L'inconscio degli artisti nell'era dell'IA

6 Marzo 2025

Una ricerca sull'inconscio visto dagli artisti oggi potrebbe sembrare un'idea troppo vaga e scontata, magari con una strizzatina d'occhio al centenario del surrealismo. Dopo oltre un secolo, molte idee di Freud, Jung e della psicoanalisi in genere si sono sedimentate nella nostra cultura e sono diventate letteralmente luoghi comuni; tra queste, l'idea che l'inconscio sia (anche) la brace nascosta del processo creativo, il suo indicibile deuteragonista che ha finito per prendere il posto dell'antico soffio divino nascosto nella parola “ispirazione”.

Forse è per questa sua implicita ovvietà che il tema dell'inconscio tende negli ultimi tempi a rimanere fuori della scena dell'arte, con l'eccezione dell'importante e anomala Biennale del 2013 in cui Massimiliano Gioni scelse Jung e Breton come numi titolari. Sta di fatto che, dopo aver invaso il mondo giusto un secolo fa grazie al movimento surrealista e aver suscitato una vasta e spesso ostica discussione teorica soprattutto nel pensiero francese, del rapporto tra inconscio e arte oggi pare si parli molto poco al di fuori della cerchia di psicanalisti che fanno di arte e artisti terreni di applicazione delle loro teorie. Ma se invece questo silenzio fosse sintomo di qualcosa che merita di essere indagato?

È ciò che si è chiesto Elio Grazioli, critico e curatore che ha sempre intrattenuto uno stretto rapporto con gli artisti. E per indagare su questa ipotesi si è rivolto a loro e li ha riuniti in un originale progetto che comprende un libro e una mostra collettiva ospitata fino al prossimo 8 marzo alla Fondazione Galleria Milano. A tutti ha chiesto di rispondere, a modo loro, a una domanda che potrebbe sembrare allo stesso tempo molto ingenua e molto impegnativa: «che conti fai con l'inconscio» nel tuo lavoro?

Foto di Matteo Pasin.

Quattordici artisti hanno risposto non solo selezionando varie opere visive, ma anche, su richiesta esplicita del curatore, scrivendo dei testi. Alcune delle opere sono esposte nella mostra, le altre sono raccolte assieme ai testi nel libro, con l'introduzione e il commento finale del curatore, e un denso intervento di Andrea Panattoni, filosofo che riflette da tempo sulle interazioni tra filosofia, psicanalisi e arte.

Il progetto sembra voler invertire il rapporto tradizionale tra mostra e catalogo: in questo caso è dal libro che nasce l'esposizione, che diventa così una specie di estroflessione tridimensionale di una meta-opera collettiva fatta di immagini e testi nella forma-libro. Partiamo allora dal libro e dal titolo. La copertina è tutta bianca; a metà del piatto anteriore c'è solo la scritta “senza titolo”; girando il libro, nella stessa posizione, su piatto posteriore c'è la scritta “(inconscio)”. Nero su bianco, senza maiuscole, apparentemente anodino, questo titolo bifronte sembra esprimere, con un'essenzialità che ricorda un po' le formule lacaniane, la natura paradossale del suo oggetto e forse anche del progetto. Grazioli lo spiega semplicemente così: «in qualche modo l’inconscio ha a che fare con un “senza” rispetto a un titolo», come se fosse «il “senza titolo” del conscio, o addirittura, azzardo a questo punto, di qualsiasi argomento a cui lo si accosti».

Il paradosso sta nel fatto che intitolare un'opera Senza titolo, come succede molto spesso nell'arte moderna e contemporanea, indica il rifiuto dell'artista di parlare della sua opera, di attribuirle un'esplicita intenzione di senso. Qui invece gli artisti, parlando dell'inconscio, parlano anche delle opere, pur sapendo bene che l'opera deve “parlare” da sé, perché in essa c'è sempre dell'altro, che spesso conta più dell'intenzione dell'artista. In questo caso non si tratta soltanto della scissione tra l’intentio auctoris e l’intentio operis (come fa giustamente notare Andrea Cortellessa nel suo commento al progetto su Antinomie), ma del fatto che nella scissione si apre uno spazio “altro” in cui ci stanno sia le combinazioni e le esigenze che la forma impone durante il processo creativo, sia l'ombra dell'inconscio. Le prime si mostrano nell'opera, la seconda rimane necessariamente nascosta dietro l'opera, e farne il tema diventa così un paradosso come cercare di saltare sopra la propria ombra.

Opera di Giulio Lacchini.

Forse non è un caso, allora, che il titolo sia stato proposto da Giulio Lacchini, l'unico dei quattordici artisti che ha scelto di parlare solo con le immagini: una macchia informe, uno strumento musicale chiuso e muto, due foto corrotte e macchiate di un anonimo paesaggio urbano con figura. Uno stile laconico, asciutto, concentrato sull'energia concettuale del silenzio. Negli ultimi anni Lacchini ha esplorato le tracce dell'inconscio nel farsi del disegno improvvisato; qui ha scelto delle piccole epifanie, enigmatiche e mute.

Piccole epifanie enigmatiche sono anche quasi tutte le opere presenti nel libro e nella mostra, lontanissime dalle lussureggianti metafore dei surrealisti. Del resto non si esprime per lo più così anche l'inconscio: per tracce, allusioni, immagini illogiche? A passarle in rassegna viene in mente quel senso di estraneità che si prova quando degli estranei raccontano frammenti dei loro sogni. Ma questo è l'effetto che fa spesso, a una prima occhiata, molta arte contemporanea, soprattutto quando mantiene un legame col paradigma post-duchampiano e privilegia il “new thought” al piacere retinico. Il che non vuol dire affatto escludere la visione, quanto piuttosto non gratificarla immediatamente: è un'arte che, attraverso gli occhi, sollecita il pensiero, il quale, sempre con gli occhi, cerca gli indizi e poi, chiudendo gli occhi, lascia lavorare l'interpretazione. Se fare arte è giocare con le forme in modo da far emergere indizi o sintomi, allora il rapporto tra forma e informe, tra il recto del linguaggio (in senso lato) e il verso dell'inconscio è il cuore pulsante dell'arte. Ed è questo cuore pulsante che, in fondo, il progetto di Grazioli cerca di auscultare.

Non è un caso che tutti gli artisti coinvolti, quando scrivono dell'inconscio finiscono per parlare del loro processo creativo. E anche nelle loro immagini non c'è traccia di quell'abbandonarsi all'«automatismo psichico puro» sbandierato da Breton, che Edgar Wind stigmatizzava come un tentativo di identificare «l'atto creativo con una catarsi automatica». L'inconscio è sempre, inevitabilmente, fuori scena, tra parentesi. E si mostra soltanto con l'indefinibile battito di ciglia di La Jetée di Chris Marker con cui Panattoni chiude poeticamente il suo intervento. O con gli abbagli colti nelle foto di Luca Pancrazzi.

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Opera di Luca Pancrazzi.

In questo senso, quello tentato da Senza titolo (inconscio) sembra un compito impossibile. Se lo chiede anche Grazioli: «fare i conti con l’inconscio non significa fare i conti con ciò che non possiamo?». E ancora, con un'illuminante analogia: «La “cura” in analisi è la “forma” in arte?».

Come ben sapeva Freud, il conflitto è inestirpabile dalla vita psichica e la cura, a rigore, è perciò impossibile. Anche per l'artista la forma non elimina il conflitto, né lo compone in una sintesi superiore. Ma proprio per questo è utile interrogare il pensiero degli artisti e vedere come «si riverberi sulla loro opera»: perché è un pensiero abituato a giocare con le contraddizioni, a mettere in forma ciò che il pensiero esclusivamente razionale e scientistico pretende di chiarire eliminandole.

È qui che emerge il contatto con l'attualità e il sospetto che l'emarginazione dell'inconscio possa essere sintomo di un malessere culturale che va affrontato. Il malessere, lascia intendere Grazioli, è una sopravvalutazione del pensiero tecno-logico sempre più dominante, di cui l'IA è l'espressione più appariscente. E per affrontarlo gli artisti ci possono aiutare perché il rapporto con l'inconscio che essi esprimono e raccontano potrebbe essere l'antidoto giusto all'ipertrofia della razionalità dell'IA. È significativo infatti che questa rivendicazione dell'importanza dell'inconscio artistico arrivi in un momento in cui è così diffusa l'enfasi sulle capacità creative dell'IA generativa, e con essa una sempre più marcata tendenza all'antropomorfismo: ormai è diventato naturale estendere alle macchine i concetti della psicologia e parlare di inconscio, sogni, allucinazioni di questi sistemi di IA.

«Hanno o avranno un inconscio le “macchine”? È questo il discrimine con l’uomo?», si chiede Grazioli. E per rispondere si affida alle parole di un poeta, Yves Bonnefoy, che è stato anche un finissimo critico e pensatore d'arte. Bonnefoy parla di «pensiero figurale», di «coscienza pre-verbale», cioè di «uno spazio mentale che trascende quello del poeta o del pittore» e che utilizza «risorse mentali anteriori al linguaggio», come l’analogia, la metonimia, l'empatia. Ma il succo del suo discorso, Grazioli lo sintetizza così: l'inconscio è ciò che buca il linguaggio.

Ecco dunque l'ipotesi: gli artisti sanno bucare il linguaggio perché il loro rapporto col pensare e l’agire è «mosso da analogie, differenze, salti, metafore, incontri, slittamenti, gemmazioni», cioè dalla logica illogica dell’inconscio. Sanno fare questo le attuali macchine con tutta la loro intelligenza? «Sarà la mente umana a diventare “artificiale” o sarà l’Intelligenza Artificiale a diventare “umana”?».

Anche se è facile rispondere che le macchine non hanno un corpo, non hanno emozioni e desideri, e perciò non hanno un inconscio, Grazioli rifiuta la solita contrapposizione tra apocalittici e integrati, e invita a interrogarci su noi stessi e a studiare, insieme alla neuroscienza, anche la psicanalisi. E nel suo commento finale, tirando le fila dei vari contributi degli artisti, sostiene che hanno colto tutti il malessere e parlano non «dell’inconscio dentro […] ma di quello fuori», che ha a che fare con la tecnologia e l'IA.

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Opera di Sergio Breviario.

In realtà, solo alcuni vi fanno esplicitamente riferimento. Stefano Arienti parla di inconscio collettivo, omologazione, conformismo, assimilazione, autocensura; Luca Scarabelli, di inconscio come discarica ecologica. Ma solo Sergio Breviario ed Eva Marisaldi interagiscono direttamente con i sistemi TTI (Text To Image), le IA che producono immagini a partire da descrizioni (prompt). Breviario propone un ironico duello per evidenziare una componente essenziale del processo creativo: l'attesa, grazie alla quale l'inconscio si mostra; mentre la tecnologia «fabbrica un solo tipo di corpo, quello incapace di attendere». Marisaldi forza invece l'IA a visualizzare un personaggio invisibile, un oscuro santo russo che insegnava alle nuvole, e poi rielabora le immagini con effetti curiosamente anacronistici. E commenta scrivendo che anche gli artisti, come gli psicanalisti, cercano di «tirare fuori ciò che è inespresso attraverso il linguaggio».

È significativo invece che sia questi che gli altri artisti (Dario Bellini, Boy Sue con Marilina Giaco, Gianluca Codeghini, Martina Corà, Claudia Losi, Mara Palena, Luca Pancrazzi, Moira Ricci) parlino dell'inconscio, come abbiamo già notato, soprattutto commentando il loro processo creativo.

Mi sembra comunque che questo confermi l'interesse del progetto di Elio Grazioli, che non riguarda solo gli artisti, ma che ci riguarda tutti, perché tornare a esplorare il modo in cui l'inconscio agisce nella prassi artistica è un modo per cercare di capire cos'è l'arte e perché ci sembra così umana.

Come dice Bonnefoy, non bisogna perdere di vista l'essenziale di queste «incursioni in territori ai limiti della comprensione». E l'essenziale è saper «scendere nelle profondità in cui si riconosce la sostanza dello stare al mondo».

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Opera di Moira Ricci.

La mostra Senza titolo (inconscio), Un progetto di Giulio Lacchini, a cura di Elio Grazioli è aperta fino all’8 marzo presso la Fondazione Galleria Milano ETS.
Via Arcivescovo Romilli 7, 20139 Milano.

Il 7 marzo si terrà il finissage, aperto a tutti.

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