai il loro, su una terra che non sarà mai loro. (Ya Allah). Un padre muore e la città e le sue figlie continuano a vivere, le luci brillano da un palazzo all’altro. Tutta la città è pervasa da dolci respiri. Tutto intorno all’uomo il respiro cala fino a fermarsi. Il cielo, che tutto vede, abbassa lo sguardo su di lui.”
Qui prende il via il racconto, ma nella storia di Kausar, che quando perde suo padre ha cinque anni, e delle sue sorelle di poco più grandi, si tratta solo di un altro filo tagliato, il più solido rimasto, tra quelli che le legano al mondo e alla vita: “per noi era tutto: parrucchiere, cuoco, il motivo per correre di filato a casa a fine giornata”, famiglia, padre, l’unico al mondo rimasto a prendersi cura di loro.
“Anche nostra madre è morta, se n’è andata prima che io sapessi parlare. Nessuno la nomina mai. Né lei né la sua morte. Nostro padre è l’unico genitore che abbiamo conosciuto. [...] Nessuna di noi se la ricorda, questa madre fantasma. È un mito. Finzione”, è svanita in quella dimensione tremolante e incerta del ricordo, della nostalgia e del rimpianto, luogo inaccessibile verso cui anche il padre sta volando via, insieme alla sua voce, al suo sorriso e agli elastici luccicanti che infilava nei loro capelli.
Il padre è strappato dalla loro vita, il suo corpo spedito in una terra che non hanno mai calpestato, “per essere sepolto accanto ai genitori, nella terra abitata per generazioni dalla sua famiglia. Nel conto di ciò che si considera famiglia – dice Kausar – io e le mie sorelle veniamo lasciate fuori. Una volta chiusa la bara ci spediscono un VHS che passa a ripetizione sullo schermo della tv. Un filmato del volto gonfio di nostro padre morto, con gli occhi chiusi, mentre viene calato in una terra che a noi non è concesso toccare. Un posto da cui lui proviene, e perciò anche noi, ma di cui non sappiamo nulla. Nel VHS, nel filmato che viene trasmesso a qualsiasi ora, è circondato dai suoi familiari. Noi ci raduniamo attorno alla tv e premiamo le dita sporche sullo schermo.”
“Orfane, dicono le ziette, e noi diventiamo qualcosa di nuovo”, anche la casa è diventata la Casa della tristezza, e tra le sue mura monta una litania soffocante di lamenti e preghiere, con la voce delle donne del quartiere, le ziette, che riempie le stanze e sbatte contro le finestre chiuse.
“Non più figlia, non più la piccolina di mio padre, ma un’orfana. Ora, orfane. Tutte le ziette mi toccano la testa per ottenere la loro sawaab. La mia testa, ora una casa per i palmi altrui. La nuova cosa che sono, che sequestra ogni mio altro nome”.
Fuori, in giardino, lontano dalla tv e dalle opprimenti lamentazioni, Kausar lancia una manciata di terra alla sorella Aisha, lei ricambia, e sotto una pioggia di terra scura che macchia le kurta bianche, le sorelle seppelliscono la parte di loro che è morta in quella casa.
Kausar non è più figlia, quella più piccola, adesso è parte di un problema sulla bocca di tutti, un aggettivo plurale: “orfane”, “sorelle”.
Fratelli suonerebbe più dolce, “perfino accogliente, più simile a ciò che siamo”, pensa Kausar; fossero maschi, qualcuno le vorrebbe per quello che sono, invece sono tre bambine che valgono quanto un assegno mensile governativo, anzi tre, fino al compimento della maggiore età: “161 ipotetici assegni per la più piccola, 139 per quella di mezzo, 120 per la grande – 420 assegni in tutto, dovessero sopravvivere”.
“Il Corano dice che se ti prendi cura di un orfano ti sei guadagnato l’ingresso nel Janna”, così si fa avanti lo zio materno, che le accoglie nella sua casa in cambio di tre assegni mensili e di tre lasciapassare per paradiso dell’Islam.
La nuova casa è un inganno, uno spazio separato dalla vita dello zio e della sua altra famiglia, quella buona, una stanza piccola e fredda dentro un appartamento sporco e rumoroso, in cui transitano altre persone, che si fermano, occupano altre stanze e se ne vanno, presenze intermittenti, che lasciano altri piccoli grandi strappi, piccoli o grandi abbandoni.
È uno spazio di regole scritte e altre sottintese, di giudizi, punizioni, minacce, ricatti crudeli e dispotismo di un uomo inaffidabile e minaccioso, così spaventoso che il suo nome, nel libro, affonda dentro uno spazio nero.
“Orfane. Siamo sospese tra questo appartamento dove ci è concesso restare unite e un punto di domanda. Mi guardo le mani. So che posso fare la brava. So che posso essere perfetta. Se seguo le regole, allora ci sarà sempre concesso restare unite. Siamo di nuovo orfane”; “non ci sono tombe cui far visita. Nessun luogo in cui portare un biglietto. Nessun modo di riceverne uno in risposta”, solo la memoria scolorita di ciò che si prova a sentirsi amati, a pensarsi famiglia, dentro una fitta nebbia che riempie tutto lo spazio che resta.
Kausar si perde in quella nebbia, si assenta con il pensiero e non sa dire dove sia stata, si addormenta e si sveglia in un posto nuovo.
Kausar si arrabbia, di una rabbia antica, che si accende e cresce appuntita come il pungiglione di un grosso scorpione nero, che vuole conficcarsi e fare male: “la fiamma rabbiosa di un tempo. Dentro, mi scaldo. Mi sento pericolosissima, come se non riuscissi a tenermi confinata in un corpo. Tutti mi guardano come se potessi esplodere da un momento all’altro. Come se potessi strabordare. Come se potessi schizzare olio. Come se potessi bruciare chiunque mi si avvicini. Ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di un adulto. E non so dove trovarne uno”.
Inframezzata da frammenti lirici e discorsi immaginati che danno voce alle assenze più ingombranti e insostenibili, la storia segue il percorso di una bambina, un’immigrata di seconda generazione negli Stati Uniti da genitori Pakistani, di religione islamica, nata in un Paese a cui non sente di appartenere, con radici spezzate, che affondano in una terra che non è mai stata sua, orfana di entrambi i genitori, orfana di una terra, di una storia, di un’identità che le si sbriciola fra le mani, che cresce senza guida, senza famiglia, senza parole per dirsi ciò che sente, che vuole, che ama, che si trova a fare i conti con il suo corpo che cambia, con il desiderio che cresce, con la rabbia che brucia e la solitudine che raggela la terra sotto i suoi piedi.
“Quel che nessuno capirà mai è che il mondo appartiene agli orfani, tutto diventa nostra madre” pensa Kausar e il suo essere orfana e senza radici, come la terra su cui ora cammina, offre l’illusione di poter essere ogni cosa, di poter cambiare le parole che le cadono addosso, gli aggettivi, cancellarli, riscriverli, cominciare da capo.
Figlia. Orfana. Sorella. Ragazza. “La mia testa un groviglio di gente che arriva e poi sparisce. Ho perso il filo. C’è una me che osserva dall’alto, rincantucciata nell’angolo in cui la parete incontra il soffitto. La mia pelle fa da cielo all’appartamento. Sono lì, guardo la me là sotto che tenta di raggiungere Noreen. La me là sotto, piena di buchi a forma di me. Divisa. Che si divide ancora a ogni secondo che passa. Tutte le mie me si riversano fuori da quella principale. La me principale sanguina le altre me. La me principale è troppo turbata per rendersene conto...”
Questo romanzo di formazione frammentato, in cui i pezzi si accostano imprecisi e in qualche punto non collimano i bordi, ha l’andamento irregolare della memoria, che mette a fuoco le cose in modo parziale, collega i vuoti con l’immaginazione o il desiderio e ricostruisce tutto a posteriori, conoscendo già, se non la fine, un punto d’arrivo da cui guardare indietro. Il linguaggio, che vuole avvicinarsi alla poesia o che da quella si muove per farsi racconto, è immaginifico e aderente al sentire di chi scrive, suggerisce un denso sostrato autobiografico e l’intento di mostrare un particolare tipo di dolore, di isolarlo, specificarlo, legittimarlo, mettere in luce tutta la sua specificità per dimostrare che è come tutti gli altri, e di tutti gli altri ha tanto il valore e quanto la generalità.
Sola a dover fare i conti con la definizione della propria identità di genere, con l’eredità di un’appartenenza etnica, culturale e religiosa, talvolta scomoda e limitante, soverchiata dalle contraddizioni, dai conflitti, dal dolore e dalla rabbia che la abitano e che non riesce a contenere e a pacificare, Kausar lotta tra l’istinto di fuggire da sé stessa, di lasciare affondare le parole piccole che si sforzano di tenere insieme le vite che si separano e la pazienza, la resilienza del raccogliersi in pezzi e rimettersi insieme, cercando di volta in volta di dar forma e nome al disordine del proprio sentire, al cospetto di Allah, che forse guarda da qualche altra parte e di una schiera di dèi che rispondono all’umana ingratitudine con arroganza, trascuratezza e abbandono.
E fino alla fine del romanzo non si trovano risposte o consolazioni. Kausar aveva chiesto ad Allah più spazio, e si ritrova infine schizzata via in una galassia vuota. Partita con l’illusione che, tagliati tutti i fili, non restasse che contemplare tutte le strade aperte davanti a sé e scegliere verso quale orizzonte camminare, e ritrovatasi invece legata ancora a tutti i pezzi di sé che aveva lasciato indietro, con una piccola nuova consapevolezza, che solo attraverso gli altri, forse, ci si può davvero salvare.