Storia d'Italia, storie di libri
È difficile stabilire una data d’inizio per la storia dell’editoria italiana, una professione alla confluenza del lavoro del libraio e di quella di tipografo. Gli studi di storia dell’editoria italiana si possono invece simbolicamente far cominciare dal gran libro di Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione (1980), un saggio dove politica e cultura, progetti editoriali e slanci imprenditoriali, si rispecchiano nelle vicende di una città che, alla fine del secolo dei Lumi, beneficiò della scossa napoleonica, proseguita poi negli anni del dominio austriaco (basti pensare alle figure di Cattaneo e Manzoni).
Tommaso Munari in L’Italia dei libri. L’editoria in dieci storie (Einaudi, 2024) ha in comune con Berengo lo sguardo d’insieme nel tratteggiare il rapporto tra editoria e società lungo quasi due secoli di storia patria e la capacità di scovare nei dettagli, frutto di ricerche d’archivio quasi sempre inedite, il particolare che illumina l’insieme, in una storia di uomini e di libri raccontata con grande passione, uno stile accattivante e un pizzico d’ironia (Giangiacomo Feltrinelli è definito un “Lord Byron in tuta mimetica”) che rende gradevole anche per il non specialista immergersi in queste pagine.
Munari sceglie dieci case histories: Treves, Bemporad, Hoepli, Laterza, Mondadori, Einaudi, Zanichelli, Feltrinelli, Adelphi e Sellerio. Di ognuna sceglie un momento chiave, avendo poi cura di allargare lo sguardo a quel che accade intorno sia nel campo librario sia più in generale nella nostra società. In altre parole, il libro può essere letto come una storia dell’Italia unita attraverso la specola dell’editoria e il suo contributo a rendere il nostro Paese più compiutamente civile, a partire da una situazione in cui solo il 22% della popolazione era alfabetizzata e una larga maggioranza di questa utilizzava comunemente il dialetto.
Il volume prende le mosse nel 1878, quando un congresso di editori si riunisce a Milano per tutelare il diritto d’autore, una battaglia che compatta e definisce gli interessi di una categoria che, a sua volta, difende gli interessi degli autori (il caso delle edizioni pirata dei Promessi sposi era il precedente nella mente di tutti). In questo contesto emerge la figura di Emilio Treves, triestino, “ebreo in casa, editore fuori”, che si trasferisce nel 1857 a Milano, già principale centro librario dell’Italia non ancora unita, per creare la prima casa editrice a carattere moderno. Treves, che sposa gli ideali del Risorgimento e ne alimenta il mito (un affare per l’intero comparto), è l’editore della nuova letteratura che va da Verga alla Serao, da d’Annunzio a Giacosa, ma il vero colpo è Cuore (1886) di Edmondo De Amicis, un longseller che contribuisce come pochi altri libri a ‘fare gli italiani’. All’interno di una macchina editoriale complessa (libri, riviste, tipografia) cura personalmente la corrispondenza con gli autori, tratta le percentuali delle royalties, è pronto ad amplificare il successo di un libro con campagne pubblicitarie mirate. Sarà un modello implicito per due editori self made man come Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli. Le sue principali collane, la ‘Biblioteca utile’ e la ‘Biblioteca amena’, raggiungono il ceto sociale della nuova borghesia delle professioni o impiegatizia che così costruiscono la propria biblioteca, insieme a opere di collana come le storie universali offerte da Pomba o i volumi illustrati proposti da Sonzogno. Attraverso l’attività di Treves il romanzo diventa il genere di punta della nostra editoria, nonché l’unico che può rivolgersi potenzialmente a tutti, e tuttora lo rimane.
Torino e Firenze, le due capitali del Regno prima di Roma, sono in epoca postunitaria gli altri principali centri editoriali della Penisola. Il prestigio del capoluogo toscano è legato alla lingua, alla risciacquatura dei panni in Arno di manzoniana memoria, ed è sfruttato da case editrici come Bemporad, Salani, Le Monnier e, più avanti, Nerbini. A Firenze si è trasferito il romagnolo Pellegrino Artusi che per molti anni deve pubblicare a proprie spese La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), il primo ricettario a raccogliere le ricette di tutte le regioni d’Italia. Munari ricostruisce la portata rivoluzionaria di quel libro che ha in cucina lo stesso effetto unificante che hanno I promessi sposi in soggiorno. Fino ad allora non erano esistiti ricettari per la classe borghese, né che offrissero ricette provenienti da tutta la Penisola. Artusi dovette anche operare delle scelte linguistiche: tradusse con ‘passato’ il francese purée e preferì il tirrenico caciucco all’equivalente adriatico brodetto. Fatto sta che un libro così nuovo non trovò un editore e fu stampato in proprio dall’autore per ben quattordici edizioni – il fenomeno del self publishing conta un nobile passato – prima che Bemporad associasse in copertina il suo nome a quello dell’autore. Lo stesso Bemporad fu editore dell’immortale Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Collodi, dei romanzi di avventura di Salgari, del Giornalino di Gian Burrasca (1912) di Vamba, libri per l’infanzia tramandati da una generazione all’altra fino alle soglie del XXI secolo e, si spera, oltre. Tra i meriti di Bemporad ci fu quello di trovare l’illustratore più adatto per ogni occasione. Suo rivale fu Salani, editore definito da Antonio Gramsci “onesta gallina della letteratura”, un marchio più popolare di Bemporad che, attraverso alterne vicende, continua ad esistere e pubblica oggi la saga di Harry Potter.
In pieno XXI secolo non è raro trovare, grazie alla robustezza della rilegatura, al carattere di “enciclopedia universale perennemente rinnovantesi in nuove edizioni”, alla competenza degli autori, i Manuali Hoepli in molte biblioteche domestiche, professionali, in qualche bottega artigiana oppure in vecchie officine. Ulrico Hoepli (1847-1935) introdusse nel nostro vocabolario la parola ‘manuale’ esemplandola dall’inglese handbook e dal tedesco handbuch, la sua lingua madre, dato che proveniva da un paese della Svizzera interna. Giunto a Milano nel 1870, rileva una libreria nel cuore di una città che aspira a diventare moderna (negli stessi anni si costruisce la Galleria Vittorio Emanuele). Hoepli le offre gli strumenti per compiere un balzo in avanti, a partire dal celeberrimo Manuale dell’Ingegnere (1878) di Giuseppe Colombo, colonna portante del Politecnico di Milano e ideologo della nostra rivoluzione industriale. Per spiegare il metodo di lavoro hoepliano Munari sceglie un esempio poco noto ma illuminante come il Manuale del gelataio ((1913) di Giuseppe Ciocca. L’autore è il titolare di una ben avviata industria dolciaria ed è un attivo promotore, attraverso riviste di settore, del suo comparto. Il gelato è entrato, grazie alle nuove possibilità offerte dallo sviluppo delle tecniche di refrigerio, nelle abitudini della borghesia. Da qui l’offerta dell’editore all’autore di scrivere un volume per creare una cassa di risonanza attorno alla propria attività. Hoepli, anche attraverso l’attività della libreria, è un attento sismografo dei cambiamenti sociali in atto e offre a una nuova falange di lettori (commercianti, artigiani, operai specializzati, piccoli imprenditori) i libri di cui hanno bisogno. Da qui l’enorme successo dei Manuali Hoepli all’interno di una attività editoriale che passa anche attraverso bestseller come La metà del mondo vista da un’automobile. Da Pechino a Parigi in 60 giorni di Luigi Barzini (1908) o la monumentale Storia dell’arte italiana (1901-1940) di Adolfo Venturi, la prima a fare un uso sistematico della fotografia. Il complesso dei Manuali respira un’aria positivista, ispirata dall’esempio di Self-Help (1859) di Samuel Smiles, un elogio del potere della volontà attraverso le biografie di uomini che si fecero da sé, un libro che in traduzione italiana, Chi si aiuta Dio l’aiuta (1865), Camillo Olivetti mise nelle mani del figlio Adriano (che, per fortuna, lo lesse criticamente). Quell’ideologia, così come i Manuali Hoepli, fiorì fino alle soglie della Prima guerra mondiale e proseguì con meno slancio tra le due guerre. Libri che furono decisivi per almeno tre generazioni di lettori come testimonia la loro presenza nella biblioteca di Carlo Emilio Gadda o la lettura dell’hoepliano Ricettario industriale di Italo Ghersi da parte dell’aspirante piccolo chimico Primo Levi. Munari ricorda poi come Hoepli sia stato scelto da Benito Mussolini come editore dei suoi scritti, rammentando al tempo stesso come negli stessi anni case editrici come Einaudi e Bompiani avessero pubblicato una serie di volumi molto allineati col regime.
Napoli, pur avendo contato su una serie di buoni editori locali (Ricciardi, E.S.I., Guida), non ha mai avuto una casa editrice a carattere nazionale. La Sicilia fino alla nascita di Sellerio ha contato su importanti marchi scolastici come Principato o Sandron, ma il Meridione ha faticato (e fatica) a trovare case editrici che lo abbiano rappresentato. I motivi sono molteplici ma le difficoltà logistiche – valgono ancora oggi – sono forse le prime da menzionare. Unica gloriosa eccezione è stata ed è la Laterza di Bari, nata come libreria e divenuta, dal 1901, anche casa editrice. Celebre è la lettera dell’anno successivo di Benedetto Croce a Giovanni Laterza in cui lo invita a farsi editore di “roba grave”, cioè storia, filosofia, analisi politica. Il sodalizio tra Croce e Laterza proseguì, nel rispetto dei rispettivi ruoli, per quasi mezzo secolo, e fu un fattore di modernizzazione della cultura italiana con collane come gli ‘Scrittori d’Italia’, che estese il canone dei nostri classici al di fuori dalla letteratura tra i rimbrotti dell’umanista Renato Serra, o la ‘Biblioteca di cultura filosofica’ che mise ordine nelle edizioni dei grandi autori del pensiero filosofico occidentale e così via. Il carteggio tra Laterza e Croce dimostra la visione imprenditoriale del primo, che aveva molto chiaro quali fossero i libri adatti a entrare nel suo catalogo e quelli no, e l’apertura mentale di Croce che, se attraverso Laterza dominò la cultura italiana (va ricordata anche «La critica»), fu un sovrano illuminato, pronto a cogliere suggestioni anche molto lontane dal suo pensiero. Il meridionalismo, che era tra gli intenti della neonata editrice, fu ripreso solo negli anni Cinquanta da Vito Laterza, in special modo con la collana «Libri del tempo» con autori come Scotellaro, Sciascia, Dolci e Rossi Doria. La Laterza, auspice Croce, fu l’editore del primo libro di Ernesto De Martino che, dopo la guerra, pubblicò con Einaudi, Feltrinelli e Il Saggiatore, un’infedeltà che è una traccia di uno dei momenti di maggiore fermento della nostra saggistica, quando l’ansia di nuovo fornì un potente stimolo al lavoro editoriale.
Non esiste purtroppo una storia dell’edicola, punto vendita fondamentale per Mondadori di collane come i «Gialli» (1929) o «Urania» (1952) per la fantascienza. Sono entrambi generi di importazione, la maggior parte dei volumi è stato tradotto dall’inglese. Munari mette in luce come negli anni del fascismo spesso le traduzioni venissero adattate per ragioni di censura, ma come la pratica proseguì anche nel dopoguerra. Nel caso di un grande scrittore come Raymond Chandler ci volle l’intervento di Eric Linder, l’agente letterario che lo rappresentava in Italia, per ottenere traduzioni che rispettassero le qualità letterarie dell’autore. Mondadori è stato un editore che ha lasciato molta autonomia decisionale ai direttori di collana come Alberto Tedeschi per i «Gialli», o Fruttero e Lucentini per «Urania», ma anche ai consulenti per le letterature straniere come Lavinia Mazzucchetti a cui Anna Antonello ha da poco dedicato un’accurata biografia (Una germanista scapigliata. Vita e traduzioni di Lavinia Mazzucchetti, Quodlibet, 2023).
L’edicola era anche uno strumento per avvicinare nuovi lettori, considerando che fino almeno agli anni Sessanta la maggior parte delle librerie erano simili alle attuali farmacie, con un banco che si frapponeva tra l’acquirente e il libro, mentre le novità erano esposte in vetrina.
Negli anni Trenta nacquero i nostri primi due editori moderni: Bompiani (1930) ed Einaudi (1933). A quest’ultimo Munari ha già dedicato molte fatiche e sarebbe bello se un suo prossimo libro raccontasse la figura del fondatore: Giulio Einaudi (1912-1999), uno dei massimi editori europei del Novecento di cui ancora manca una biografia. A Roma lo avrebbero definito “un impunito”, Francesco Ciafaloni, che ci ha lavorato insieme, ha utilizzato il termine sansouci, uno spensierato, per sottolinearne l’imperturbabilità anche nelle situazioni più complicate. Nel libro si ricorda la qualità del lavoro di un gruppo nato con Leone Ginzburg, di fatto il cofondatore, e Cesare Pavese: insieme definirono le caratteristiche di libri che subito, o quasi, spiccarono per l’accuratezza redazionale nella preparazione dei testi e per la qualità delle traduzioni. L’Einaudi accusata nel dopoguerra di ‘egemonia culturale’ si definisce come casa editrice tra gli anni Trenta e la morte di Pavese (1950), pubblicando libri decisivi per la generazione cresciuta nel fascismo e divenuta adulta negli anni di guerra come Le occasioni (1939) di Eugenio Montale, l’Antologia di Spoon River (1943) di Edgar Lee Masters nella traduzione di Fernanda Pivano, e Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi, quest’ultimo uscito nella collana dei «Saggi», vera spina dorsale della casa editrice, dove più tardi furono pubblicati Se questo è un uomo (1958) di Primo Levi e Le piccole virtù (1962) di Natalia Ginzburg. La ‘collanologia’ è stata la ‘religione’ einaudiana per eccellenza e Roberto Cerati, lo storico direttore commerciale, il suo massimo profeta. La pattuglia di lettori degli anni Trenta-Quaranta divenne legione nei Sessanta-Settanta sia per le trasformazioni della società ma anche grazie all’infaticabile lavoro svolto da Cerati e dalla sua rete di agenti nelle librerie di tutta Italia al servizio del trust di cervelli radunati da Giulio Einaudi.
L’introduzione della scuola media unica, nel 1962, ebbe effetti di lungo periodo su tutta la società. Il ’68 e gli anni Settanta hanno in parte quella origine. L’editoria scolastica obbedisce a regole del tutto diverse da quella della libreria. Nasce dai programmi ministeriali, dal rapporto della rete agenti con gli insegnanti per favorire le adozioni e ha, forse ancora oggi, una struttura ‘feudale’, con editori che, spesso con singoli testi, occupano determinate fette di mercato per lustri e lustri. L’antologia di letteratura italiana fu il campo di battaglia in cui si affrontarono editori vecchi e nuovi negli anni Sessanta. La più innovativa, almeno nelle intenzioni, fu progettata da Italo Calvino (con la collaborazione di Giambattista Salinari) per Zanichelli, casa editrice che aveva sia una tradizione letteraria (Carducci e Pascoli furono i suoi autori di spicco), sia scientifica, per l’influenza di Federigo Enriques, illustre matematico dei primi del Novecento e consulente editoriale di grande rilievo. A rinnovare lo slancio della casa editrice bolognese ci pensò il figlio Giovanni, a lungo in Olivetti, insieme a un intellettuale fuori dagli schemi come Delfino Insolera, che invitò Italo Calvino a pensare a un’antologia, «La Lettura», il nome è programmatico, che insegnasse come leggere più che cosa leggere. Calvino non fu il primo scrittore a dedicarsi all’esercizio – pochi anni prima si era cimentata Natalia Ginzburg – ma l’operazione si rilevò molto più difficile del previsto: come annotare? cosa annotare? Un delirio annotatorio prese la redazione, ma come spiegare e cosa spiegare è un problema che si rinnova sempre quando si vuole mettere in discussione la trasmissione del sapere.
L’attuale assetto del mondo librario (librerie di catena, diffusione delle collane di tascabili, l’allargamento del bacino dei lettori ‘forti’) ha le radici negli anni Settanta, il decennio più politico del nostro Novecento. Vari editori cercarono di cavalcare quell’epoca. I più tradizionali come Einaudi o Laterza attraverso nuove collane di intervento politico, altri come De Donato, Savelli, Guaraldi, alcuni di più lunga durata, altri più effimeri, si affacciarono in quel momento. La più connotata nell’interpretare lo spirito del ’68 fu la Feltrinelli, fondata da Giangiacomo nel 1955, reduce da bestseller internazionali come Il dottor Zivago (1957) e Il gattopardo (1958), cassa di risonanza del Gruppo 63, e a quel punto pronta ad assecondare gli interessi di una nuova generazione. Munari traccia un ritratto in chiaroscuro della figura di Giangiacomo Feltrinelli, miliardario sinceramente appassionato di editoria, pieno di idee nuove, che si smarrisce per strada in nome della rivoluzione. Nei suoi proclami rivoluzionari non menziona tuttavia – nota l’autore – il libro come strumento di trasformazione della società. Dopo la sua morte, un bravo direttore editoriale, Giampiero Brega, fa quadrato per difendere l’esistenza della casa editrice. Inge Feltrinelli ne diventerà la testimonial prima di lasciare le redini al figlio Carlo. Personaggi eccentrici o fuori misura come Livio Garzanti o lo stesso Feltrinelli furono oggetto di satira di scrittori alle loro dipendenze come Goffredo Parise o Luciano Biancardi, a disagio nei modi e nei tempi dell’industria culturale allora agli albori.
Se gli anni Settanta furono il decennio della politica, quello successivo fu quello del riflusso e Adelphi fu la casa editrice che incarnò meglio di tutti lo spirito del tempo. Il libro simbolo degli Ottanta, insieme a Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco, valentissimo editor in Bompiani, fu L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, tradotto da Adelphi nel 1985, che è, tra le altre cose, un’esaltazione della sfera intima. La casa editrice venne fondata nel 1962, grazie al finanziamento di Roberto Olivetti, da Luciano Foà, una delle figure più interessanti dell’editoria italiana del Novecento. Figlio del fondatore dell’ALI, l’Agenzia Letteraria Italiana, a fianco di Adriano Olivetti nelle sue imprese editoriali, fu per un decennio direttore editoriale dell’Einaudi prima di mettersi in proprio. Decisiva fu la sua confidenza con Bobi Bazlen, triestino, consulente editoriale, a cui sono stati dedicati vari volumi che non ne hanno finora colto fino in fondo la natura mercuriale. Sono due gli assi portanti della casa editrice: il varo dell’opera completa degli scritti di Friedrich Nietzsche, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, una prima mondiale in anni di bassa fortuna per il filosofo tedesco, e la «Biblioteca Adelphi», la collana principale, con una grafica immediatamente classica ispirata da Aubrey Beardsley, in cui risalta l’idea bazleniana della ‘primavoltità’, le caratteristiche di originalità di ogni singolo volume. Munari ha rintracciato negli archivi della Fondazione Mondadori un’agendina del 1962 di Foà attraverso la quale ricostruisce i primi passi della casa editrice, compreso l’incontro con un giovanissimo Roberto Calasso che ne diventerà l’amministratore delle fortune e l’eccezionale perpetuatore dell’aura sparsa da Foà e Bazlen attorno ai libri Adelphi, sulle cui vicende oggi si sa un po’ di più grazie al libro di Anna Ferrando, Adelphi: le origini di una casa editrice: 1938-1994 (Carocci, 2023). La storia di Adelphi è, per certi versi, un rovescio ideologico di quella di Einaudi: Michele Ranchetti, un intellettuale atipico che collaborò con Feltrinelli, Boringhieri, oltre che con la stessa Adelphi, la abbandonò accusandola di “cultura della decadenza”.
Un po’ a sorpresa, ma il libro è ricco di piccoli colpi di scena, di messa in discussione di alcuni luoghi comuni, l’autore sceglie di terminare il volume con le vicende della Sellerio, casa editrice fondata nel 1969 da Enzo ed Elvira Sellerio, portata avanti soprattutto da quest’ultima con la collaborazione, molto partecipe, di Leonardo Sciascia, la cui passione per i polizieschi contribuì a far uscire dal ghetto il genere ‘giallo’. Il trionfo editoriale di Andrea Camilleri, il miglior allievo di Simenon, ha contribuito a rendere la casa editrice una delle più riconoscibili nell’attuale panorama editoriale italiano, avendo appreso da Adelphi la lezione di conservare un carattere ‘artigianale’, nella confezione dei suoi libri.
Munari rinuncia giustamente a trarre delle conclusioni, ma nel presentare a fine febbraio il libro a Testo, la manifestazione libraria fiorentina, si è detto preoccupato della difficoltà di scrivere libri come questo con la fine degli archivi cartacei. Con L’Italia dei libri ha indicato però un metodo di lavoro che chi frequenta gli archivi editoriali sarà bene tenga a mente.