Ritratti di Carlo Mattioli a Colorno
Parma, autunno 1956: una foto celebre scattata dopo un pranzo alla trattoria Il Torrente, sul Lungoparma, ritrae quasi tutto il gruppo che avrebbe dato vita da lì a qualche mese a «Palatina», la rivista che tenne alto il blasone della ‘piccola capitale’ e le ragioni della cultura di provincia in un momento in cui Roma, Milano e Torino stavano attraendo la maggior parte dei nostri intellettuali, negli anni della vorticosa mutazione antropologia del nostro Paese. Tra gli altri si riconoscono Attilio Bertolucci, primus inter pares, Pietrino Bianchi, Pietro Barilla (il finanziatore), i giovani Alberto Bevilacqua e Giorgio Cusatelli (l’unico che ho conosciuto) e altri personaggi della cultura locale. Il primo numero di «Palatina» porta la data gennaio-marzo 1957 e nell’editoriale di presentazione, non firmato ma attribuibile ad Attilio Bertolucci, si scrive: “Palatina, per dorato che suoni il suo nome e aristocratico, è aperta alle più azzardate avventure artistiche. Pur che non si tratti di presuntuose velleità”. L’ultimo dei ventinove fascicoli esce nel gennaio-marzo 1966, nel mezzo la cultura italiana ha subito un terremoto: escono i primi bestseller (Il Gattopardo), gli scrittori diventano sempre di più personaggi pubblici attraverso l’avvento della televisione, nascono le prime collane di tascabili: si assiste, insomma, all’avvento dell’industria culturale.
Avviandosi alla chiusura le ragioni per cui la rivista è esistita sono orgogliosamente ribadite: “dopo otto anni di vita”, provincia è “indicazione di una umanità lenta, riflessiva e tenacemente refrattaria al gratuito”, che “si contrappone all’“esasperazione dei valori formali, allo sperimentalismo privo di ragioni autentiche e pronto a contrabbandare, con etichette rivoluzionarie, un prodotto vecchio”, mentre si denuncia “la mitizzazione degli oggetti e dei programmi” dentro un “esilio volontario della storia”. Il convitato di pietra sembra essere il Gruppo 63 e le polemiche che spaccarono la comunità letteraria in quegli anni. A dare il tono a «Palatina» sono Attilio Bertolucci, che dal 1951 vive a Roma in una sorta di esilio volontario, e il direttore Roberto Tassi, storico dell’arte militante tra i più puntuali dell’intero Novecento (il carteggio tra i due, pubblicato a cura di Elisa Donzelli da Il Mulino nel 2019, fornisce molte informazioni sulla rivista, oltre che sull’aggiornamento artistico di Bertolucci, molto attento a ritrovare il filo della tradizione anche tra i pittori contemporanei). Alle loro spalle si intravvedono le figura di Roberto Longhi, maestro per Bertolucci ed esempio per Tassi, e di Francesco Arcangeli, lo storico dell’arte bolognese amico di entrambi.
In quella foto c’è Carlo Mattioli (1911-1994), grafico della rivista, come lo fu qualche anno prima di «Paragone», ma soprattutto pittore figurativo tra i maggiori del nostro secondo Novecento, oggi ingiustamente un po’ messo da parte, ma di cui si può finalmente tornare a parlare in occasione della mostra [Contro]ritratti , presso la reggia di Colorno (fino al 12 gennaio 2025), a cura di Sandro Parmiggiani e Anna Zamboni Mattioli, nipote del pittore e presidente della Fondazione Carlo Mattioli , all’opera nel promuovere la riscoperta di un artista amato da Longhi, Bertolucci, Tassi, ma anche, per avvicinarci al presente, dal compianto Marco Vallora e da letterati come Vittorio Sereni, Mario Luzi, Giorgio Soavi e Cesare Garboli. Mattioli nasce a Modena da una famiglia di artisti, ma si trasferisce presto a Parma dove trascorre pressoché tutta la vita. È qui che nel 1937 sposa Lina, modella dei primi nudi e dei primi ritratti, mentre la prima personale è organizzata alla Galleria del Fiore di Firenze nel 1943 con Ottone Rosai come ‘testimone di battesimo’. Dal dopoguerra Mattioli è presente alle Biennali di Venezia, conquistando nel 1956 il premio internazionale per il disegno. La sua opera può essere divisa in periodi: il nudo, la natura morta, la pittura di paesaggio, in cui, a partire dagli anni Settanta, raggiunge esiti notevolissimi (la Versilia e la pianura emiliana, i soggetti più praticati). Una costante, a partire dagli anni Quaranta, pur con qualche interruzione, sono i ritratti. In generale si può dire che la pittura di Mattioli, come la poesia di Bertolucci, pur essendo entrambi molto aggiornati culturalmente, preferisce stare un po’ in disparte rispetto alla propria epoca.
La scelta di Colorno non è casuale: nel 1963 al pittore fu richiesto dall’amministrazione comunale il ritratto di sedici glorie locali che illustrarono la cittadina nel corso dei secoli. Di alcune non si sapeva nulla, così Mattioli si divertì a mettere in effigie Attilio Bertolucci, Carlo Carrà, Papa Giovanni XXIII, insieme a personaggi realmente esistiti della storia colornese.
La mostra poi prosegue offrendo una serie di ritratti di amici e colleghi. Ad aver fissato il punto meglio di tutti è stato Garboli: “i ritratti di Mattioli sono […] introspezioni fulminee, ‘saggi critici’ che investono la psicologia (nella sua totalità) e il segreto di una persona, la contraddizione che la fa esistere”. Così un Attilio Bertolucci, non ancora quarantenne è, in una sinfonia di marroni (Mattioli è un maestro assoluto nell’uso del colore che utilizza quasi sempre a fini espressivi, spesso attraverso formidabili macchie di colore), seduto alla scrivania, rilassato davanti a una risma di fogli bianchi, in preda alla ‘proustite’, una dolce malinconia che si riverbera su chi osserva il quadro. Tra i colleghi pittori Renato Guttuso è avvolto nelle spire delle sue sigarette, in un’ambiguità che Mattioli non vuole sciogliere, Giacomo Manzù ha l’aria del brav’uomo bergamasco, interessato solo al ‘fare’, così come di Ottone Rosai – in un ritratto post mortem – evidenzia le gigantesche mani da manovale. Ancora più sottili sono i ritratti di Giorgio Morandi, considerato il più bravo di tutti, che è preso sempre di scorcio o di profilo, come se non volesse mai offrirsi del tutto a chi lo osserva. O Carlo Carrà, col basco di ordinanza, che risponde al cliché del vecchio pittore. È proprio lui? O sta recitando se stesso? Poi è la volta di due mattatori come Roberto Longhi e Giorgio De Chirico. Mattioli immerge il primo in un giallo intenso, una civetteria che è già un segnale del rappresentarsi en artiste del critico, col becco grifagno che ne delinea la personalità. Del secondo c’è una sequenza di cinque ritratti, quasi una strip fumettistica, in cui il pictor optimus ha le sembianze di un direttore d’orchestra, il pennello a mo’ di bacchetta, ma a cui mancano i musicisti (Mattioli vuol suggerire che ormai ripete all’infinito se stesso? Che gli manca la materia dell’arte?).
Sono notevolissimi anche i ritratti di personaggi della cultura oggi meno noti come Pier Carlo Santini, il braccio destro di Carlo Ludovico Ragghianti, tutto di bianco vestito con le mani come artigli, o Ubaldo Bertoli, giornalista, pittore e testimone della Resistenza nella zona di Parma, in un quadro virato tra il rosso e il nero, in una chiave espressionista che ricorda Grosz o Maccari. Tuttavia, nei ritratti di Mattioli non c’è mai la caricatura, la deformazione grottesca, piuttosto c’è il riflesso di una personalità, il ricordo della prima impressione, quella che rimane scolpita per sempre. Un’intonazione più domestica hanno i ritratti famigliari della moglie Lina, della figlia Marcella o, più sperimentali, della nipote Anna (Anna in rosso, 1977). Osservati da vicino i quadri denunciano gli accumuli di materia pittorica, con i fondi monocromi che fanno da sipario teatrale. Sandro Parmiggiani, curatore con Anna Mattioli del catalogo edito da Dario Cimorelli, ricorda alcuni dei nomi accostati a Mattioli: Fautrier, De Staël, Rothko, Bacon, Soutine e altri ancora. Tutti nomi che si possono accogliere ma Mattioli è stato un pittore colto, aggiornato culturalmente, consapevole della tradizione da cui proveniva (la via maestra dell’arte italiana), libero nell’utilizzare i riferimenti pittorici nel momento in cui gli sono utili. Non c’è mai nulla di gratuito nella sua pittura, niente che resta a metà. Chiudono la mostra due autoritratti in cui la sua silhouette alta e magra è circonfusa da un’oscurità spagnolesca, che al tempo stesso svela e nasconde la personalità di un grande nostro pittore, un prestigiatore impassabile che non vuole svelare nessuno dei suoi trucchi.
In copertina, 1977, Anna in rosso, olio su tela, cm 100 x 80, arch 1154.