Adami, il pittore di idee che disturba la filosofia

15 Settembre 2024

Uno degli effetti dell'anarchia estetica che si è diffusa a partire dalla metà del secolo scorso è che oggi il mondo dell'arte sembra avere il livello di biodiversità di una foresta tropicale. Alla faccia degli oligopoli dei mercanti d'aura, è in grado di ospitare nicchie in cui prosperano le specie più insolite. In una di queste nicchie opera, felicemente indisturbato da oltre sessant'anni, un artista italiano che si potrebbe definire outsider se non suonasse al tempo stesso come un eufemismo e uno svarione.

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Lontanissimo dai palcoscenici, del tutto refrattario alla continua trasgressione dei limiti così tipica del paradigma contemporaneo, a ottantanove anni Valerio Adami è sicuramente un artista di grande successo, con mostre e riconoscimenti in tutto il mondo; ma un successo anomalo, fatto di grande prestigio e scarsa fama. Pittore colto, aristocratico, internazionale nel senso più vero del termine: ha viaggiato in mezzo mondo e disegnato ovunque viaggiasse. Nato a Bologna nel 1935, da madre siciliana e padre marchigiano, ha vissuto e lavorato a Milano, Londra, New York, Cuba, Marrakesh, India, Messico, Principato di Monaco, Tokyo; e soprattutto nei suoi luoghi d'elezione: Parigi e il lago Maggiore, prima ad Arona, nella villa della moglie Camilla Cantoni Mamiani della Rovere, anch'essa pittrice, poi a Meina. Artista intellettuale e pensatore, come dimostrano i suoi scritti, ha sempre amato circondarsi di artisti e intellettuali: giovanissimo, ha conosciuto a Venezia Oskar Kokoschka ed Ezra Pound, e a Parigi Sebastian Matta e Wifredo Lam. E poi ha continuato a stringere rapporti d'amicizia con tanti artisti, scrittori e filosofi, tra cui Julio Cortazar, Carlos Fuentes,  Octavio Paz, Saul Steinberg, Jacques Derrida, Jean-Francois Lyotard, Hubert Damisch, Luciano Berio, Italo Calvino, Antonio Tabucchi, Paolo Fabbri, Maurizio Ferraris.

Il suo è dunque un prestigio elitario, riconosciuto soprattutto in Francia e nell'ambiente intellettuale francese. E ciò, a dispetto di uno stile che, a prima vista, non sembra affatto ostico.

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Valerio Adami, L’incantesimo del lago,1984.

In effetti, anche nella sua opera c'è qualcosa di sottilmente paradossale: all'apparenza semplice e godibile, ma in fondo ermetica e impegnativa. Il suo stile maturo, a cui è rimasto fedele in modo quasi ossessivo nell'ultimo mezzo secolo, fonde in un personalissimo e inconfondibile anacronismo ingredienti contrastanti come la facilità postmoderna, il rigore modernista e la passione classicista. Se fosse un profumo, le “note di testa”, quelle avvertibili immediatamente, sono la frutta dolce di un linguaggio grafico che ricorda immediatamente i fumetti, in un mix di alto e basso tipicamente postmoderno; le “note di cuore”, sono la fedeltà modernista alla pittura e a una composizione rigorosa in equilibrio tra disegno figurativo e astrazioni cromatiche; le “note di fondo” sono il gusto del racconto della grande pittura classica, filtrato attraverso un'ermetica poesia di immagini dall'atmosfera sospesa.

Con la sua generosa selezione, che copre tutta la carriera dell'artista, l'attuale mostra a Palazzo Reale a Milano, Valerio Adami. Pittore di idee, curata da Marco Meneguzzo in collaborazione con l'Archivio Valerio Adami e visitabile fino al 22 settembre, è un'ottima occasione per verificare questa piramide olfattiva.

Cominciamo dalle note postmoderne. Dopo la fase giovanile in cui si sentono echi espressionisti di Kokoschka e di Bacon e spunti figurativi alla Matta, negli anni sessanta appaiono i colori piatti e decisi e i contorni netti della grafica popolare adottati dalla Pop Art. Ma questi elementi del linguaggio pop sono assemblati in caotiche composizioni tra il surreale e l'astratto (Uovo rotto, 1963); oppure in ironico-erotiche scene d'interno con brandelli di corpi da cartoon montati  come parodie delle destrutturazioni picassiane (Privacy. Scena borghese. Una cameriera di buon cuore, 1965 o Henri Matisse che lavora a un quaderno di disegni, 1966). Qualche anno dopo lo stile grafico pop si semplifica e si fa più ordinato e oggettivo in opere come Latrine in Times Square (1968) e Vetrina (1969). Ma con la Pop art (filtrata comunque attraverso lo sguardo critico europeo) Adami ha in comune solo alcuni tratti di linguaggio, derivati dalla grafica popolare dei fumetti e della pubblicità. Al contrario, per Lichtenstein, Warhol & Co ciò che conta è proprio la trasfigurazione “estetica” dell'immaginario massmediatico in un'arte impersonale, che contrappone spavaldamente le superficialità anonima di quelle immagini alla profondità soggettiva degli espressionisti astratti.

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Valerio Adami, Penthesilea, 1993.

L'evanescenza di questo profumo postmoderno di Adami si fa evidente quando, negli anni settanta, il suo processo di identificazione stilistica si consolida: opere come Attentato (1971), Doct. Sigm. Freud (1972) o Ritratto di Walter Benjamin (1973) dimostrano chiaramente che le icone massmediatiche trasfigurate della Pop art americana non hanno alcun interesse per lui. La sua è una pittura modernamente classica; una pittura in cui, con “squisita indifferenza” al paradigma post-duchampiano, mantiene tutta la sua importanza il gesto della mano, la techne del pittore che costruisce immagini.

Valerio Adami è infatti un pittore che disegna. Disegna con una linea nera e spessa, che confina con fermezza e precisione le figure, le semplifica e le stilizza come figure di fumetti (anche se un paragone forse più consono sarebbe con le vetrate gotiche). Ma quel che più conta è che il disegno, come suggerisce anche uno dei significati della parola in italiano, è per lui innanzitutto progetto, cioè idea. Adami è davvero un pittore di idee, che rivendica la natura intellettuale – e non meramente “retinica” della sua arte. Il suo è dunque un disegno-progetto, la messa in forma di un'idea che è composizione completa (occupa sempre tutta la superficie del foglio o della tela) e che non è mai al servizio esclusivo delle figure. Le tiene in tensione costante con la composizione di linee e forme geometrizzanti, la cui logica astratta interagisce con quella rappresentativa come le spinte e controspinte che tengono in equilibrio un funambolo (Quando due linee in conflitto tra loro delimitano un’immagine, il conflitto si appiana, scrive Adami).

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Valerio Adami_Palazzo Reale, Ph Gabriele Leonardi.

Le anatomie, pur rese con la mano sicura del disegnatore classico, sono attraversate da partizioni incongrue e faglie che le interrompono, le disassano, le deformano e le mettono in contrappunto con altri elementi grafici, ma senza mai far perdere la loro riconoscibilità. È una linea mentale, molto pensata, elegantemente sospesa tra figurazione ed esigenze puramente formali. Lo si vede bene nei disegni in cui si notano le cancellature (le radici del disegno): il segno definitivo e sicuro della matita grassa emerge da un lavorio precedente di linee che cercano le loro congiunzioni armonicamente geometriche. (In alcuni dei disegni presenti in mostra le didascalie dichiarano in modo esplicito l'importanza di questo lavorio: i materiali sono “matita e gomma su carta”).

Il colore, piatto e privo di sfumature, accentua questa tensione compositiva: a volte ne evidenzia l'autonomia rispetto alle figure; altre volte ne estrae ulteriori possibilità grafiche, isolando campiture geometriche o fondendo aree figurali incongrue. Nei dipinti, spesso di grandi dimensioni, i riverberi emotivi delle tinte e i contrasti spiccati hanno un impatto molto forte. Adami paragona il disegno al discorso e i colori ai toni e ai timbri di voce e alle loro inflessioni umorali. Lo strumento per leggere il disegno è il colore, come la voce è lo strumento per leggere la parola scritta, scrive Adami. «Metafore incrociate: la voce – l’intonazione – è il colore della scrittura; il colore è la voce della pittura», commenta Octavio Paz. Ma una voce che canta, aggiunge Calvino nelle sue Favole di Esopo per Valerio Adami: sfidata dalla parola scritta a leggere i colori, la voce «tossicchiò, aspirò, poi fece vibrare una nota, modulò un accordo, intonò un motivo senza parole, emise un trillo, un solfeggio, prese a cantare a gola spiegata».

Insomma, anche se il disegno viene sempre prima dei colori, l'uno e gli altri assolvono dialetticamente allo stesso fine: la conoscenza, l'idea.  È in queste “note di cuore” che si sente il profumo modernista. (Ma già anche quello classico, se si pensa alle origini della pittura come “cosa mentale” e del pittore come intellettuale).

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Valerio Adami_Palazzo Reale, Ph Gabriele Leonardi.

Dunque, Adami è un pittore che disegna idee. Ma è altrettanto importante aggiungere che disegnando racconta. Racconta in sensi diversi dal consueto: “racconta” con le peripezie che la matita attraversa sulla carta prima di arrivare alla sua acme; e più in generale “racconta” qualcosa che va al di là di ciò che si può dire con le parole. Una modalità in cui riecheggia il ricordo di quando, da bambino, disegnava per comunicare col nonno che aveva deciso di non parlare più e si fingeva sordo.

Ed è qui che emergono le note di fondo, quelle forse più persistenti e personali, più radicate nel suo principio di individuazione stilistica. Il suo disegno ha un ritmo, linee melodiche caratteristiche come Leitmotiv, armonie cromatiche ricorrenti; ma, soprattutto, ha sempre figure riconoscibili – uomini, donne, animali, paesaggi, oggetti – con le quali illustra quelle che appaiono come scene o assemblaggi di scene teatrali. A giudicare dai titoli, sono momenti della sua vita interiore o esteriore, esperienze raccolte nei suoi numerosissimi viaggi, figure mitologiche e grandi personaggi della sua storia culturale, ma anche allusioni a vicende storiche, a drammi e passioni in cui l'io dell'artista si estroflette nel noi dell'eterna vicenda umana (Si cammina tra le tombe, fra le nostalgie e i propri amori).

In ogni caso, sono racconti congelati e concentrati in un fermo-immagine; a volte sembrano condensazioni di immagini oniriche, frammentate e incongrue com'è tipico dei sogni. (Pittura di contrapposizione. Nelle associazioni si impiegano fatti di scene diverse. Il quadro si compone al plurale. Poligrafie.) Che siano o meno sogni, la dimensione simbolica è sempre presente, accentuata dagli elementi incongrui. E sempre incarnata in un progetto compositivo (Raccontare consiste nel dividere il quadro in frammenti sempre più fitti. Questa per me è la composizione. Articolare una trama).

Prendiamo l'Autoportrait del 1983. Il volto è una maschera teatrale pallida che si staglia in un riquadro scuro (un palcoscenico?) nella parte alta del dipinto. È sostenuta da due mani che emergono dal ritaglio geometrico di un paesaggio alpino dai colori innaturali. Il corpo nudo, del tutto sconnesso dalle mani, è disegnato dall'addome in giù e confinato all'interno di due figure geometriche: un cerchio scuro, con al centro il sesso nascosto in una “brachetta” cinquecentesca; e una specie di plinto bordeaux, che abbraccia il cerchio e sul quale spicca una gamba tesa e una piegata, come se il corpo fosse in procinto di uscire dal cerchio scavalcando il plinto. Un piede indossa una ciabatta rossa; l'altra ciabatta è abbandonata in un angolo in basso. Dall'inclinazione, il corpo sembra provenire dal paesaggio e protendersi al di sopra del dipinto.

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Valerio Adami, Interno, 1967.

Anche se le interpretazioni rimangono inevitabilmente sospese (Quale miglior luogo di un quadro per nascondere le nostre contraddizioni e nostri desideri?), qui è evidente sia il carattere narrativo che quello simbolico. La sintesi di pochi elementi allegorici e la loro composizione accurata fanno pensare a una poesia ermetica. Disegno in prosa, ma qualche rima scappa via, scrive Adami. Eppure, pensando a molta poesia narrativa novecentesca, la sua pittura si potrebbe sintetizzare rovesciando il famoso motto oraziano: Ut poesis, pictura. I quadri di Adami sono piccoli racconti lirici, che condensano idee ed emozioni in una “scrittura” di segni nitidi come parole, ma emananti enigmatiche nebulose di senso. È un senso di sospensione e d'incombenza: il racconto-disegno ha raggiunto la sua acme, la sua massima concentrazione in un momento, la puntualità di un istante che è nello stesso tempo una crisi e un'estasi, scrive Derrida. E Ferraris chiosa: «L’elemento dominante è la suspense, una relativa immobilità in cui si annuncia l’imminenza di qualcosa. Ecco il senso profondo del messianismo pittorico di Adami: tutto ciò che è presente suggerisce un’attesa. L’azione non è mai compiuta, la presenza non è mai interamente presente».

Un pittore di idee che disegnando racconta ciò che non si può dire con le parole (anche se parole scritte compaiono frequentemente nelle sue opere, col tratto calligrafico puntuto ed elegante che sembra sembra voler decostruire i rapporti tra figurale e grafico). Non sorprende che abbia attirato tanto l'attenzione di filosofi e scrittori. Una bella selezione degli scritti di Jouffroy, Fuentes,  Derrida, Calvino,  Paz,  Lyotard, Tabucchi e Ferraris (alcuni citati in precedenza) si trova nel catalogo bilingue pubblicato da Skira, Valerio Adami. Pittore di idee, oltre al saggio introduttivo di Meneguzzo e un ricco apparato iconografico che raccoglie le opere in mostra assieme a molte altre rappresentative di tutta la sua lunga carriera.

Vorrei concludere con una chiosa sul titolo del catalogo e della mostra. Adami è senza dubbio un pittore di idee. Tanto che in un suo libro (Sinopie) ha anche scritto che la filosofia è inerente alla pittura. Ma un filosofo come Derrida, suo grande amico, gli era riconoscente perché col suo lavoro disturbava «l’istanza filosofica e l’autorità che essa si è sempre attribuita nei suoi enunciati sulla pittura. […] Quando smetto di parlare come filosofo, ho l’impressione di non essere io a rivolgermi alla pittura, ma che sia essa a rivolgersi a me».

Forse per questo, quando Adami dice che il disegno è l'idea, aggiunge subito: e la profanazione dell'idea.

In copertina, ValerioAdami, Autoportrait, 1983.

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