Alfonso Berardinelli, saggista inquieto
Con qualche eccezione, le raccolte di recensioni dei grandi critici del Novecento (Pancrazi, Cecchi, Solmi, Pampaloni, Montale, Fortini), sono state pubblicate postume. L’idea di fondo era quella di offrire una prospettiva a un lavoro che la quotidianità tende ad appiattire. Alfonso Berardinelli, allievo di Giacomo Debenedetti, ormai vicino agli 80 anni, ha sentito il bisogno, o ha comunque acconsentito, di raccogliere in due grossi volumi pubblicati dal Saggiatore gli scritti sparsi soprattutto sui quotidiani («Corriere della Sera», «Il Sole 24 ore», «Il Foglio», dal 2005 la sua principale tribuna), pubblicati dal 1990 al 2022. Ad aiutarlo a mettere insieme Giornalismo culturale. Un’introduzione al millennio breve (2021) e Un secolo dentro l’altro. Dal Duemila al Novecento (2022), sono stati Marianna Comitangelo e Giacomo Pontremoli, per un complesso di oltre 2000 pagine.
A Berardinelli non sfugge l’anacronismo, per quanto nobile, della sua impresa, nel momento in cui i quotidiani sono sempre meno centrali nel formare l’opinione pubblica e la critica letteraria ha perso la sua funzione di orientare il lettore. “Oggi la critica letteraria non interessa nessuno”, scrive; eppure, forse perché non sa fare altro, continua indefesso nel suo compito. Berardinelli di rado recensisce i libri, la sua è una libera cattedra dove interviene sia come critico letterario che come intellettuale pubblico, esercitando la Kulturkritik, guarda cioè la civiltà attorno a sé e dice di cosa è fatta. È raro che intervenga sulle novità letterarie, piuttosto preferisce rileggere i classici o, col passare degli anni, in bilico tra curiosità e disincanto, occuparsi di argomenti apparentemente lontani dalla sua formazione di letterato. Tra i contemporanei gli interessano scrittori come Walter Siti, Raffaele La Capria, Cesare Garboli.
Scrivendo dei Ricordi tristi e civili (2001) di Garboli afferma: “mi sono accorto che pur vivendo in Italia faccio sempre un po’ finta, per vincere la noia, di vivere altrove o fuori”. Il critico toscano-romano gli piace perché non aderisce, come lui, a nessuna conventicola; anzi ha contributo, col suo stile così personale, imitato ma inimitabile, a distruggere scuole critiche come lo strutturalismo e la semiotica che avevano imperversato nei decenni precedenti. Più in generale Berardinelli avversa i sistemi chiusi, le teorie estetiche e definisce la letteratura “il modo migliore di dire qualcosa di interessante”. L’impegno giornalistico diventa assiduo dopo che ha lasciato, nel 1996, l’università (il suo allievo più illustre è stato Tiziano Scarpa), divenuta troppo burocratica e non più un luogo di formazione, o per dirla con parole sue: “la stessa cultura universitaria si è trasformata in una variante gergale della cultura di massa”.
Quando comincia a collaborare con «Il Foglio» è attaccato dal fuoco ‘amico’ perché collabora con un giornale che allora era considerato di destra. Respinge le accuse di tradimento, aggiungendo che non ha nulla a spartire con questa sinistra, pur continuando a votarla. Gli è chiaro che Berlusconi ha cambiato la nostra politica e nota, siamo nel 2002, come ormai sia fatta di persone e non di partiti, perché è diventata più forte la necessità di identificarsi con qualcuno, prima ancora che difendere i propri interessi. Più avanti nota come il berlusconismo sia divenuta una categoria che riguarda sia la destra che la sinistra.
Ultimogenito di famiglia operaia, ha la possibilità di studiare (al Visconti, uno dei migliori licei classici romani, dove trova buoni professori e Giulio Ferroni come compagno di classe), ma gli rimane l’istinto dell’odio antiborghese. Oggi però non vale più nemmeno quello per l’avvento di una middle class che ha fagocitato tutto. Un tema ricorrente è l’interesse verso i libri di critica letteraria che spesso recensisce e bastona, pur consapevole di praticare uno sport riservato a pochissimi. Segnala con costanza nuove raccolte poetiche, ma eccelle nel (ri)leggere classici novecenteschi, autori affini come Amelia Rosselli, Sandro Penna, Giovanni Giudici, Andrea Zanzotto o Patrizia Cavalli, che considera il miglior poeta della sua generazione.
Ammira Sereni, incontrato da giovane, che gli pubblicò il suo unico libro di poesia, ma chiosa: “A me non piaceva”. Tra le sue bestie nere Valerio Magrelli e la sua volontà di poetare, mentre si è poeti o non lo si è. Il discorso vale anche a livello internazionale, dove riconosce in Eliot il padre della poesia novecentesca, ma è Auden il suo poeta di riferimento, mentre, a sorpresa, definisce Brodskij “cupamente manierista”. Molto nelle sue corde, ne scrive più volte, è la naturalezza della Szymborska.
Un altro tema che ritorna è l’antropologia degli italiani – nel 1998 pubblicò l’antologia Autoritratto italiano – che esce dalle pagine e dai comportamenti dei nostri scrittori. Negli anni della Prima repubblica, Berardinelli come Garboli, Calvino, la Ginzburg, Giulio Einaudi ha votato PCI, fingendo che non esistessero le distorsioni del sistema sovietica. Un tartufismo che non poteva che “generare incubi, ingenuità e doppiezze” e conseguenze anche dopo la fine del ‘secolo breve’. Non si rassegna che un autore amato come Paolo Volponi abbia aderito a Rifondazione comunista. Fa notare come Garboli vada più a fondo, mettendo in luce come nel nostro Paese il passaggio da uomo di cultura a intellettuale avviene quando la cultura – sono le conseguenze del ’68 – ha dimostrato di poter cambiare il mondo e trasformare la società.
A quel punto l’intellettuale è considerato un uomo di potere e il primo nome che viene in mente è Asor Rosa che Berardinelli prende in giro in varie occasioni, in particolare soffermandosi sul Meridiano con le prefazioni di Cacciari e Corrado Bologna “esemplarmente imbarazzanti per il loro ‘culturalismo’ o citazionismo vizioso”. In Stili dell’estremismo, un saggio divenuto famoso apparso su «Diario», la rivista che Berardinelli ha composto a quattro mani con Piergiorgio Bellocchio, il nostro associa i nomi di Calasso, Fortini, Tronti e Zolla, uniti da una scrittura manierista tra l’orfico e il sapienziale. A questi sono da aggiungere, per il loro atteggiarsi, nella vita come nella scrittura, Cacciari, Severino, Eco nei casi in cui vuol fare lo spiritoso a tutti i costi, ma a cui imputa soprattutto che con lui “la cultura di massa ha conquistato e intimidito la cultura di élite”.
Pietro Citati è l’uomo dei “riassunti creativi”, mentre Claudio Magris, col il suo inappuntabile equilibrio, è definito “il volto umano di Calasso e Cacciari”. Del filosofo veneziano scrive a un certo punto: “come icona e parodia dell’intelligenza ha raggiunto la perfezione”. Tra i divetti di ultima generazione, Massimo Recalcati “è comunque sempre una cosa: è sempre in posa”. Intercetta un volume di omaggio a Enzo Bianchi di 760 pagine e con i contributi di 130 autori: “Bianchi è riuscito nell’impresa di rendersi tutti amici, una cosa che non auguro a nessuno”. Insomma, non si risparmia e non risparmia nessuno, come infinita è la battaglia condotta contro i componenti del Gruppo 63.
Questa, al di là delle idiosincrasie personali, la motivazione più profonda: “detesto le avanguardie perché sono l’invenzione di artisti che fanno branco per illudersi di aver combattuto il conformismo sociale producendo ‘antiopere’ spesso insensate, che poi però vengono anche applaudite. È il colmo dell’imbroglio”. I veri avanguardisti (Picasso, Stravinskij, Schoenberg, Palazzeschi, Buñuel) non rinunciano alla tecnica, la ripensano.
Ci si diverte a leggere Berardinelli che sfotte la seriosità di Scalfari, i giullari con un messaggio come Dario Fo e Benigni, i maître à penser in miniatura come Vito Mancuso o Umberto Galimberti, il pensiero astratto di Toni Negri, oppure “I venerati maestri di Berselli è un enorme antipasto che guasta lo stomaco senza saziarlo. Il pranzo non arriva mai”. Il critico diffida di astrazioni e sistemi filosofici misticheggianti, quindi è allarmato dal recupero di Heidegger, a cui contrappone il pensiero di Simone Weil, definita “il migliore scrittore politico del ‘900”. Pur consapevole che “il Novecento è il secolo della critica, il Duemila è quello della ‘pubblicità culturale’”, non rinuncia al suo compito e con molta semplicità scrive che il fine del critico è, dopo aver studiato, capire e condividere.
Per questo ammira Renato Solmi, Nicola Chiaromonte, Piergiorgio Bellocchio, insomma chi è stato in disparte per comprendere meglio il proprio tempo. Più complesso il rapporto con Franco Fortini, il critico a cui, per certi versi, assomiglia di più. Nel 2014, a vent’anni dalla morte, gli appare lontanissimo, perché lontana è l’idea di rivoluzione che Fortini “aspettava, esigeva”. Recupera, tra i suoi professori universitari, l’impegno civile di Guido Calogero e il suo pensiero laico. Si riconosce nell’amico Enzensberger, nella sua avversione per le idee generale, nel saggismo come forma per intervenire sul presente, nel suo illuminismo, pur conoscendo i limiti della ragione.
L’uomo in rivolta di Camus, letto a 17 anni, è stato un incontro decisivo. Per lo scrittore francese: “scrivere sui giornali era un modo di pensare in pubblico sui fatti e problemi del presente”, che è quello che Berardinelli ha fatto, con sempre maggiore frequenza, nel XXI secolo. Non sono molti gli intellettuali francesi che gli piacciono: riconosce che leggere Foucault negli anni Sessanta è stato importante per “la volontà di interrompere ogni continuità col passato e ‘rifondare’ modi di pensare e di essere”, ma poi comincia a diffidarne, così come non gli piace, con l’eccezione delle opere più autobiografiche, Roland Barthes, “chiuso nei labirinti della riflessione sul linguaggio”, e in generale la French Theory (Deleuze) e il pessimismo manierato di Cioran.
Con gli anni il compasso delle letture aumenta e così affronta la lettura del Kamasutra “per superare la noia”, dichiarandosi specialista al massimo di quello che gli accade nella vita e del proprio cervello, “ma forse neppure quello”. In realtà gli è chiaro che il genere letterario a cui appartiene è il saggismo, il più vicino al giornalismo, perché ne può utilizzare alcune caratteristiche come la velocità, la varietà e la mescolanza di temi e di toni. Nelle poche volte che ho incontrato Berardinelli, sono stato colpito, anche di recente, dalla sua perenne adolescenza: è uno che non ha perso la voglia di ‘appiccicarsi’, come dicono a Roma, scorbutico, impaziente, ma anche capace di aprirsi a gesti di grande generosità.
Di sé dice: “uomo maturo e serio professionista non lo sono mai diventato. Sono rimasto sulla soglia, a osservare quanto poco serie sono spesso le persone serie”. E aggiunge: “Non vado in vacanza”. Sa anche prendersi in giro: “Un attuale divo della scienza dell’anima, detta anche psicanalisi, cioè Massimo Recalcati, che si permette, proprio come me, di parlare di tutto”. E, in effetti, nell’ultimo decennio i suoi interventi sono più da intellettuale civile che da critico letterario. Dopo l’attentato di Parigi (2015) a «Charlie Hebdo», è contrario alla solidarietà a tutti i costi. Non si può scherzare su tutto. Contesta ad Agamben il tema della sospensione dello stato di diritto dopo gli attentati terroristici. Gli fa presente la paura dei cittadini e la necessità di una risposta da parte dello Stato. E, nello stesso anno, parlando di Putin, a proposito di Limonov, ne diffida; si accorge che fa fatica a nascondere “astuzia, volgarità, violenza” e profetizza che la Russia dovrà agire e vorrà riprendersi i territori ucraini abitati da Russi. Definisce Bergoglio “il primo intellettuale moderno che diventa papa”.
Certo, poi torna alla letteratura con notazioni come: “Calvino un perfetto scrittore minore e Pasolini un grande scrittore mancato? Da tempo mi sono affezionato a questa formula”. Lo stesso Calvino che da giovane scrittore passa direttamente alla vecchiaia, rifiutando l’età adulta, a differenza di Gadda e Montale, i grandi della generazione precedente. Si potrebbe concludere con una citazione di Montaigne: “Sentii di aver raggiunto il vero stile quando riuscii a parlare alla carta come faccio con la prima persona che incontro”.
Berardinelli ci è riuscito. Certo, riponendo sullo scaffale i due volumoni del Saggiatore, si pensa a cosa sarebbe stato un volume di 300 pagine con il meglio di trent’anni di lavoro critico. Ci penseranno i posteri.