Terzaghi, Fosforo e altri fiammiferi

25 Luglio 2024

“Non scherzate col fuoco!” era un divieto tra i più solenni e minacciosi della nostra infanzia. Naturalmente la trascorremmo sfregando inutilmente pietre, rubando quindi accendini (era un tempo in cui tutti gli adulti fumavano), dando fuoco a insetti e lucertole in esperimenti dove la curiosità si mescolava alla crudeltà tipica dei bambini. Chiedo scusa, naturalmente, ma forse mi accorgo di trovare un complice leggendo Il manuale del fosforo e dei fiammiferi (Quodlibet) dello scrittore ticinese Matteo Terzaghi, classe 1970, qui alla terza prova narrativa, dopo Ufficio proiezioni luminose (2013) e La Terra e il suo satellite (2019: qui la recensione).

È un libro, nello stile dell’autore, a metà tra narrativa e saggistica, in cui non è difficile costruire una costellazione di riferimenti, o quantomeno di letture: Robert Walser presente in filigrana, ma anche Queneau, Perec, il signor Palomar (o forse addirittura il signor Veneranda di Carletto Manzoni che Calvino leggeva da ragazzo sulle pagine del «Bertoldo»), per citare i più evidenti. Letture assorbite con naturalezza da Terzaghi che è uno scrittore con uno stile proprio: abilissimo nell’arte difficile della descrizione, con un umorismo impassibile (il riferimento è Buster Keaton ma anche le comiche del cinema muto che un tempo passavano al pomeriggio in tv) e la capacità di riflettere sui casi, grandi e piccoli, che la vita ci mette davanti.

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Rispetto ai suoi libri precedenti, l’autore semina qualche indizio in più su di sé. Lo fa quasi al principio del libro, quando parla del Manuale Hoepli (ça va sans dire) L’industria dei fiammiferi e del fosforo dell’ingegnere C.A. Abetti, domandandosi retoricamente perché i suoi scritti sono cosparsi di riferimenti all’infanzia: “Non chiedetemi perché torno sempre lì”, ma poi ce lo spiega: “Una piccola teoria. Nei primi dieci, massimo quindici anni di vita, ossia in quel periodo che appunto chiamiamo infanzia, raccogliamo e accumuliamo una gran quantità di domande. Sono come fiammiferi che si aggiungono ad altri fiammiferi e scatole di fiammiferi che si aggiungono ad altre scatole di fiammiferi. Ogni nuovo incontro, ogni nuova parola, ogni nuova sfumatura delle emozioni e dei sentimenti, ogni premonizione, ogni nuovo scherzo della percezione o della memoria schiude nuovi scenari e porta con sé un certo numero di interrogativi. Più avanti nella vita la maggior parte di questi interrogativi si dissolverà, verrà abbandonata o dimenticata, mentre un’altra parte incrocerà forse un qualche tipo di risposta”. È quasi una dichiarazione di poetica che a me però ha fatto tornare in mente la trasmissione della televisione della Svizzera italiana in cui si mostrava l’estrazione del Lotto. Avveniva, o forse avviene ancora, il sabato pomeriggio e da una grande circonferenza sferica venivano selezionate cinque palline, più il cosiddetto “numero complementare”, che, attraverso lunghe gallerie, tunnel (siamo in Svizzera), venivano depositate nelle apposite caselle. Gli interrogavi in sospeso di Terzaghi sono molti di più delle cinque palline più una del Lotto svizzero, ma c’è il sospetto che abbia, per certi versi, prolungato l’infanzia oltre l’età canonica. O forse, come confessa il figlio Nicola: “la mamma ci fa capire che purtroppo con gli anni il papà fa sempre più fatica a rimanere ancorato al pianeta Terra e dobbiamo farcene una ragione, senza dare troppo peso ai suoi deliri”. Come prova – sta perorando l’ingresso di un border collie in famiglia – Nicola aggiunge: “Una volta il papà ha detto che a casa nostra, non si sa perché, le scarpe vanno a spasso da sole e si rischia sempre di inciampare, prima o poi qualcuno si fa male”.

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Matteo Terzaghi.

Non ho ancora detto che il libro, breve e denso come è caratteristica dell’autore, è diviso in tre parti: Manuali, enciclopedie e favole, Piccolo libro di lettura a uso di chi passa, Altra infanzia. La seconda parte consiste in una serie di microracconti o brevi apologhi con alcuni personaggi-funzione che ritornano: memorabile, per il nome innanzitutto, il signor Abicì.

In realtà è un volume costruito per intrecci, epifanie dell’infanzia, ma anche personaggi eccentrici, famigliari o sconosciuti, in cui si imbatte l’attitudine dell’autore, di formazione filosofo, di alimentare ulteriori domande più che di cercare risposte. Mancano, rispetto ai precedenti volumi, le fotografie (con una singola eccezione). Pochissimi anche i disegni. È come se i meccanismi di attivazione della memoria o della fantasia siano diventati ora per Terzaghi più liberi.

Mentre leggevo il libro, avevo l’impressione inequivocabile che fosse profondamente svizzero e mi venivano in mente i nomi dei due grandi scrittori elvetici del XX secolo: Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch (in cui a un certo punto ci imbattiamo), implacabili fustigatori dei costumi della Confederazione. Quel sistema di regole così ossessivo che porta all’asfissia o alla delazione; l’eccentricità, diciamo pure il rametto di follia, accolta come manifestazione spontanea della vita quotidiana (e potrebbe anche essere un bene), ma senza poi veri sforzi di comprensione del prossimo; la natura ridotta all’imitazione del plastico ferroviario, o, se urbana, proporzionata alle dimensioni di un minigolf. In Terzaghi tutto ciò è sotteso, non dichiarato, ma in qualche modo c’è. Non ha la tempra del moralista, piuttosto è un uomo profondamente morale, e neppure gli interessa intonare catilinarie per raddrizzare i connazionali, anzi cerca di cavare il buono dal suo paese: gli interstizi di libertà, qualche tradizione da onorare, un clan famigliare affettuoso. La sua freccia non è mai scoccata frontalmente (i paragoni storici sarebbero ardui da sostenere): quando Borges capita, ormai anziano, a Lugano, è onorato e intervistato dalla Televisione Svizzera, ma non gli si riesce a far dichiarare nulla di positivo sull’amena cittadina lacustre. Distrazione di un vecchio semicieco ormai insensibile alla bellezza dei luoghi? In realtà Borges era stato da giovane (nel 1918) a Lugano, ne aveva apprezzato la bellezza ma “I luganesi mi stanno antipatici. Sono puri italiani, sgarbati, chiassosi, compagnoni. Sentendoli mi sembra di essere nel mio paese”.

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Tutte caratteristiche antitetiche a Matteo Terzaghi che, anzi, ha il pudore dei sentimenti e comincia il libro con un funerale che è un omaggio sghembo a chi non c’è più e celebra il requiem di una tipografia, smontata e trasferita in Thailandia, dove al piano superiore c’era la casa editrice dove lavora da molti anni, e conclude: “anche noi dovevamo prepararci ad abbandonare la nostra vita sedentaria e andarcene per il mondo come gli artisti del circo”.

Non mi pare ancora arrivato quel momento. 

Il libro, dopo averci girato intorno al tema del fuoco, naturalmente citando il celebre racconto Accendere un fuoco di Jack London, si conclude con un breve testo dal titolo Accendere un lumino. Si tratta di un lumino da chiesa. Una speranza laica a cui non possiamo che associarci.

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