Marta Cai, due desideri
Centomilioni (Marta Cai, Einaudi, 2023) sono un’eredità di promesse non mantenute e di lacci che legano le caviglie, è il racconto di una bolla di desiderio nata dentro il vuoto di una solitudine e destinata all’implosione.
Teresa ha quarantasette anni, vive in un paese di provincia come moltissimi altri, dimenticato in una pianura che sembra non finire mai. Dà lezioni a studenti che devono recuperare anni scolastici, va al mercato, ogni tanto a messa, fuma una sigaretta dopo l’altra ed è profondamente sola.
“A voler essere precisa, non so nemmeno cosa voglia dire non essere sola, quindi in realtà non sono sola. Ho un sacchetto qui, dietro lo sterno, un sacchetto dell'umido che sta marcendo. Vado a male” dice Teresa, mentre si muove nella casa dei genitori come un’eterna bambina, cercando di limitare il più possibile il contatto fisico con la madre, di schivare il suo sguardo che le trafigge la schiena come un dardo e le scruta le occhiaie per carpirne i segreti, ma soprattutto di attutire il perpetuo mormorio materno, che le cola nelle orecchie in continuazione e le rimbomba nella testa avvelenandone i pensieri.
Insieme alla madre Teresa si prende cura del padre, che è malato di Alzheimer, o forse fa finta, pensa Teresa, e annichilito anche lui da un’aggressione verbale incessante, ha trovato nel silenzio un riparo da quell’egoismo fagocitante e violento.
La Tére pedala attraversando la città per ritirare la faraona dall’Eldo, la coniglia dal Sergio, il merluzzo e il polpo in pescheria, accompagna i genitori nel giorno di mercato, lungo la “via crucis dei salmoni, dei porri, delle pere madernassa”, subisce una routine familiare scandita da pasti rigidamente pianificati, pietanze che riempiono le bocche e gli stomaci, appesantiscono gli slanci, mettono a tacere gli appetiti. Ma Teresa non ha quasi mai fame, mangiare è per lei una penosa necessità, il cibo è vita e la sua, di vita, non va, si è inceppata da qualche parte.
Le altre vite intorno a Teresa si muovono come un paesaggio nel finestrino, ubbidendo a leggi che non ammettono incertezze o inciampi, schiacciano le imperfezioni, si misurano in soldi, chilometri, successi, obbligano alla competizione, a un passo spedito che a Teresa non si addice e Teresa allora si scosta, guarda la vita scorrerle intorno come non fosse cosa sua, con un tanto ironico e affilato quanto ingenuo disincanto.
Teresa non è proprio invisibile, è come sfumata, “se qualcuno la notasse ammettendo di non averla notata mai, Teresa diventerebbe un monito alla superficialità con cui guardiamo il mondo”, ma lei distoglie lo sguardo per non essere messa a fuoco, si fa da parte, fuma da sola in un angolo, procede silenziosa verso una vocazione di santa, il destino di una bambina riservata, educata, votata all’umiltà, a illuminare le vite degli altri con la propria immobile compostezza, forgiata nel dolore e nella rinuncia: “la sua vita è tesa a comportamenti morali e sociali elevatissimi, a obiettivi non espressi, segreti, taciuti, mai nominati, forse informi, preverbali, prelogici: si manifestano come una nevicata sulla testa e un mare di cera bollente nel cuore”, e lì brucia ogni entusiasmo, desiderio, ambizione.
L'ambizione, poi “è un sentimento per quelli di collina che hanno la fuga nelle gambe, il dubbio che dall'altra parte possa esserci qualcosa di meglio – o anche solo di diverso – da questo verdegrigio sempreverde e la speranza di poterlo raggiungere [...] le colline si scollinano, esiste persino un verbo apposta, e magari si arriva al mare. [...] La pianura è il contrario dell'ambizione è dispiegata e grande. La guardi, non vedi niente, scruti l'orizzonte e continui a non vedere niente, se non qualche grumo di tetti e di campanili e di stalle identico a quello in cui già struggi, perciò resti dove sei, smetti di struggerti e aspetti che capiti qualcosa”.
Qualcosa in Teresa suggerisce il desiderio di scappare, ma nella pianura sconfinata e sempre uguale della sua vita non trova appigli né vie di fuga. Teresa vorrebbe essere diversa, non essere sbagliata, ma rinascere non si può, anche se lei parla con Gesù e con l’angelo custode e prega “di svegliarsi cane o burattino, di non dover fare nulla che non le sia spontaneo, anzi inconsapevole, non vuole provare desideri, vale a dire intenzioni, non vuole essere sbagliata, non vuole agire nel mondo a meno che l'azione non sia aderenza perfetta a sé e all'ambiente, come la carne che si stacca dall'osso nella pentola a pressione perché non può non farlo”.
E di notte piange un pianto asciutto, con smorfie e convulsioni lotta contro il buio, si difende inutilmente dal male che la insidia e la lascia svuotata, le ruba la forza, la speranza, la voce.
Se la vita di Teresa non può andare avanti, schiantata contro il miraggio di un orizzonte piatto e senza uscita, allora la sua storia deve muoversi in un’altra direzione, seguire il moto scomposto dei pensieri, i funambolismi delle fantasie impossibili, i sentieri umidi e scuri dei segreti e delle bugie.
Teresa ha letto su internet che un diario può aiutare a capire dove sta andando la propria vita, così inizia a scrivere i suoi pensieri in un quaderno che dovrà essere per lei “l'alzata di mano e il permesso di parlare, sarà una stanza insonorizzata, senza entrate né uscite. Io che non parlo, scrivo. Il diario dei miei infiniti desideri, che non ho, non li sento, non mi parlano, e allora li devo progettare.”
Le pagine di diario restituiscono le confessioni di una donna che scrive come un’adolescente, ma si guarda e si ascolta come si osserverebbe un animaletto strano, si esamina, fa il conto di quello che non ha, che non conosce, insegue il filo di sogni e fantasie che le scaldano il viso e si fanno reali come un profumo buonissimo, o il suono di una parola nuova.
Teresa non ha esperienza della vita, “io esisto troppo poco per avere il diritto di parlare di me”, scrive sul suo diario, “ho vissuto al contrario, rivoltata: l'interno all'esterno, l'esterno all'interno. Attenta a non mostrare nulla, se non la vita fisiologica: andare, camminare, respirare, muoversi lo stretto necessario, mangiare (la mia pena, il cibo, il mio orrore privato). Una macchina organica al minimo: piatta, con una sola dimensione. Ho vissuto senza esistere, senza mostrarmi, senza essere reale”.
Teresa vive “come le sogliole sul fondale”, separata dai suoi coetanei sulla terraferma che possono vedere di lei solo i contorni tremolanti sotto la superficie dell’acqua, non ne sentono la voce e anche se la sentissero, di cosa potrebbero parlare?
Teresa sente di non aver mai vissuto, ma “non avendo esperienze che forniscano argini o confronto, può immaginare ciò che vuole, senza freni, senza frustrazioni, in barba ai principi logici: uno stesso ipotetico amante, e i suoi amanti sono tutte figure inventate, di cartapesta” e anche Alessandro, suo giovane e biondo ex studente, non sembra più vero degli amanti affiorati dalle sue fantasie. Ma “i sogni non fanno altro che terminare le frasi che nell'esistenza da svegli restano a metà o non vengono dette, ma esistono, come esistono i lombrichi prima degli acquazzoni” e Alessandro esce dai sogni per acquistare corpo e voce, una voce che si alterna a quella di Teresa, ma senza dialogare.
La pianura in cui si muove Alessandro è un enorme abbandono, “è immerso in una marmellata di ciliegie: come distinguerle una a una, come separare lo zucchero dalle polpe sottili e dai noccioli? Capita che a volte un frantume tenace di nocciolo scappato al setaccio scricchioli sotto i molari e li scheggi. La sua mente, però, torna subito a sembrare un enorme calderone dove tutto si sfilaccia nello stesso brodo. Qualsiasi immagine abbia la forma di un ricordo è un'oca che corre nonostante sia stata decapitata, e lo spaventa”.
Anche Alessandro cerca una via di fuga, persone, corpi e relazioni sono per lui solo uno spazio da attraversare per soddisfare un bisogno vitale: “no, amarti no, di te voglio avere bisogno contabile – dice di Teresa – come i countable nouns che mi hai insegnato, niente che sia uncountable, come il latte – caldo, calcio, starei bene – o l'acqua: mi faresti affogare nelle tue amorevoli cure. Se mi piaci o non mi piaci è irrilevante, un affetto è una decisione di lusso. Per quelli come me le urgenze sono altre”.
Teresa, invece, vorrebbe solo poter decidere cosa mangiare, formulare un pensiero libero, “scegliere con parole sue”, ideare, se necessario, una lingua nuova, una lingua inventata, quella che serve per rivelare i segreti: “questo lo sa chiunque abbia un minimo di conoscenza di storia militare. La famiglia è guerra”. Così è per Teresa come lo è per Alessandro, e le loro storie incrociano i piani di due campi di battaglia che si intersecano senza sovrapporsi. Non può esserci incontro, l’uno per l’altro non sono che una possibilità immaginata, che si alimenta più nel desiderio che nella speranza della sua realizzazione, come i Centomilioni, o trentratré, un’occasione di riscatto o una zavorra, solo una parola, una promessa sulla punta della lingua che sbatte sul palato e poi lo accarezza due volte scivolando via.
Tutta la loro guerra si gioca nelle parole e lì si esaurisce. La scrittura tiene insieme la storia modulando voci che si confondono, si sovrappongono, sconfinano, rompono argini per conquistare spazio e parole, per dire il desiderio e la solitudine, che si mordono l’uno con l’altra.
“Mi basterebbe pensare che un giorno, da coricata, anche se sarò sola, avrò almeno un ricordo bello, una mano fantasma che stringe la mia perché una volta l’ha stretta e non era un'invenzione. A un certo punto è solo andata via” scrive Teresa, ma il suo destino è di “fare implodere i desideri prima che si formino”. E se l’incrocio tra le vite di Teresa e Alessandro sembra poter accendere la miccia di una potenziale deflagrazione, suggerita da minuscole trasformazioni, piccoli gesti di rivolta o di insubordinazione, nulla pare cambiare davvero e quell’incontro incompiuto, quelle rivolte abortite, non sono che la nuvola di polvere luminosa sollevata da un soffio leggero, una tempesta dentro un bicchiere, un piccolo disordine che nulla smuove, soltanto un’allucinazione della solitudine.