Vita quotidiana degli antifascisti
La progressiva scomparsa degli ultimi testimoni delle leggi razziali, di chi ha combattuto nella Seconda guerra mondiale e nella successiva guerra civile, ha messo gli storici davanti al problema di come tramandare quell’epoca i cui traumi si riverberano, è cronaca di tutti i giorni, sul presente. Quel torno di anni tra il 1919 e il 1945 ha modellato tutto quello che è venuto dopo: l’opzione repubblicana, il voto alle donne, la Costituzione, quel sistema di regole in cui ancora viviamo ma spesso senza sapere più perché. Oggi, a quasi ottant’anni dal 25 aprile, guardandoci allo specchio non scorgiamo più “un volto che ci somiglia”, per riprendere il titolo di un libro di Carlo Levi. Memoranda (Einaudi), ovvero cose da ricordare, è il titolo scelto da Antonella Tarpino per il suo nuovo libro, mentre il sottotitolo – Gli antifascisti raccontati dal loro quotidiano – dà conto solo in parte dell’approccio originale, innovativo scelto dall’autrice. Secondo il metodo dei suoi precedenti lavori, a partire da Geografie della memoria: case, rovine, oggetti quotidiani (Einaudi, 2008), e in particolare in Memoria imperfetta, l’autrice affianca a una rigorosa ricerca storica una dimensione autobiografica che la porta a percorrere il suo Piemonte interrogando luoghi, oggetti, fotografie, scritte, disegni, insomma i nuclei di memoria che costituiscono il fondamento della nostra religione civile che, come ogni religione, necessita di simboli. La miglior definizione di questa storiografia di stampo autobiografico, i cui margini non sono strettamente definiti, è quella che utilizza la Tarpino: “racconti di memoria”.
Il viaggio comincia da Paraloup, il borgo in Val Stura, dove la Fondazione Nuto Revelli ricorda in modo attivo l’esperienza di vita della brigata partigiana di Nuto e dei suoi compagni. Il progetto, una memoria fatta di pietre prima di tutto, nato per volontà di Marco Revelli e Antonella Tarpino, ha quasi dieci anni di vita. Resta un modello sperimentale, purtroppo non ancora imitato, di declinare in diversi modi la parola ‘resistenza’. Nuto Revelli è stato forse il maggior rappresentate dell’oral history nel nostro Paese: i suoi libri hanno raccontato la campagna di Russia e le sue conseguenze, oppure fenomeni epocali come il cambiamento del ruolo delle donne, la fine della vita contadina, l’abbandono della montagna. Le valli Cuneesi costituirono il perimetro delle sue ricerche, ma il metodo e la qualità dei suoi lavori li hanno resi universali (un po’ come accadde ai film del neorealismo). Elesse a suoi compagni ideali Mario Rigoni Stern e Primo Levi, scrittori anche loro nati dallo choc dell’esperienza di guerra; nello studio della sua casa di Cuneo c’è una pietra con una dedica che recita: “Ho due fratelli con molta vita alle spalle / nati all’ombra delle montagne. / Hanno imparato l’indignazione/ nella neve di un Paese lontano / e hanno scritto libri non inutili. / Come me hanno tollerato la vista / di Medusa, che non li ha impietriti. / Non si sono lasciati impietrire /dalla lenta nevicata dei giorni”. La densità simbolica qui è forse fin troppo elevata ma ricordare Nuto Revelli, il testimone per eccellenza del riscatto di una generazione dopo vent’anni di dittatura, è in sé un atto etico, un legame con chi non c’è più, un filo che non si spezza.
Tra le sue carte c’è un’agenda del periodo partigiano: Memorie di un pazzo partigiano da Paraloup a Palanfré a Parigi, così l’ha intitolata, in cui è notevole sia la necessità di voler annotare tutto quel che accadde in quel periodo, sia di considerarlo un momento eccezionale di una vita che si intuiva sarebbe stata poi diversa. Tra le fotografie presenti nello studio non mancano le immagini di morti violente della guerra civile, ma l’autrice è attratta da un ritratto di Ferruccio Parri, colui che, dopo essere stato il capo della Resistenza e del primo governo ciellenistico, si ritirò in buon ordine a vita privata, restando il custode di quei valori che nel Dopoguerra fecero molta fatica a essere riconosciuti.
Ricordare la Resistenza è quasi sempre stato difficile: troppi erano interessati a stendere un patto del silenzio. Sintomatica, ad esempio, è la lettura di In quei tempi di fervore e di gloria (Bollati Boringhieri, 2022) la biografia che Gaetano Boni ha dedicato a Livio Azzariti, magistrato che da capo del Tribunale della razza arrivò a essere, negli anni della Repubblica, presidente della Corte costituzionale.
Torino: via Fabro, 6, è l’indirizzo della casa di Piero e Ada Gobetti, oggi sede del Centro studi che li ricorda. La breve, prodigiosa, vita di Piero Gobetti (1901-1926) ha lasciato tracce indelebili in chi lo ha frequentato.
Eugenio Montale lo definì “uguale a noi, migliore di noi”. La scrivania al centro dello studio è il ‘baricentro’ della casa, il luogo da dove partivano ogni giorno decine di lettere ai collaboratori delle sue iniziative culturali, che divennero via via sempre più politiche, sparse in tutta Italia. È davvero, come il coetaneo Adriano Olivetti (i due si conobbero), il prototipo di un uomo nuovo, l’intellettuale militante che, aggiornando la lezione di Salvemini, fa cultura attraverso le sue riviste e la casa editrice. Per lui, come scrive alla moglie, si tratta di un’“intensa attività spirituale” e così è stata tramandata fino a noi attraverso l’esempio di Ada, del figlio Paolo e dalla moglie Carla, che compresero come una vita in potenza, espressa solo in una piccola parte, dovesse farsi testimonianza, proseguire nei posteri. Gli ambienti raccolti della casa, il ritratto che gli fece Casorati alle pareti, l’ex libris, sempre di Casorati che recita “Che ho a che fare io con gli schiavi?”, l’epistolario con la moglie, testimoniano la sua scelta di morire da martire.
Il primo a raccoglierne il testimone fu Leone Ginzburg, il componente forse più eccezionale della ‘banda Monti’, il gruppo di studenti che prese il nome dal loro maestro, Augusto Monti che insegnava nella sezione B del Liceo D’Azeglio e contava tra i suoi allievi Vittorio Foa, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Massimo Mila e Giancarlo Pajetta, vero enfant terrible dell’antifascismo, mentre Ginzburg era in realtà nella sezione A assieme a Norberto Bobbio, Giorgio Agosti e Alberto Levi, fratello di Natalia, la futura moglie di Leone. I compagni di scuola, che abitavano tutti nello stesso quartiere, si trovavano anche al Caffè Rattazzi dove Monti leggeva dei passi di I Sansôssi, il romanzo storico che andava scrivendo. Quel gruppo venne sciolto da una retata di polizia che portò molti di loro nelle patrie galere o al confino, non prima che Giulio Einaudi (che al liceo era noto per i rossori e l’invincibile timidezza) e Leone Ginzburg fondassero nel 1933 la casa editrice che si riuniva attorno al tavolo ovale ancora oggi conservato in casa editrice, la “tavola rotonda” sede di infiniti incontri, scontri, nei famosi ‘mercoledì’ della casa editrice. “Einaudiano” divenne un aggettivo per definire una classe intellettuale intransigente nel suo antifascismo che, dopo la guerra, contando tra i suoi morti Leone Ginzburg e Giaime Pintor, aveva le carte in regola per offrire una cultura nuova alla nostra classe intellettuale e per accogliere nel suo catalogo gli scritti di Gramsci.
L’esplorazione di Torino, città divisa gerarchicamente tra centro e periferia, prosegue per i luoghi di un’antifascista un tempo celebre come Barbara Allason, che riceveva nel suo salotto torinese, e poi, con più prudenza nella “vigna” (casa con vigneto) di Pecetto, sulla collina torinese, dove salvò documenti compromettenti. La collina aggiunge una dimensione alla pianta ortogonale della città sabauda, come risulta anche dalla lettura del bellissimo La traversata notturna (2022) di Andrea Canobbio, a lungo collega della Tarpino nella redazione dell’Einaudi. “Einaudiano” per eccellenza, anzi “senatore”, per usare il gergo della casa editrice, fu Norberto Bobbio che l’autrice frequentò professionalmente nei suoi ultimi anni di vita. Tornando nel suo studio è colpita da un disegno di Guttuso dove un giovane Bobbio, dall’inconfondibile profilo grifagno, è raffigurato assieme ad Aldo Capitini, Cesare Luporini, Guido Calogero, nella casa di Umberto Morra di Lavriano a Cortona. Un altro tavolo, un altro pezzo di eredità gobettiana.
Gli ‘azeglini’, pur con opinioni diverse tra loro, formavano un clan di soli uomini. Le donne entrarono nel gruppo come fidanzate e poi mogli, ma la loro ora venne negli anni della guerra civile. Alcune furono al fianco dei loro compagni come staffette ma, osserva l’autrice, il termine è riduttivo perché sembra escludere i pericoli che corsero per consegnare materiali spesso compromettenti, rifornimenti, viveri. Il mezzo simbolo della loro azione, ma più in generale della Resistenza, fu la bicicletta. Una foto le raffigura camminare per le strade della Torino liberata con in mano una bandiera tricolore e al fianco la propria bicicletta.
L’ultima parte del libro è dedicata a un’altra parte del Piemonte, il Cuneese. Una cittadina come Borgo San Dalmazzo, all’imbocco della Valle Stura, dalla cui stazione furono deportati ad Auschwitz centinaia di ebrei. Qui sorge il Museo Memo4345, museo che ricostruisce le vicende della Deportazione. È straniante osservare oggetti di uso quotidiano – bauli, valigie, fagotti – che diventano sculture. Su un binario della stazione c’è una fila di carri bestiame molto simili a quelli in cui viaggiarono centinaia di ebrei. Sono iscritti i nomi dei deportati, la loro età e la loro nazionalità. La Tarpino ripercorre le vicende di alcuni di loro per dare una storia a quei nomi. Non lontano da Borgo San Dalmazzo c’è Boves, sede della prima strage nazista in Italia dopo l’8 settembre. Qui furono date alle fiamme 350 case e uccisi una ventina di civili. La strage di Boves ebbe lunghi strascichi giudiziari nel dopoguerra, con i tedeschi che reclamarono la propria innocenza, dichiarando di aver obbedito solo agli ordini. Il presidente Mattarella, in visita quest’anno a Boves, chissà se ha soffermato il suo sguardo sui dipinti di Adriana Filippi, custoditi al Museo della Resistenza. Tarpino definisce la Filippi war artist; infatti le sue opere sono cronache dei brutali fatti bellici ma anche scene di vita quotidiana di quei mesi. La sospensione del tempo richiama alla memoria Oradour, ma Boves, comprensibilmente, non ha scelto di farsi schiacciare sotto il peso della memoria, ma pur senza dimenticare, ha ricominciato a vivere.
Per concludere l’autrice torna a leggere Primavera di bellezza (1959) di Beppe Fenoglio, un libro che racconta quel tempo compreso tra un mondo vecchio che scompare e un mondo nuovo di cui non sono ancora definiti i confini. C’è un momento simbolico, quando Johnny, sbarazzatosi della divisa riesce a procurarsi “la roba borghese”. Vestirsi da civile è il primo atto per costruire una nuova civiltà. Il mondo nuovo comincia da lì.