Piergiorgio Bellocchio: Diario di un italiano
Piergiorgio Bellocchio (1931-2022) non ha fatto in tempo a vedere stampato il suo Diario del Novecento (Il Saggiatore), il lavoro che lo ha tenuto occupato nella seconda parte della sua vita e che non avrebbe mai visto la luce senza le esortazioni, la trascrizione e la curatela dell’amico Gianni D’Amo a cui si deve anche un’ottima prefazione.
I diari che Bellocchio ha vergato a mano con bella calligrafia accostandogli ritagli di giornale e illustrazioni, riguardano gli anni 1980-2000 e, temporalmente, in parte si sovrappongono alla rivista «Diario» (1985-1993), impresa che il nostro intraprese dividendo la fatica con l’amico Alfonso Berardinelli. Il risultato di questa edizione non corrisponde forse pienamente ai desiderata di autore e curatore perché il rapporto testo/immagine, che ha, ad esempio, illustri precedenti nell’Abicì della guerra o il Diario di lavoro di Bertolt Brecht, non trova qui un equivalente e fa smarrire il lavoro di montaggio che Bellocchio compiva con forbici e colla sulle agende e che qui si ritrova solo parzialmente.
Ad ogni modo il libro c’è, ed è la cosa che più conta. Colpisce innanzitutto nel percorso biografico di Bellocchio, dopo gli anni dei «Quaderni Piacentini» (1962-1984), il progressivo silenzio o, se vogliamo, il diniego del ruolo di intellettuale pubblico, di punto di riferimento, che si era conquistato negli anni precedenti. Contemptus mundi? Disprezzo delle preoccupazioni mondane? Direi di no, anche se l’involgarimento della scena pubblica, la fine dell’epoca delle speranze (gli anni Sessanta-Settanta), può certo aver contribuito al suo allontanamento dalla ribalta, a cui si può aggiungere il carattere schivo e una certa pigrizia. Eppure, più per caso che per scelta, Bellocchio ha progressivamente compreso che mettere una certa distanza tra sé e il mondo era la giusta postura per ‘leggerlo’ meglio.
Sono gli anni del riflusso, poi della fine del comunismo sovietico che da noi ha come conseguenza la fine della Prima repubblica e l’avvento di homines novi, che poi tanto nuovi non si sono dimostrati. Lo sguardo di Bellocchio, anche se ha un atteggiamento di attrazione e insieme di disprezzo verso il presente – la lettura dei giornali è per lui una sorta di antidepressivo – non si ferma all’attualità, scava più nel profondo. Quella che viene delineandosi, pagina dopo pagina, è un’antropologia dell’Italia e degli italiani.
Un’indagine, costruita per indizi, sul carattere nazionale condotta nei più diversi modi. Stupende sono le pagine sui genitori – il padre avvocato e possidente, la madre alle prese con una famiglia di otto figli – dei quali inquadra le caratteristiche umane nella cornice del loro essere sociale. E molto belle sono le pagine sull’educazione, sul rapporto tra città (Piacenza) e campagna (Bobbio), negli anni del fascismo, della guerra, della Resistenza partigiana e del dopoguerra.
Per lui un libro capitale è Le lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana (1952), un debito morale che l’Italia repubblicana ha il dovere di riscattare. Il suo, anche se parla di sé, a volte con particolari molto intimi (il rapporto col fumo, col sesso, la descrizione dei sogni), è sempre un interrogarsi sul mondo. Il modello, implicito, è Montaigne e la tradizione dei grandi moralisti francesi, come nota D’Amo. Nelle sue pagine si avverte sempre la tensione morale dell’uomo giusto, che non fa sconti nemmeno a sé stesso.
Negli anni in cui viene liquidato il PCI e la cultura comunista, Bellocchio che, pur non appartenendovi lo ha sempre votato, difende non tanto il partito e i suoi uomini, ma l’idea di un mondo migliore a cui hanno creduto milioni di persone e che spesso ha corrisposto alla parte migliore della nostra società. A ragionamenti e microracconti si alternano aforismi come “Lei è comunista? Me lo dimostri” che sarebbero materiale per Altan, o spunti polemici i cui bersagli sono i campioni di una società ormai del tutto laica, fondata sui valori dell’individualismo.
Le premesse di giornali come «Il Mondo» e «L’Espresso», letti ma non sottoscritti da Bellocchio in gioventù, sono disattese dal trionfo di Eugenio Scalfari e della sua tribù (notevoli le pointes polemiche contro Beniamino Placido). Così come la scomparsa di scrittori e poeti come Elsa Morante o Vittorio Sereni, che hanno creduto nel valore salvifico della letteratura, ora sostituiti da un campione dell’intrattenimento come Umberto Eco, quasi una bestia nera per l’intellettuale piacentino, non può passare inosservata. Sono gli anni in cui nelle biblioteche delle persone colte i volumi pubblicati da Adelphi sostituiscono quelli di Einaudi e Bellocchio, pur riconoscendo qualche merito a Calasso, è infastidito dal tono da smargiasso e soprattutto dal recupero di una cultura elitaria, di fatto antidemocratica.
Tra i letterati non gli piacciono Citati o Asor Rosa e, più in generale, chi, facendo critica, a differenza dei maestri anglosassoni (George Orwell, Edmund Wilson), si allontana dalla realtà per avventurarsi in un indistinto iperuranio. Più complessi i rapporti con Franco Fortini, per certi versi un fratello maggiore, ma la cui spigolosità non consente mai una piena confidenza. Commovente la descrizione dell’ultimo incontro, con Fortini già malato, e Bellocchio imbarazzato per l’attacco che gli aveva portato Berardinelli in Stili dell’estremismo, un saggio rimasto celebre apparso su «Diario».
Tra i ritagli pubblicati si nota una foto di papa Wojtyla accanto a Pinochet. Molto spazio è dedicato alle letture o riletture di classici, a giudizi su vecchi film visti in tv: è un modo di misurare, oltre che i propri gusti, i propri cambiamenti, ma sono spesso prove di maestria critica risolte in poche righe (Bellocchio non allunga mai il brodo del proprio sapere né si dichiara onnisciente). Molte pagine sono dedicate a Pinocchio di cui dà una lettura laica, per difenderlo dai tentativi di appropriazione del cardinal Biffi, facendo notare come sia il denaro il motore dell’azione. Ma c’è di più: “Per me, come credo per tantissimi, la lettura assolve alla stessa funzione che per tanti altri ha la preghiera. Come nei momenti di tristezza, sconforto, angoscia, tanti pregano, così altri prendono un libro e cominciano a leggere”. In questo caso mi pare che il pensiero corra alle sorelle, che abbiamo imparato a conoscere nei film del fratello Marco, ma soprattutto alla madre.
Leggere cronologicamente i Diari vuol dire imbattersi nel successo di Berlusconi, “l’omino di burro”, il riferimento è sempre Pinocchio, di cui gli è chiara fin dall’inizio l’indole di affarista sotto la patina dell’uomo politico: “il pluralismo di Berlusconi è quello naturale, fisiologico, di chi non ha nessuna cultura, nessuna tradizione, nessun valore, nessuna convinzione… salvo la difesa dei propri interessi, la paura e l’odio per la sinistra che li minaccia (sarà vero?)”.
Gli è anche chiaro che l’imprenditore divenuto uomo politico ha fatto breccia nei peggiori istinti degli italiani, sempre intenti nel coltivare il proprio particulare e grati a chi gli consente di farlo. Bellocchio è molto bravo quando smaschera il garantismo di uomini pubblici come Furio Colombo, che diventa una belva quando vengono toccati gli interessi di Israele, o di Sergio Romano, che rivendica le posizioni di Francisco Franco come scudo al pericolo comunista. Per non parlare di Walter Veltroni che, ex vicepresidente del Consiglio, scodella le sue banalità in veste di critico cinematografico del «Venerdì di Repubblica».
Splendide sono anche le note di costume: alla presentazione del Sipario rosso (1992), la memoria autobiografica di Gian Andrea Gavazzeni, rileva la preoccupazione del Maestro che la casa editrice “possa rimetterci dei soldi”, abitudini di una certa Italia che appaiono sempre più fuori tempo. Molto belli sono i ritratti di amici che non ci sono più come Grazia Cherchi di cui loda, soprattutto, la capacità di aggregare i gruppi, o di chi c’è ancora, come Goffredo Fofi, di cui apprezza la vocazione pedagogica. Oppure Elvio Fachinelli, straordinario fomentatore di inquietudini intellettuali. Di rapidi scorci, giudizi critici (Garboli che scrive fin troppo bene, sempre impegnato in una recita), di rilievi sul malcostume culturale, sono piene le pagine, ma prevale un tono disteso, uno stile di scrittura classico, senza esibizioni, ma che non si smetterebbe di leggere.
Ritorna spesso su Leopardi e Gramsci, gli autori dei diari più notevoli della nostra letteratura, ma proclama Piero Gobetti proprio maestro come intellettuale militante. Insomma, leggendo questi diari, si è in compagnia di un uomo che chi non ha conosciuto avrà il rimpianto di averlo mancato e per chi l’ha conosciuto quello di averlo cercato troppo poco. Ricordo l’ultima telefonata, in una delle varie ondate della pandemia, in cui mi ringraziava di essermi ricordato di lui. Chi è veramente grande ha un’attitudine modesta, una lezione che non dovremmo mai dimenticare.
Appunto perché Bellocchio non è uomo da lasciare testamenti vale la pena trascrivere quello che mi pare il suo lascito morale: “Ma infine, chissà, capovolgendo la formula di Bonhoeffer (vivere «come se Dio non ci fosse», eccezionalmente onesta per un credente) mi chiedo – da ateo che non ammette l’esistenza di Dio e la sua presenza nel mondo, che si nega a ogni messianesimo, provvidenzialismo –…mi chiedo se non si dovrebbe raccomandare di vivere «come se Dio ci fosse»… e se, alla fin fine, non sia stata sempre un po’ questa la mia regola”. Vorrei però concludere, nella speranza che vengano alla luce anche le agende post Duemila, con le parole che l’autore utilizza per definire ciò che abbiamo appena terminato di leggere: “Questo non è un diario né il mio Zibaldone (si licet…) – è un magazzino, un deposito, dove si raccoglie, si accatasta di tutto, senza ordine alcuno, senza criterio: appunti, spunti, materiali abbozzati, semilavorati (…) e ahimè un sacco di minutaglia, trash… come i nostri vecchi che non buttavano via nulla”.
E ancora: “Da qualche anno è diventato il lavoro che mi occupa di più, e la più parte del lavoro consiste non già nello scrivere, ma nel ritagliare, incollare, sottolineare, e inventariare-sistemare con indici cose che non serviranno mai a me né a nessuno”.
Non finisce proprio così, Bellocchio lascia uno spiraglio, seppur sfiduciato – e non è una posa – a chi vorrà prestare attenzione a questa inutile montagna di carta. E meno male!