Le sparizioni di Carmen Pellegrino

22 Aprile 2024

“Essere uno scrittore significa costruire un grande, rumoroso, lucente centro dell'io dal quale la scrittura prende voce, e qualsiasi pretesa di voler annichilire questo io pur continuando a scrivere e a dar voce alla scrittura deve comunque coinvolgere lo scrittore in considerevoli sotterfugi e contraddizioni”.

Tra le prime pagine di Dove la luce, (Carmen Pellegrino, La Nave di Teseo, 2024) si trova questa citazione da Decreazione, di Anne Carson, che a sua volta ruba il titolo da Simone Weil, la quale aveva racchiuso in quella parola il suo meticoloso piano “per liberarsi dell'io, per disfare la creatura che è in noi”. 

Se l’intento di Anne Carson era applicare il processo di decreazione alle strutture portanti del pensiero occidentale, Carmen Pellegrino ne trae una sorta di manifesto programmatico per il suo libro: “anche io intendo farlo con le strutture portanti di ciò che sono, strutture che risentono di qualcosa che assomiglia al destino – quello collettivo, non solo il mio personale –, sapendo di contenere moltitudini, come Walt Whitman, come tutti. Intendo farlo a partire da una sparizione che continua a interrogarmi”. 

La sparizione di cui si tratta è quella di una figura reale, Federico Caffè, economista e professore italiano che in un giorno di primavera del 1987 è uscito dalla casa in cui viveva con il fratello e non è più tornato.

All’epoca, chi racconta aveva dieci anni e viveva “in un paesino dell'osso del Sud a seicentottanta metri di altitudine, a tanti chilometri di curve da Eboli a tanti chilometri dal mare”. Venticinque anni dopo, la voce narrante, che sembra sovrapporsi con una certa precisione all’autrice, prova a darsi ragione di questa sparizione e, attraverso di essa, a sciogliere un nodo che torna, nella scrittura di Pellegrino, come un centro gravitazionale: l’investigazione delle ragioni e dei modi di congedarsi dal mondo, di ciò che rimane dopo l’abbandono, di cosa farne di resti e rovine e di quanto questi siano in grado di parlare di noi.

La materia del libro si ricompone dunque intorno a una scomparsa, e da lì si muove avanti e indietro nel tempo e nello spazio, con l’andamento frammentato e scomposto di una ricostruzione.

Figura centrale è il Professore, doppio onirico di Caffè, che ne raccoglie eredità e futuro: attraverso la sperimentazione letteraria, Pellegrino fissa il ricordo di quella sparizione e immagina di continuare il tragitto di quella vita, la cui traccia si è persa in un aprile lontano; imbastisce cause e decorsi di quella traiettoria interrotta, la conduce a incrociare altre vite, come quella di Milo, “figura dolente” a cui è stato tolto tutto e che, spenti ogni rancore e rivolta, cerca dio dove lo immagina più prossimo e lo prega di togliere anche lui da questo mondo senza misericordia, o quella di Adolphine (alter ego di Simone Weil), destinataria di lettere senza risposta, testimonianze e rimpianti.

Così il racconto si compone accostando frammenti, lettere, ricordi, biografie, appunti e citazioni, riempiendo vuoti e lacune con la memoria, la storia, l’invenzione o la poesia, e a tenere insieme l’ordito di storie e di voci slegate, per provare a farne un intero, è la parola “io”. 

Pellegrino frappone alle vicende il racconto di sé, che le contiene tutte; il discorso assume senso all’interno di una geografia della memoria intima e personale, che inevitabilmente si impasta con la storia e con le storie con cui viene a contatto, e toccandole le muta e ne viene mutata.

La voce che dice io nasce all’alba degli anni Ottanta, e i suoi primi ricordi si cristallizzano dentro un decennio velocissimo e pregno di contraddizioni. La scomparsa di Caffè affiora da quei ricordi, come la strage di Ustica, quella di Bologna e così altri schianti, deflagrazioni, strappi che la spingono, ancora bambina, a entrare nel dolore del mondo senza protezioni (“I miei non avevano troppe cautele, non impedivano che entrassi in contatto con il dolore del mondo, forse nemmeno sospettavano che un bambino potesse restarne segnato - e piangevo senza capire niente, piangevo i morti sconosciuti, mettendomi sotto al televisore, piangevo per le macerie, intuendo in maniera semplice e immediata che quelle immagini mi riguardavano: ero io e non-io”).

Nel momento in cui la parola “io” si posa sulla pagina si moltiplica, trasfigura, si fa plurale, collettiva, e si articola a fatica dentro quel “senso di angoscia esistenziale, di vuoto, che assaliva uomini e donne che si affacciavano al ventesimo secolo, privi di qualsivoglia punto di sostegno, privi anche della definizione di ciò che sentivano”, e che è lo stesso vuoto che sente chi scrive, ormai scavallato un secolo che tanto breve non pare e che anzi continua a crollare, a frantumarsi e a ricominciare.

Si intravedono anche i segni di una piccola frana, tra le generazioni di prima e quella che negli anni Ottanta vede la luce, padri e madri poveri delle parole per dire i propri limiti, il proprio sentire, ma ancora solidi, padroni di certezze e verità non più tramandabili, avviati verso una decrescita felice, un’ultima possibile conciliazione, mentre i figli, rimasti impigliati nella giovinezza, lanciati verso un mondo esploso, sopravvivono lacerati dal debito verso i genitori, dal tradimento delle aspettative che gli gravano addosso e dalla difficoltà dell’affermazione di sé, tra il senso di colpa e il risentimento per tutte le possibilità che sono state loro sottratte, per tutte le promesse non mantenute.

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La prima pagina del libro suggerisce la ferita generazionale intorno alla quale il racconto fa il giro, per poi ritornare: “Avevamo creduto di essere salvi, migliori e più sensibili dei nostri vecchi: potevamo dedicarci a scoprire qualcosa di bello e più profondo sulla vita stessa, il gusto del deserto, l’ardente furore di chi può dubitare di tutto, anche della patria, di Dio, della famiglia. Nessuno ci aveva detto che eravamo perduti all’origine”.

L’epoca che attende questa generazione perduta genera un soverchiante senso di vuoto, “un crepuscolarismo dell'anima, un ripiegamento verso le piccole cose, i luoghi disabitati, la luce che filtra dalla crepa, la crepa stessa incorniciata in casa mia, dopo le ultime accensioni di impegno, dopo la parola sociale che non riesco più a dire”. È un’epoca che pare un eterno presente, che non smette di consumarsi, un tempo in cui non può esserci rivoluzione, perché le parole per dirla non sono più buone, perché nessuno le ascolterebbe: “Tu che più volte hai sottolineato la necessità, in quest'epoca senza avvenire, di rimettere tutto in questione, anche la parola rivoluzione...” scrive il Professore ad Adolphine, mentre si prepara a lasciare una società da cui si sente tradito, deciso a congedarsi da un mondo che non vuole o non sa più ascoltare.

E allora non resta che insordire, come Milo, respinto dalla società, “un essere spopolato e pressoché invisibile”, che “procede nella vita con una istintiva sensazione della fine. Ha deciso di insordire, nessun rumore del mondo può più offenderlo ha deciso pure di non vedere più, lo ripete con una risoluzione imbizzarrita negli occhi” e torna quindi al paese, tra le “case in cui cospira l’invisibilità”. O andare via, come la poetessa Alfonsina Storni, che dice addio alla vita e parte verso la sua casa di cristallo in mezzo al mare, o come una vecchia strega di paese, capace di “sentire ciò che nell’altro è vivente”, che un giorno si incamminò verso la montagna senza più tornare.

“Anch'io dai miei luoghi sono andata via – scrive Pellegrino – un giorno salutai le montagne, le gore, le grotte dallo spiazzo in cui si prendeva il Mansi Petina, l'autobus che era un ponte con il resto del mondo. D'un tratto, con una fretta sconsiderata, mi avviai verso un posto qualunque che avesse il mare e il cielo azzurro per definizione. Non tornerò più, dissi fra me, mentre nell'autobus mi allontanavo dal buio di quegli inverni precoci. Non tornerò indietro, ripetevo senza esitazione. Sono tornata tante volte. Continuo a tornare, soprattutto per sentire di nuovo le parole che sembrano venire su dalla terra”.

Permane, nella scrittura di Pellegrino, il fascino di ciò che resta dopo le diserzioni, le fughe, gli abbandoni, quel mondo silente che sopravvive, oltre lo sguardo antropico, dispotico e violento, la poetica delle rovine, dei luoghi decreati, delle case e dei giardini abbandonati, dei “paradisi sparsi senza più l'ombra del peccato”, dei luoghi in sottrazione, dei paesi erosi che, “toccati da una luce postmoderna, in disfazione”, si somigliano tutti.

Lì, il silenzio lascia spazio a un brulicare di parole, ogni lembo di terra accoglie ossa e memorie di ciò che è perduto, e i morti fanno rumore “dal sottomondo in cui sono confinati”, risalgono dalla terra energie residue, voci inascoltate che parlano di noi e da cui “potremmo addirittura essere decifrati”.

La parola silenzio è “una parola vinta in partenza, annientata, ma che ancora la forza di ricondurci alle spoglie di una lingua che, se non può dire, fa. È la lingua che compie un'azione”, si legge nelle ultime epistole del Professore. “Queste lettere si fanno testimoni di qualcosa che c'è perché non c'è più”.

Dal silenzio rinasce la parola, rinasce la vita. “Effatà”, suona nelle orecchie di una bambina di tre anni al suo battesimo, “Effatà”, dice Gesù Cristo al sordomuto: “Apriti al sentire. Apriti al dire”. 

È una parola nuova, uno spazio in cui incontrare l’altro, sentire il suo sentire, far nascere in sé il sentimento di un’appartenenza, che si acuisce nel dolore e nell’amore.

“Siamo sconosciuti e imprecisi – scrive ancora il Professore – ma a me sembra di averti continuamente parlato negli anni che si sono avvicendati senza una carezza sul cuore. Si può vivere senza amore, Adolphine?

Ma due occhi che guardano solo te, che ti guardano addolciti anche se non hai attratto mai nessuno sguardo che non fosse d'istituzione, due occhi che ti raccolgono e trattengono di te l'immagine che più intimamente ti somiglia, due occhi così mi sono mancati, Adolphine, e ora capisco quanto”.

Se la chiave di volta del libro, del suo vagare decentrato nel tempo alla ricerca di un presentimento di un sapere non ancora cosciente, è l’Immemorare di Benjamin, la scheggia del passato che lacera il presente e lo illumina, il filo che lo tiene insieme è un filo di paglia, e per seguirlo è necessario continuare a confidare in una “parola che non sia vinta, una parola che trovi, ancora, il modo per dire quanto non può dire”.

Una parola che accolga e tenga insieme, una parola d’amore, che riluce dietro la filigrana delle parole di Pellegrino, dietro “il suo scrivere di ombre e margini, di silenzi”, sin dal titolo, che rimanda ai versi di Ungaretti, “versi liberi per dire che gli spettri del passato se ne stanno andando che nulla fa più paura, dopo l'immensa paura, e che adesso la luce si ferma su di loro, loro due vicini, in un'ora costante”, e che promettono per tutti un luogo in cui l’abbandono fa nascere la luce, in cui, finalmente, ritrovarsi.

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