Il genio milanese e la grande Brera

16 Febbraio 2025

Nel 1972 Gian Alberto Dall’Acqua, il soprintendente ai Beni Culturali della Lombardia, fece acquistare dallo Stato il settecentesco palazzo Citterio, adiacente al complesso museale di Brera. L’allora direttore della Pinacoteca, Franco Russoli, ebbe l’idea della “Grande Brera”, in modo da estendere la collezione museale oltre alla sua soglia storica, il Romanticismo, per accogliere e storicizzare l’arte dell’ultimo secolo. Era anche un modo di invogliare grandi collezionisti come Emilio Jesi e Lamberto Vitali (il massimo raccoglitore, insieme a Luigi Magnani, di Giorgio Morandi) che donarono negli anni successivi le loro collezioni otto-novecentesche a Brera. In quel periodo Russoli, che era stato partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà, stava ripensando all’idea di museo (era il momento in cui a Parigi si stava costruendo il Beaubourg), lo immaginava più connesso alla città e a una società in veloce evoluzione. Giunse a chiudere la pinacoteca per qualche mese per sottolineare lo scandalo di uno Stato che utilizzava solo una parte esigua del suo bilancio per difendere e valorizzare il proprio patrimonio artistico. Promosse la mostra Processo a Brera (1976), un complesso di esposizioni che ripensava alla radice l’idea di museo, promuovendo laboratori con Bruno Munari, Roberto Sambonet e altri artisti. L’idea di Russoli era quella che il museo dovesse diventare un luogo di elaborazione della cultura, di educazione all’arte e di cittadinanza attiva, non più soltanto di conservazione e restauro in cui si tramandava la storia dell’arte senza interrogarsi troppo sulle ragioni per cui questo avveniva. Accusato di una visione troppo grandiosa, rispose: “Io penso che senza utopia non si fa la realtà”. La sua morte improvvisa nel 1977 bloccò il processo di realizzazione della “Grande Brera”, ripreso con una certa lena alla metà degli anni Ottanta con l’arrivo di un ricco finanziamento statale. L’Associazione Amici di Brera, allora presieduta da Ennio Brion, incaricò l’architetto inglese James Stirling della ristrutturazione e ampliamento di Palazzo Citterio. Approvato nel 1989, il progetto si bloccò negli anni successivi, così come il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica fece perdere via via slancio all’idea di “Grande Brera” che si impantanò nelle pastoie burocratiche senza che ci fosse una figura abbastanza carismatica per rilanciarla. Sarà il governo Monti (2012) a stanziare un cospicuo finanziamento e a far ripartire il progetto, mentre Mario Bellini, l’architetto incaricato, propose un’ardita soluzione sopraelevata in modo da congiungere il complesso di Brera a Palazzo Citterio, ma fu l’ennesima falsa partenza. Solo con la riforma delle soprintendenze e l’autonomia di spesa delle maggiori di esse il nuovo direttore generale James Bradburne (2015) riuscì a far ripartire il progetto della “Grande Brera”. A chiudere il cerchio, a 52 (!) anni dall’idea iniziale è toccato all’attuale direttore Angelo Crespi che ha scelto l’architetto Mario Cucinella per completare l’opera di ristrutturazione del Palazzo, aperto il 7 dicembre 2024, giorno del Santo patrono. Infiniti i commenti e le critiche dei milanesi sulle soluzioni adottate (le scale di foggia aereoportuale, i minuscoli cartellini accanto ai quadri, i colorini pastello delle stanze, la struttura lignea esterna e così via), ma insomma il museo è stato finalmente aperto alla cittadinanza che, seppur a singhiozzo a causa degli scioperi del personale pesantemente falcidiato nel corso degli anni, può apprezzare, se non la realizzazione dell’idea di Russoli (che non ha perso la sua attualità), una prosecuzione del percorso museale che dal gotico internazionale si inoltra fino al nostro Novecento più scelto.

A tutti è sembrata una buona idea riepilogare quella storia nella mostra La Grande Brera. Una comunità di arti e scienze, a cura di Luca Molinari. L’esposizione, attraverso opere, fotografie, documenti, disegni, tutti ben scelti e provenienti dai ricchissimi archivi di Brera, narra le vicende del complesso, un tempo sede della Compagnia del Gesù, e delle sue istituzioni, quelle nate ai tempi di Maria Teresa d’Austria: Osservatorio Astronomico (1760), Biblioteca Braidense (1770), Orto Botanico (1774), Accademia e Pinacoteca di Brera (1776), proseguite sotto Napoleone con l’Istituto Lombardo Accademia di Scienza e Lettere (1797), e infine completate, per iniziativa di privati cittadini, con l’Associazione Amici di Brera (1926) che ha accompagnato la storia della Pinacoteca in vari momenti, come in tempi recenti con Aldo Bassetti, un grande milanese. Incongrua invece appare l’inclusione dell’Archivio Storico Ricordi che ha oggi qui la sua sede ma la cui storia si è svolta altrove. In ogni caso la mostra spiega bene il sistema integrato di arti e saperi di ascendenza illuminista, dove la ricerca teorica è verificata nella pratica, in cui spiccano personaggi di epoche diverse come, tra tanti, l’astronomo Giovanni Schiaparelli o Fernanda Wittgens, artefice della ricostruzione postbellica. Nello stesso tempo è messo in luce il rapporto tra Brera e la città nei vari tornanti della storia: artisti, scienziati, botanici, insegnanti, innumerevoli sono i personaggi passati da Brera. Per fare un solo nome: Ugo La Pietra, studente, poi docente in Accademia e infine autore di uno studio su la “Grande Brera” che si ritrova in mostra.

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Il carattere della città, la sua identità, è un po’ il tema di fondo che si può ricavare dalla mostra Il genio di Milano. Crocevia delle arti dalla Fabbrica del Duomo al Novecento presso le Gallerie d’Italia di Milano (fino al 16 marzo 2025), frutto dello sforzo congiunto di Marco Carminati, Fernando Mazzocca, Alessandro Morandotti, Paola Zatti, storici dell’arte di area milanese che così spiegano le ragioni del titolo e del sottotitolo: “Milano (…) è sempre stata attenta nel corso dei secoli alle novità introdotte da artisti forestieri, che vi hanno trovato grandi opportunità per realizzare i loro progetti, anche grazie a un mecenatismo e a un collezionismo lungimiranti”. Senza voler rileggere tutta la vicenda della storia dell’arte a Milano, la mostra preferisce isolarne alcuni momenti, quando l’arrivo di artisti da fuori contribuisce a cambiarne il clima culturale. C’è da dire che nel periodo considerato (dal XIV al XX secolo), la città non è stata sede di una corte o di un sistema di potere omogeneo, come a Venezia, a differenza delle principali città italiane, con l’eccezione dell’epoca di Ludovico il Moro. Questo ha determinato l’importanza di alcune istituzioni, la più antica delle quali è la Veneranda Fabbrica del Duomo, fondata da Gian Galeazzo Visconti nel 1387, nata come polmone finanziario, organizzativo e realizzativo di una cattedrale “degli stranieri”, come scrive Marco Carminati, che ha la necessità di utilizzare maestranze transalpine per un’opera che richiedeva un know how che da queste parti ancora non esisteva. La costruzione e la manutenzione del Duomo, oltre a essere un fatto artistico (bellissimi i cartoni preparatori delle vetrate a opera di Vincenzo Foppa, l’artista che si può dire inauguri la stagione dell’arte lombarda), creano un’economia, una logistica (l’approvvigionamento del marmo che proviene da Candoglia, all’imbocco della Val d’Ossola) e una serie di botteghe di artigiani/artisti che hanno sede nei dintorni della cattedrale e creano una tradizione che prosegue nei secoli, come dimostra, ad esempio, il bel libro che Susanna Zanuso ha di recente dedicato alla scultura a Milano nel Seicento. Lo stesso Carminati mette in luce la scossa che Leonardo Da Vinci ha dato non solo al sistema delle arti ma all’intera città quando vi dimora tra il 1482 e il 1499, e poi di nuovo, non continuativamente, dal 1506 al 1513. Nella celebre lettera che fa scrivere a Ludovico il Moro si presenta come ingegnere militare e, a tempo perso, pittore, scultore, architetto. Arrivato in città ne traccia una mappa che è quasi un programma di intervento (prende nota delle porte, del sistema viario). Sul retro del foglio elenca una serie di cose da fare, di persone da incontrare, di libri da leggere. Insomma, ne prende le misure. Anche se la sua eredità è inestinguibile – Luca Doninelli ha scritto che il carattere della città è politecnica, quindi di derivazione leonardesca –, riesce a combinare abbastanza poco. La sua traccia più evidente è L’ultima cena a Santa Maria delle Grazie, ricompensata con una vigna da parte di Ludovico il Maro, alla corte del quale, nell’ultimo scorcio di Quattrocento, sono presenti anche Donato Bramante e fra Luca Pacioli. È probabilmente il momento del massimo fulgore artistico della città (si rimanda alla monumentale opera La corte di Ludovico il Moro di Francesco Malaguzzi Valeri, uscita in quattro volumi tra il 1913 e il ’23). Quando, dopo la fine del Ducato di Milano, Leonardo ritorna in città, senza una famiglia trova conforto in allievi talentuosi come Marco d’Oggiono, Giovanni Antonio Boltraffio, Bernardino Luini, il più influente, che ne proseguono la lezione per buona parte del XVI secolo, ingentilendo l’espressività costitutiva della pittura lombarda. Leonardo, insieme a Francesco Hayez, è l’unico artista ad avere l’onore di una propria statua in una piazza cittadina: è proprio in piazza della Scala, davanti all’ingresso della mostra, e fu inaugurata, dopo molte polemiche, nel 1872, in uno dei primi atti dello stato unitario.

La corte di Ludovico il Moro.

L’Europa della Controriforma ha in Milano una delle sue capitali. È la città dei Borromeo e della fondazione dell’Ambrosiana (1609 la Biblioteca, 1618 la Pinacoteca), un’altra delle istituzioni culturali di lungo periodo, che nasce sull’esempio dei collegi romani, ma acquista da subito una declinazione propria, come fa notare Alessandro Morandotti. In mostra emerge il gusto per la pittura di paesaggio (Brueghel il Vecchio) e per le nature morte fiamminghe di cui Federico Borromeo è un appassionato collezionista. L’Ambrosiana è un’accademia di scienze, arti e lettere, in cui le radici umanistiche si fondono con quelle cristiane e alimentano una tradizione culturale il cui simbolo può essere considerato il Codice virgiliano appartenuto e annotato da Francesco Petrarca.

Nell’ultimo scorcio di Seicento e poi nel Settecento Milano attrae una serie di pittori di area veneta (Giambattista Tiepolo, Bernardo Bellotto) e diviene un trampolino di lancio, come scrive Morandotti, per le loro carriere che si svolgono in giro per le corti europee. Il più assiduo è probabilmente Sebastiano Ricci, proveniente da Belluno, grazie al solido rapporto che stabilisce col marchese Carlo Pagani, un nouveau riche di fine Seicento, di cui affresca il palazzo. In questa sezione si ammirano anche le opere del genovese Alessandro Magnasco, maestro di chiaroscuri. Anche se il periodo della dominazione spagnola, su cui gravava l’ipoteca della tendenziosa interpretazione del Manzoni, è stato ampiamente rivalutato dalla storiografia negli ultimi decenni, è certo che l’assetto della Milano di oggi affonda le sue radici nel secondo Settecento con le riforme di Maria Teresa d’Austria e del figlio Giuseppe II. Dal punto di vista artistico e architettonico è, come scrive Ferdinando Mazzocca, la nuova Milano di Giuseppe Piermarini, architetto che nasce a Foligno, allora Stato pontificio, di formazione romana, allievo di Luigi Vanvitelli che lo consiglia al ministro plenipotenziario Carlo Firmian, alla ricerca di una figura in grado di imprimere un volto unitario alla città e ai suoi luoghi simbolici (bisogna immaginarsi una Milano ancora rinserrata nella cerchia dei Navigli, con le case una addossata all’altra). Palazzo Belgiojoso, Palazzo Greppi, Teatro alla Scala, oltre alla Villa Reale di Monza, sono le sue principali realizzazioni. Consulente iconografico è Giuseppe Parini, ispiratore della sobria bellezza neoclassica milanese, un aggettivo che si può utilizzare per un paio di secoli, fino alla Torre Velasca e al Grattacielo Pirelli e che contrasta con molta dell’architettura instagrammabile del XXI secolo. Un allievo di Piermarini, Luigi Canonica, progetta i giardini di Porta Orientale, i primi giardini pubblici aperti alla cittadinanza, in una città dove architetti e artisti dialogano con i grandi illuministi (i fratelli Verri, Cesare Beccaria). In questa sezione spicca un bellissimo ritratto di Ludovico Belgiojoso, ambasciatore a Londra per la corte di Vienna, di Joshua Reynolds, Belgiojoso fa parte del centinaio di grandi famiglie che, con i loro palazzi, sono stati un modello estetico per la città. Molte famiglie si sono estinte, più d’una è proseguita fino a oggi, grazie ai matrimoni tra nobiltà e borghesia che a Milano, a differenza di tutte le altre città italiane, cominciarono già nella prima metà dell’Ottocento. La Milano napoleonica (Repubblica Cisalpina e poi Regno d’Italia) ha come protagonisti della scena artistica maestri come Andrea Appiani, ammirato da Stendhal, pittore che diede l’impronta a un’epoca, e come il suo rivale Giuseppe Bossi, che rinnovò l’Accademia di Brera, invitando tanti docenti da altri Stati italiani, rendendola una scuola che attraeva giovani artisti, mentre, con l’avvento della Rivoluzione industria, stava terminando il ciclo storico delle botteghe d’artista. Un altro luogo di formazione per gli artisti milanesi, come fa rilevare Fernando Mazzocca, è il Teatro alla Scala, dove primeggia Alessandro Sanquirico, maestro di scenografia nell’epoca del grande melodramma (Rossini), oltre che impareggiabile creatore di architetture effimere. La Milano romantica non conosce, tutto sommato, il contraccolpo della Restaurazione, ma è a pieno titolo una città europea, dove primeggia Francesco Hayez che si trasferisce a Milano da Venezia nel 1823 e diviene l’incontrastato protagonista delle esposizioni annuali di Brera. L’unico rivale, per un certo periodo, è l’astuto Massimo D’Azeglio che sposa Giulia Manzoni, figlia di Alessandro, ed entra a far parte della migliore società cittadina: conosce il favore del pubblico inserendo scene storiche o romanzesche nelle sue tele.

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Adolfo Wildt, L’albero della vita (Fontanella santa) particolare.
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Interno dello studio di Molteni a Milano con il pittore e Massimo d’Azeglio.

Le ultime sezioni della mostra, in un’Italia finalmente unita protesa in campo artistico nello sforzo di inventare la propria tradizione, sono a cura di Paola Zatti che mette in luce la continuità tra la Milano divisionista di fine Ottocento, dove un abile mercante-pittore, Vittorio Grubicy de Dragon, promuove due personalità dirompenti come Gaetano Previati (di origine ferrarese) e Giovanni Segantini (di Arco di Trento), uniti nel “superamento del vero”, e quella futurista. Quando Umberto Boccioni arriva in città dal Trentino, Milano è la città più adatta per dipingere soggetti liberi, prima della rivoluzione futurista. Per la Zatti, tuttavia, il futurismo è in linea di continuità con le esperienze artistiche precedenti. Nel Manifesto dei pittori futuristi (1910) sono citati i nomi di Medardo Rosso, Segantini e Previati, mentre la reazione, il rappel à l’ordre postbellico milanese, è rappresentato dal gruppo Novecento, artisti riuniti dalla Galleria Pesaro (le gallerie, un nuovo soggetto nel sistema dell’arte). Tra di loro Leonardo Dudreville, Achille Funi, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Sironi, a Milano in pianta stabile dal 1919, è l’artista di maggior personalità del gruppo e quello in cui più arte e ideologia fascista coincidono.

L’ultima sezione è dedicata ad Adolfo Wildt e ai suoi due allievi all’Accademia di Brera: Lucio Fontana e Fausto Melotti. Wildt ripensa all’arte classica rinnovandone la forma, toccandone la materia, svuotata di sostanza, fino a ottenere una purezza assoluta. È da qui che partono Fontana e Melotti nelle loro ricerche formali verso l’astratto. È significativo, per chiudere un cerchio, che in questa sezione ci sia un bozzetto di una porta del Duomo di Fontana che poi non venne utilizzato, ma che ribadisce la continuità di una storia che a quel punto contava ormai sei secoli. Sarebbe bello che questa storia potesse essere raccontata anche a rovescio, dal punto delle istituzioni che la città ha saputo creare nel corso dei secoli e che hanno saputo attrarre artisti, o aspiranti tali, dal resto dell’Italia e d’Europa. Un po’ come è successo con la moda e il design nell’ultimo mezzo secolo.

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