Architetture inabitabili
Sebbene Vitruvio, nel libro I del suo mastodontico trattato De Architectura, abbia individuato come requisiti essenziali delle costruzioni la solidità (“quando le fondamenta, costruite con materiali scelti con cura e senza avarizia, poggeranno profondamente e saldamente sul terreno sottostante”), l’utilità (“quando la distribuzione dello spazio interno di ciascun edificio di qualsiasi genere sarà corretta e pratica all’uso”) e la bellezza (“quando l’aspetto dell’opera sarà piacevole per l’armoniosa proporzione delle parti”); e ancorché, nell’immaginario collettivo, il concetto di architettura sia immediatamente associato alla costruzione di edifici destinati alle attività umane, soprattutto abitative, tuttavia esistono, sparse per il mondo, non solo architetture senza architetti, ovvero “quelle architetture spontanee che rispondono al bisogno dell’uomo di procurarsi un riparo e un rifugio” (John May, Architettura senza architetti, 2010), ma, anche, “architetture inabitabili”.
Nonostante l’iniziale senso di stridore che si avverte dinnanzi a un tale ossimoro, successivamente un sentimento, pressoché romantico e immaginifico, cerca di focalizzare quali possano essere simili architetture, concepite ab origine per non essere delle dimore per l’uomo. Fondamentalmente, è da tener ben presente che l’architettura ruota intorno al concetto generale di costruire, di organizzare e dare delle forme agli spazi antropizzati e fruiti dall’uomo. Sin dalla notte dei tempi, infatti, le abitazioni si sono accompagnate a costruzioni non abitabili; basti pensare agli stessi archi di trionfo, alle colonne, ai teatri e ai circhi romani. Per proseguire con la fantasmagoria Cinque-Seicentesca delle ville e dei parchi nobiliari con i giochi d’acqua o labirinti (su tutti Villa d’Este a Tivoli o il Parco dei Mostri di Bomarzo), o delle scenografie effimere costruite per le celebrazioni di avvenimenti politici di elevata importanza (memorabili quelle berniniane). E, sul finire dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, arrivare alle prodezze architettoniche realizzate grazie al progresso (nonché alla sconfinata fiducia) tecnologico, che, addirittura, ha consentito, anni dopo, la realizzazione di quelle utopistiche architetture di Étienne-Louis Boullée: come altrimenti interpretare la Géode al parco de La Villette di Parigi, se non la concretizzazione del progetto del cenotafio di Isaac Newton?
Ubriacatura seguita dal fallimento di quelle stesse utopie, che ha visto nella deindustrializzazione uno dei segnali forti di tale naufragio. Magistralmente testimoniato dall’immenso archivio fotografico dei coniugi Becher che, un po’ alla stessa stregua di foto segnaletiche, un po’ come ritratti familiari, hanno fotografato per tutta la vita serbatoi idrici, cisterne, altiforni, torri di raffreddamento, gasometri, silos o altre forme di impianti industriali che per quasi un secolo hanno di-segnato il paesaggio industriale, sia delle campagne che delle città. Tutt’oggi, sono numerose le costruzioni che non hanno finalità abitative, ma che, ugualmente, tracciano le fisionomie dei centri abitati: è sufficiente rammentare le architetture effimere dei diversi padiglioni delle varie edizioni delle Expo-Esposizioni Universali, come le stazioni di servizio (poeticamente fissate sulla tela dagli universalmente conosciuti Edward Hopper e Edward Ruscha), le discoteche, i villaggi vacanza, i centri commerciali, le piattaforme marine, isole artificiali, i bagni pubblici (come non pensare a quelli ipertecnologici giapponesi a cui Wim Wenders ha tessuto la propria lode col suo Perfect Days?). Per arrivare addirittura alle architetture improbabili e impossibili, a metà tra il reale e l’irreale, ma assolutamente realistiche, degli artisti Filip Dujardin e Victor Enrich. È proprio dalle suggestioni suscitate da una visione reale, un silo abbandonato vicino alla foce del Po, e da una citazione letteraria di Cesare Pavese, “niente è più inabitale di un posto dove siamo stati felici” (La spiaggia, 1942), che alla curatrice Chiara Sbarigia è nata l’idea della mostra Architetture Inabitabili. Coadiuvata da Dario Dalla Lana, Sbarigia ha ideato e organizzato una “[…] mostra corale che mettesse in evidenza alcune architetture inabitabili altamente rappresentative e simboliche del nostro paese”, fondendo arte, letteratura, fotografia. Allo stesso momento, ha posto in relazione i Musei in Comune Roma, Luce Archivio (di cui è Presidente), Cinecittà. Una mostra con circa centocinquanta immagini, di formati diversi, sia a colori che in bianco e nero, e filmati soprattutto dell’Istituto Luce, attinte da archivi diversi da Luce Archivio, come quelli di Cinecittà; e ha preso spunto da altri saggi, tra cui Doppiozero. Una mappa della contemporaneità (2003) di Marco Belpoliti (al quale è affidata anche la postfazione del catalogo); e ha accolto ulteriori suggestioni, come le water towers di New York.
E per riflettere e parlare delle architetture inabitabili, quale miglior sito se non la Centrale Montemartini? Che da sola incarna non solo una delle innumerevoli architetture inabitabili, ma anche il declino industriale e, soprattutto, il magnifico recupero di un manufatto dismesso e a lungo abbandonato, nella visione di una necessaria rigenerazione urbana. Una mostra accompagnata piuttosto che da un catalogo, da un “libro”, edito da Archivio Luce Cinecittà con Marsilio Arte. Perché, al suo interno, oltre ai saggi dei curatori e alle immagini delle opere in mostra, sono inclusi i testi di otto scrittori (per questo la fusione con la letteratura) associati a ciascuna architettura inabitabile individuata per l’esposizione. Arte perché, non solo alcune fotografie esposte sono la rappresentazione di opere d’arte o risultato di azioni artistiche (vedi quella di Marzia Migliora), ma alcune sono state appositamente commissionate agli artisti Francesco Jodice e Silvia Camporesi.
Le architetture inabitali sono state individuate tra quelle universalmente conosciute, come il Lingotto della Fiat di Torino, a quelle più emblematiche, come il Campanile di Curon; da quelle più iconiche, come il Gazometro di Roma, a quelle meno conosciute, come i Palmenti di Pietragalla. Quindi, otto località, che vanno dal nord al sud, accompagnate dai testi di altrettanti scrittori: Campanile di Curon nel lago di Resia, con Francesca Melandri; il Memoriale Brion a San Vito di Altivole (TV), con Tiziano Scarpa; torre Branca di Milano, con Gianni Biondillo; il complesso industriale del Lingotto di Torino, con Andrea Canobbio; gli ex Seccatoi del Tabacco di Città di Castello (PG), con Filippo Timi; il Gazometro di Roma con Edoardo Albinati; il Parco dei Palmenti di Pietragalla con Andrea Di Consoli, e, infine, il Grande Cretto di Gibellina con Stefania Auci.
Una mostra raccolta, intima, ben equilibrata e ben allestita, non particolarmente grande, ma non per questo non densa, sia per la portata storica e sociale dei siti individuati, sia per la capacità fortemente evocativa di certe immagini. Che lascia aperte tante riflessioni e che rimane sulla pelle anche dopo averla visitata. Nella quale immergersi e farsi avvolgere. Attraversare le sale è, quindi, come compiere un viaggio. Non solo geografico, ma anche storico-sociale. Un viaggio attraverso le utopie e attraverso le abitudini e le consuetudini collettive delle distinte comunità. Un viaggio che unisce, sotto lo stesso segno, attività tra loro diversissime, come la costruzione di una diga (le cui varie fasi sono attestate dalle foto dei Fratelli Pedrotti), che ha determinato l’abbattimento del paese di Curon lasciando, come trofeo, come spauracchio simbolo, il campanile che, diversamente da Loch Ness, non è un chimerico mostro, ma una sorta di visione magica nel nulla. Quella magia che Silvia Camporesi è riuscita a infondere nelle foto commissionate, una delle quali eloquentemente apre il percorso espositivo, e mostra il campanile medievale che, solitario, spunta dal lago ghiacciato, immerso nella neve, sulla quale si stagliano le centinaia di impronte dei passi delle persone che, come in una fiaba disneyana in cui il castello si intravede tra le nuvole, si sono potute finalmente avvicinare a quella torre campanaria sempre ammirata dai margini e constatare così che non era una visione.
Una trasformazione talmente bizzarra e spaesante che è diventata il fulcro di numerose cartoline “saluti e baci da Curon”. Inoltre, non è superfluo ricordare che Silvia Camporesi da anni si dedica alla realizzazione di progetti fotografici in giro per l’Italia, dando alle stampe i libri Cappella Espiatoria, Monza (2022) e Mirabilia (2023), preceduti dal progetto de L’Isola delle Rose (2021) e dal bellissimo Atlas Italiae (2015). Un viaggio anche attraverso l’arte. Attraverso il corto circuito creato dallo straordinario Alberto Burri col suo Grande Cretto: un sudario che si stende sopra le macerie di Gibellina per ricordare i morti, per ricordare la ferita, un monumento-non monumento che travalica il concetto di arte, di architettura, di memoria. Ma anche con gli ex Seccatoi del Tabacco che, dal 1990 (dopo aver ospitato i libri dell’alluvione di Firenze del 1966), accolgono i potenti lavori del grande artista umbro, originario proprio di Città di Castello. Quelle atmosfere pressoché metafisiche che pervadono non solo il monumentale Memoriale Brion (su progetto di Carlo Scarpa, qui sepolto, raccontato dagli scatti di Gianni Berengo Gardin, Masaaki Sekiya e Guido Guidi), ma, soprattutto, si esprimono nelle grandi fotografie, quasi stregate, della torre Branca di Francesco Jodice, la torre littoria voluta da Mussolini che, nel 1933, incaricò della costruzione Giò Ponti, già fotografata da Ferdinando Scianna. A rendere il clima ancora più evocativo, sono anche le voci trionfalistiche dei cinegiornali dell’epoca che raccontano chi è Brion, nonché la sorprendente impresa della costruzione del Gazometro. Manufatto industriale, soggetto di numerose pellicole (tra cui Sciuscià di Vittorio De Sica, 1946; La banda degli onesti di Camillo Mastrociqnue, 1956, con Totò, e Storia d’amore di Citto Maselli, 1985, con Valeria Golino), sfondo di diversi ritratti di alcuni importanti personaggi, su tutti quelli di Pier Paolo Pasolini. O di situazioni bizzarre, come la presenza di alcuni elefanti del Circo Togni.
Piccola nota a margine. Da alcuni anni si discute sull’opportunità della presenza o meno delle didascalie. In una mostra come questa, diventano fondamentali, ancor di più se sono complete di tecnica di stampa, di anno di esecuzione e anno di stampa, affinché si abbia un quadro il più completo di informazioni. Altra piccola nota a margine. Nel corso di una lectio magistralis L’etica dell’architetto e il restauro del paesaggio, del 2014, Salvatore Settis propose di istituire, sulla falsa riga di quello di Ippocrate per i medici, una sorta di Giuramento anche per gli architetti, prendendo come riferimento i requisiti dell’architetto elencati da Vitruvio, un Giuramento di Vitruvio, cosicché ogni architettura non solo sia rispettosa dell’ambiente, ma sia radicalmente funzionale alle reali esigenze umane, evitando certi errori progettuali compiuti anche da illustri architetti, dallo stesso Le Courbusier (che imponente svetta sulla pista di collaudo del Lingotto di Torino, in una delle foto esposte) a Zaha Hadid.
Architetture Inabitabili
Roma, Centrale Montemartini
fino al 5 maggio 2024
In copertina, MEMORIALE BRION© Giudo Guidi - CISA A. Palladio, San Vito di Altivole (Treviso), Complesso monumentale Brion, bacino del padiglioncino, 2004.