Diario ucraino di Boris Mikhailov
“Potrei parlare tantissimo della qualità delle fotografie. C’è una corrispondenza tra ciò che vedi e come lo realizzi, una convergenza tra l’idea di immagine e la qualità dell’immagine. Noi abbiamo vissuto al tempo dell’Unione Sovietica, dove la qualità dell’immagine era peggiore che in occidente. Così, per mostrare la nostra vita di allora, ho dovuto lavorare con una qualità mediocre. Facevo vedere solo una qualità di vita mediocre: fotografia mediocre, vita mediocre. Una qualità insufficiente, perché la migliore qualità era legata ad altre idee superiori. Tutto questo è durato fino a poco tempo fa. Per questo, per me, è stato importante creare fotografie che non fossero molto buone, perché altrimenti sarebbero entrate in contrasto con quella vita.”. È con queste parole che il fotografo ucraino Boris Mikhailov spiega la ragione concettuale della scarsa qualità delle sue immagini e, allo stesso tempo, del modesto valore della carta fotografica, teorizzando il concetto di “fotografia di cattiva qualità": volutamente a basso contrasto, sfocate, piene di difetti visibili, su carta di scarsa qualità, per sovvertire l'immaginario del realismo sociale e della fotografia patinata. Frutto, però, della sua innata tendenza di instancabile sperimentatore. Inclinazione che, frequentemente, lo spinge a superare certi canoni, propri della fotografia. Come quello della stampa, per la quale ha sostituito la comune carta fotografica con della semplice carta o del cartoncino. La medesima famosa serie Yesterday’s Sandwich, realizzata a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, è frutto di questa sua intensa e urgente ricerca. Seppure nata da un banale errore, rimase affascinato dal risultato ottenuto da due diapositive incollate tra loro (superimposition) che crearono un’immagine inedita e pregna di significati, anche metaforici, poiché riflettevano le contraddizioni e il dualismo della società sovietica, cosicché ciò che non era possibile esprimere apertamente, lo formulava in un linguaggio quasi in codice.
Ogni “Impero” o “Grande Nazione” ha, al suo interno, contrasti e dualità, un proprio lato oscuro che non mostra e non vuol far conoscere, che accuratamente tiene nascosto, ma che esiste. Come le centoventimila persone che vivono nella “favela” sotterranea di Pechino, o il 15% con il più alto livello di povertà tra i paesi dell’OCSE del Giappone, o i seicentomila senza tetto nelle grandi città degli Stati Uniti. Alla stessa stregua Boris Mikhailov ha rivelato quanto non veniva, né tuttora viene fatto vedere, dell’immensa Unione Sovietica prima e, adesso, dell’attuale grande Russia. Con la sua 35mm automatica con flash, palesa quanto attraversa il quotidiano. Ha rivolto la sua attenzione a tutto quello che generalmente si stenta a guardare o non si vuole vedere: la sofferenza, la marginalità, l’abbrutimento, i condizionamenti, i poveri, i malati, gli ubriachi. In sintesi, il degrado sociale e umano, escludendo compromessi e filtri, realizzando un immenso atlante umano, con foto che sono, contemporaneamente, belle e brutte, angoscianti e delicate, inquietanti e commoventi. Piuttosto che attestare, e voler documentare, c’è uno sguardo impegnato a catturare quello che non rientra nella supposta normalità, un interesse alla devianza, per afferrare le diverse sfumature della vita e le esistenze degli altri. Sempre, però, con un forte carico di ironia. Di fronte alle sue fotografie, si è colti da quel senso di nostalgia da cui si viene rapiti davanti a immagini di tempi passati ma, anche, da quella morbosa curiosità (finanche compiacimento) legata all’idea o al pregiudizio nei confronti dell’Unione Sovietica e della sua disfatta.
Con un inizio alquanto bizzarro (si è completamente dedicato alla fotografia allorquando fu licenziato perché il KGB scoprì le stampe fotografiche dei ritratti nudi della moglie eseguite nella camera oscura allestita nella fabbrica presso cui lavorava come ingegnere, con l’incarico di realizzare una documentazione fotografica su tale stabilimento statale), Boris Mikhailov ha dato avvio alla sua carriera realizzando scatti nella sua città natale, della gente comune, ritraendo pure sé stesso e sua moglie (con scatti risalenti al 1962, realizzando la prima serie, Susy et Cetera, tutta dedicata all’eros, per un “esercizio di liberazione”). Ritratti e autoritratti alcuni dei quali un po’ sopra le righe (come la serie I Am not I, 1992) e, per questo motivo, alcuni lo tacciarono di essere leggermente vizioso. Nonostante abbia sfidato ogni categorizzazione, scardinando le regole, formali e ideologiche, della fotografia, apparentemente documentaria, immediatamente l’ha investita di significati concettuali, servendosi, a tal fine, anche della pittura e della performance, per esasperare anche la componente ironica, sempre presente nei suoi lavori. Superando il limite della fotografia di mostrare solo quello che c’è e si vede.
Figura chiave della Kharkiv School of Photography (KSOP), Boris Andreevich Mikhailov, nato a Kharkiv nel 1938, da padre ucraino e madre ebrea ucraina, cresciuto negli anni seguiti all’Holodomor – la terribile carestia che in epoca staliniana uccise milioni di ucraini –, pioniere della fotografia sociale, è uno degli otto fotografi che fondarono, nel 1971, il gruppo Vremya, un collettivo artistico sperimentale anticonformista considerato il nucleo della Kharkiv School of Photography, un movimento clandestino nato per creare uno strumento visivo per la resistenza culturale. Indicativo di siffatto intento sono le serie Sots Art (1975-1986) e National Hero (1991). Mentre la prima è composta da immagini socialiste approvate dal regime, la seconda è realizzata all’indomani della definitiva dissoluzione dell’Unione Sovietica. In entrambe, interviene stendendo colori sgargianti per esprimere, nella prima, sottili cenni di antisovietismo, per delegittimare quanto veniva propinato dalla televisione e dal cinema di Stato. Interviene con lo stesso metodo anche nella seconda, ma su una serie di autoritratti in uniforme militare sovietica, ma con ricami tradizionali ucraini al posto delle mostrine e forzando sull’ambiguità del volto, accentuando alcuni dettagli per mettere in discussione il concetto di mascolinità e, allo stesso tempo, per ricordare la censura sovietica. Infatti, “la fotografia ha dato senso alla mia vita. Prima, tutto pareva rimanere lo stesso: vita, giovinezza, amicizia, amore, ma la fotografia ha unificato questi aspetti. È stata il mio modo di venirne fuori, una fuga dal vuoto della mia esistenza”.
Già nei primissimi lavori si rintracciano, infatti, i tratti fondanti del suo intero metodo fotografico. Realizzata tra il 1965 e il 1978, la serie Red manifesta, appunto, tali caratteri: la sua città natale (e la relativa vita quotidiana) come protagonista, e il lavorare in serie. Composta da oltre settanta foto, il denominatore comune degli scatti è il colore rosso, carico del potere simbolico della Rivoluzione russa e, quindi, dell’ideologia comunista. Un rosso colto in molti dettagli del capoluogo, in diversi frangenti del quotidiano come nelle parate, che marca quanto abbia permeato le loro vite e come, nel corso delle manifestazioni pubbliche, fosse creata la propaganda sovietica, una sorta di crociata, con volti felici, fiduciosi nel futuro.
Dal momento che per Mikhailov una singola foto non è in grado di mostrare e comunicare tutte le informazioni, da questo limite nasce la sua predilezione a lavorare in serie perché “esplorare qualcosa da angolature diverse restituisce un senso più elevato della verità”. Così, con i suoi lavori, copre l’intera storia recente dell’Ucraina.
Rappresentato da alcune gallerie (gallerie Suzanne Tarasieve Gallery – Parigi); Sprovieri Gallery – Londra; Guido Costa Projects – Torino; Barbara Gross – Monaco e Galerie Barbara Weiss – Berlino), attualmente risiede a Berlino e, dopo le prime mostre clandestine, organizzate in abitazioni private, allestite nelle “cucine dissidenti”, dove esponeva quegli scatti che altrimenti si sarebbero imbattuti nella censura sovietica, ha al suo attivo mostre nei principali musei di tutto il mondo, nonché in prestigiose rassegne. Ha, infatti, rappresentato l’Ucraina nella Biennale di Venezia per ben due volte, nel 2007 e nel 2017, seppure la sua prima comparsa in Italia risale a una personale nella Fondazione Querini Stampalia nel 1999, curata da Guido Costa, che raccolse un’ampia selezione della serie Case History. Da allora, altre importanti esposizioni si sono susseguite anche nella nostra Penisola: CAMERA Fotografica di Torino, nel 2015, scelse di inaugurare la sua apertura proprio con la retrospettiva Boris Mikhailov: Ukraine. Sempre nello stesso anno il MADRE gli ha reso omaggio con la mostra Io non sono io. Mentre il Palazzo delle Esposizioni di Roma, fino al 28 gennaio 2024, ha allestito un’importante retrospettiva BORIS MIKHAILOV: UKRAINIAN DIARY, curata da Laurie Hurwitz in collaborazione con Boris e Vita Mikhailov, che ricalca quanto esposto con Boris Mikhailov: Journal ukrainien (gennaio 2023) alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi, nella quale è possibile ammirare le più importanti serie da lui realizzate in oltre ottocento foto (raggruppanti diciassette serie, incluse quelle dello slideshow di Yesterday’s Sandwich). Dall’esposizione parigina, la mostra romana si differenzia per l’inserimento di un lavoro che il fotografo realizzò allorquando venne nella Capitale per partecipare a FotoGrafia. Festival Internazionale di Roma (2002). Anche in quell’occasione decise di realizzare delle foto “stile Mikhailov” e, per questo, andò a Capocotta, col desiderio di fotografare chi tra le dune svolgeva traffico di sesso, non riuscendoci.
Case History (1997-98) è, sicuramente, la serie più famosa e, al contempo, quella più cruda, nella quale ha abbinato la scrittura alle immagini. Riprendendo la vita della strada, privo dell’intento di denuncia, ma solo quello di dare visibilità a chi, altrimenti, non lascerebbe traccia di sé, i protagonisti sono i reietti, i senza tetto, tutte quelle persone che, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica per effetto della perestrojka, a causa della grande crisi, hanno cominciato a morire, “è arrivato il cambiamento che tutti abbiamo aspettato, ma nessuno si aspettava che questo passaggio sarebbe stato così difficile e avrebbe portato così tante vittime […] mi sembrava molto importante dover dare questa informazione, stampando le mie fotografie in grandi formati […] affinché producessero una sensazione intensa”.
Altrettanto densa è Salt lake (1986), una serie di medio formato in bianco e nero virata al seppia, scattata clandestinamente sulla riva di un lago nel sud dell’Ucraina, dove era cresciuto il padre, con la quale ritrae una folla promiscua di bagnanti circondata da fabbriche, convinta che l’acqua calda e salata, nonché il fango, avessero proprietà curative, senza considerare che in quelle acque si riversavano gli scarichi di lavorazione degli stessi opifici, fissando, di nuovo, i paradossi dell’esistenza.
Boris Mikhailov – Ukrainian Diary
Roma, Palazzo delle Esposizioni
fino al 28 gennaio 2024
a cura di Laurie Hurwitz in collaborazione con Boris e Vita Mikhailov
promossa da Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo
prodotta da Azienda Speciale Palaexpo e organizzata in collaborazione con Maison Européenne de la Photographie di Parigi
In copertina, Boris Mikhaïlov, From the series "Luriki (Colored Soviet Portraits)", 1971-85. © Boris Mikhailov, VG Bild-Kunst, Bonn Germany | © Boris Mikhailov, by SIAE 2023.Courtesy Boris and Vita Mikhailov.