Bill Viola e la danza delle immagini

31 Marzo 2023

In un ambiente in penombra c'è un grande schermo piatto con una foto in cui si vede un gruppo di cinque uomini, di diverse età, vestiti casualmente, ripresi a mezzo busto. Guardano verso punti diversi e con espressione diverse, anche se tutte intense e pensose. Per taglio, composizione, luci e colori, l'immagine ha la qualità visiva di un dipinto. Ed è questa la prima impressione: un ritratto di gruppo, ispirato all'iconografia classica. Poi però un piccolo movimento, fino allora inosservato, svela che la foto è un video e si sta impercettibilmente modificando come una nuvola in un cielo senza vento. Lo sguardo comincia a perlustrare e si crea un'attesa: cosa succederà?

Col passare dei minuti, sembra che gli sguardi degli uomini si dirigano nella stessa direzione frontale e che anche le loro espressioni, diventando più esplicite, rivelino un comune tono di cordoglio. Eppure sguardi ed espressioni rimangono divergenti fino alla fine: c'è chi sembra preso da una specie di estasi che si trasforma in un'intensa rassegnazione; chi arriva quasi al terrore; chi si apre in uno stupore penoso che assomiglia a un sorriso sardonico; chi passa dal dubbio iniziale a una dolorosa certezza; chi, dalla serenità all'afflizione.

Questa è la prima tappa del percorso che Bill Viola ha progettato per la sua mostra attualmente in corso a Palazzo Reale a Milano (fino al 25 giugno). Il titolo dell'opera, The Quintet of the Silent (2000), suggerisce un'interpretazione musicale: come in un quintetto, i cinque uomini suonano ognuno una linea melodica diversa, e tutte assieme si fondono in un intreccio armonico, in un dialogo polifonico che esprime per vie differenti ma interconnesse il dolore del lutto. Quest'opera visiva, però, è una composizione musicale anche perché “contiene tempo”.

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The Quintet of the Silent, 2000.

Se la musica, come scrive Jankélévitch, «è sempre una stilizzazione del tempo», il super slow-motion di Bill Viola applicato all'espressione delle emozioni stilizza il tempo dilatandolo: come una lente d'ingrandimento temporale ci fa entrare nelle pieghe della durata, le spiana in modo che lo sguardo possa toccare tutte le deformazioni dei volti, le più piccole increspature del pathos.

La dilatazione enfatizza l'espressività ma crea anche una sospensione, come una bolla di silenzio che contrasta nettamente con l'intensità in fortissimo delle emozioni. È come se il quintetto raggiungesse l'acme della composizione in una lunghissima pausa di sedici minuti, nella quale si raccoglie e condensa tutto lo strazio che separa i due accordi che sono stati tagliati: quello d'attesa che l'ha preceduta e quello doloroso che la concluderà.

Tutti abbiamo visto i documentari in cui questa tecnica rivela le magie nascoste della natura: il volo di un colibrì o, al contrario, lo sbocciare di un fiore. I video di Bill Viola giocano anche con una simile magia da meraviglia infantile. Ma nei suoi lavori migliori questa “lenti-digitazione” può portarci a vedere qualcosa di apparentemente impossibile: il suono del tempo che si riverbera in un'immagine.

In fondo è proprio questo che fanno i video di Bill Viola: «non inseriscono le immagini nel tempo, ma il tempo nelle immagini», come scrive Agamben in Ninfe. Un'osservazione apparentemente ovvia, che introduce però una questione complessa e affascinante, connessa profondamente alla storia dell'arte e della cultura visiva: «Come può un’immagine caricarsi di tempo? Che relazione vi è tra il tempo e le immagini?».

È una questione che ha ossessionato per tutta la vita Aby Warburg, attorno alla cui più famosa Pathosform, la ninfa che incede a passo di danza, il saggio di Agamben si dipana. E proprio dalla danza il filosofo ricava una metafora preziosa. In un trattato quattrocentesco sull'arte di ballare trova l'espressione «danzare per fantasmata», che indica «un arresto improvviso fra due movimenti, tale da contrarre virtualmente nella propria tensione interna la misura e la memoria dell’intera serie coreografica». Questa pausa della danza, questa sospensione carica di tensione, di memoria e di senso, mi sembra calzi a pennello alle immagini “dilatate” di Viola: “dilatate” nel senso che aprono uno spazio di tensione tra due poli, nel quale non sono né fotografie né video, né fisse né in movimento; uno spazio nel quale il tempo danza «per fantasmata».

Negli ultimi trent'anni della sua carriera, l'arco temporale di questa mostra, Viola ha individuato un ambito di lavoro in precario equilibrio tra la spettacolarizzazione tecnologica del sublime e l'esplorazione di un medium dalle grandi potenzialità: la temporalità fluida dell'immagine, cioè la sua tendenza a condensarsi, a dilatarsi e caricarsi di tensione perché intrisa delle emozioni, delle associazioni e dei significati attivati dalla memoria personale e culturale.

Il Quintet fa parte di una serie di opere nate in seguito a una residenza di studio fatta dall'artista al Getty Research Institute tra il 1997 e il 1998, nella quale il tema era la rappresentazione delle passioni. Dalle ricerche di quel periodo, oltre ai lavori sulla mimica patetica dei volti umani, nascono anche alcuni video che partono da immagini dell'arte classica.

È il caso di Emergence (2002) ispirata al Cristo in pietà di Masolino da Panicale (1424), seconda tappa del percorso allestito a Palazzo Reale. Due donne sono sedute, affrante, ai lati di un sepolcro di pietra che ricorda quello dipinto da Masolino. L'immobilità fotografica è rotta dalla donna più giovane che si toglie il velo e si gira verso la sommità del sepolcro, come se avesse sentito qualcosa. Scopriamo così che il coperchio è in realtà uno specchio d'acqua da cui sta emergendo una testa. Lentamente, mentre l'acqua tracima, appare il corpo bianco di un giovane nudo dai lunghi capelli neri, con gli occhi chiusi e le braccia abbandonate sui fianchi. Il climax è sottolineato acusticamente dal crescendo dello scroscio dell'acqua, lento come un tuono in avvicinamento, che accompagna l'emersione. Quando il corpo è in piedi la donna più giovane gli prende un braccio, se lo porta al viso e gli bacia la mano (come fa San Giovanni nell'affresco di Masolino). Ma il giovane comincia a lasciarsi andare. La donna anziana allunga le braccia per sostenere il corpo che si accascia sul bordo del sepolcro, mentre la giovane gli afferra le ginocchia, aiuta a distenderlo a terra e gli copre le gambe con un telo. Alla fine entrambe si chinano sul morto.

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Emergence, 2002.

Questa non è una semplice teatralizzazione del dipinto quattrocentesco. Quello che interessa a Viola è altro: «Cosa succede quando questa immagine entra dentro di noi, vive in noi e si trasforma in qualcos'altro?». S'impregna di memoria e di significati, acquistando una densità temporale e uno spessore narrativo polisemico e sfuggente, come un sogno in cui risuona non solo la Pietà di Masolino, ma anche le tracce sospese di tante altre immagini: “formule del pathos” affiorate da altre pietà, deposizioni e resurrezioni, associazioni accumulate nella nostra memoria. È il tipico lavoro onirico che Freud chiamava «condensazione»: il sepolcro è anche un pozzo; la resurrezione è anche una nascita (un corpo nudo che rompe le acque ed è accolto da due ostetriche); il corpo bianco è il Cristo, ma è anche il cadavere di un annegato tra le braccia disperate di una madre e di una sposa.

Emergere e sprofondare nell'acqua: quanto siano forti e ambivalenti i riverberi simbolici di questa immagine è ancora più evidente nell'opera allestita nella stanza successiva.

Ocean without a shore (2007) si presenta come una cappella in penombra, con una grande pala frontale e due laterali più piccole: sono tre schermi verticali che si stagliano nel buio con una luce grigiastra e nebbiosa. In ognuno si intravvede una pallida larva umana, immersa in un fondo più scuro. Alcune sono appena distinguibili, in lontananza, come diafane figure fatte di nebbia. Sembrano fantasmi che si avvicinano con estrema lentezza. La più vicina protende le mani in avanti provocando due piccole cascate luminose e il rumore di uno scroscio: sta attraversando una soglia d'acqua, una cortina sottilissima di luce liquida che “scansiona” le braccia, la testa e le spalle, coronandole di schizzi. Man mano che emerge dalla soglia, il fantasma grigiastro, investito da una luce tagliente e nitida ad altissima risoluzione, diventa corpo colorato e vivo, presente davanti a noi, circondato dalla stessa penombra della stanza in cui ci troviamo.

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Ocean without a Shore, 2007.

È una giovane donna asiatica. Gocciola, fradicia e smarrita, e si guarda attorno con un'espressione attonita. Si toglie lentamente l'acqua e i capelli dal volto e poi alza lo sguardo verso di noi, uno sguardo intenso, carico di una tristezza indicibile. Alla fine si apre in un timido sorriso rassegnato, poi si gira, torna indietro, riattraversa la fragorosa soglia d'acqua e riprende la sua sostanza fantasmatica allontanandosi nel buio. Come tutti gli altri, uomini e donne, giovani e vecchi, che attraversano in silenzio le soglie di queste pale d'altare.

Non ho potuto fare a meno di pensare alla tragedia di Cutro. Anche se è nato da altre suggestioni (il titolo è tratto da un verso del mistico sufi Ibn Al'Arabi: «Il sé è un oceano senza riva. Guardarlo non ha inizio né fine, in questo mondo e nel prossimo»), questo “Oceano senza riva” può esser guardato come una metafora potente di uno dei drammi del nostro tempo. È davvero il «prendere corpo dei fantasmi», come scriveva Paolo Fabbri in un denso saggio dedicato a quest'opera (oggi raccolto in Vedere ad arte. Iconico ed icastico, Mimesis, 2019).

È ancora l'acqua l'elemento drammaturgico – e «traumaturgico», suggerisce Fabbri – di un'altra opera famosa di Viola nella quale siamo portati a proiettare un forte messaggio politico: The Raft (2004).

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The Raft, 2004.

In un grande video proiettato su una parete si sta formando un gruppo di persone: sono in piedi, rivolti verso di noi, seri, silenziosi, sembrano in attesa di qualcosa, forse una manifestazione. Dopo un paio di minuti, prima da sinistra poi da destra, irrompono due enormi getti d'acqua che investono il gruppo, con un fragore crescente. Colpiscono con violenza e travolgono le persone più laterali, schiacciano le altre verso il centro. Per lunghi minuti, il gruppo è sommerso dalla schiuma e si trasforma in un ammasso di ombre gesticolanti dentro una nuvola livida e schiumante. Poi, pian piano, mentre i getti si smorzano e l'acqua defluisce, ricompaiono i corpi inzuppati. Le persone si rialzano, si scrollano via l'acqua, si abbracciano e si aiutano a rimettersi in piedi.

Il titolo evoca la celebre Zattera della Medusa di Géricault, col suo groviglio di corpi sopravvissuti alla catastrofe liquida di un naufragio. Ma più che un disastro naturale, qui la violenza improvvisa dei getti orizzontali e simmetrici fa pensare all'irruzione della forza impersonale del potere che cerca di reprimere una protesta non violenta. Un tema sempre all'ordine del giorno.

L'acqua ritorna anche in opere successive, mescolandosi col fuoco, in un crescendo di spettacolarità e di enfasi retorica.

È il caso dei Martyrs (Water, Fire, Earth, Air, 2014): quattro schermi piatti verticali che illustrano il supplizio inflitto per mezzo dei quattro elementi. Un giovane a torso nudo vien sollevato a testa in giù e allarga le braccia formando una croce rovesciata mentre viene travolto da una cascata d'acqua; una pioggia di fuoco trasforma un vecchio in un rogo; una bufera verticale aspira la terra e raddrizza penosamente un altro uomo; una donna appesa è frustata dalle folate di vento. Nessun gesto di resistenza, nessuna richiesta d'aiuto: sono martiri, rassegnati al loro destino.

Ma il vertice spettacolare e retorico della mostra è raggiunto nell'ultima sala dove, su un enorme pennello verticale di quasi sei metri, vengono messi in scena, in due video che si alternano, un “miracolo” d'acqua e un “miracolo” di fuoco.

Tristan's Ascension (2005) inizia col grande pannello immerso nel buio. Nella parte più bassa, adagiato di profilo su un basso piedistallo e scolpito da una luce caravaggesca, spicca il corpo di uomo avvolto in una tunica bianca. Piccole gocce luminose cominciano ad alzarsi in verticale nel buio: si distaccano dal centro del corpo e dal piedistallo e vengono risucchiate verso l'altro, sempre più numerose, accompagnate da un rumore di pioggia. La pioggia invertita diventa uno scroscio che aspira luce dal corpo e comincia a muoverlo mentre un fragore sempre più forte di cascata riempie lo spazio. In un crescendo melodrammatico, il corpo si solleva, attratto dal flusso ascendente, e levita sempre più in alto fino a sparire. Anche la cascata viene lentamente assorbita, il boato si allontana, i fiotti si diradano e alla fine rimangono solo gocce luminose che si sollevano sgocciolando dalla superficie del piedistallo vuoto.

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Tristan's Ascension, 2005.

L'enfasi romantica e mistica domina al punto che il fragore dell'acqua risuona come il crescendo di un'orchestra wagneriana (Viola ha in effetti collaborato alla messa in scena del Tristano e Isotta realizzata da Peter Sellars nel 2004).

E wagneriano è anche il muro di fuoco su cui si apre Fire Woman (2005): un grande rogo che divampa fragoroso e su cui si staglia la sagoma nera in controluce di una donna. La donna rimane immobile per tre minuti, poi allarga lentamente le braccia e si lascia cadere in avanti. Solo quando sta per scomparire scopriamo che il buio ai suoi piedi è una superficie d'acqua che si rompe con un tonfo e un'infiorescenza di spruzzi. Tornata calma, l'acqua su cui si ora si riflette distintamente il fuoco comincia a salire come una lenta marea che inonda l'incendio senza spegnerlo. Il rombo della tempesta di fuoco si attenua, lasciando emergere lo sciabordio delle onde in un mare d'oro fuso. Pian piano i riflessi virano verso il rame e si intrecciano con sprazzi di blu in uno cangiante arazzo liquido; infine rimangono solo rari baluginii nella parte più bassa di un mare notturno. La melodrammatica “donna di fuoco” ha innescato la metamorfosi del muro di fuoco in mare notturno: la passione più bruciante che si spegne nella calma più definitiva? O un esercizio estetizzante intorno al “sublime”, in bilico sul baratro del Kitsch?

Probabilmente è questa l'arte che ha reso più famoso Bill Viola: un'arte diretta e spettacolare, basata sullo slow-motion ad alta definizione applicato a immagini “videogeniche” e sapientemente “auratizzate” da connotazioni simboliche e mistiche o da espliciti riferimenti all'arte classica. Un'arte in cui la ricerca dell'emozione immediata coniugata all'eleganza formale prende il posto della sperimentazione più avventurosa, sorprendente e urticante di molta videoarte contemporanea (a cui sono invece più vicini i lavori realizzati da Viola negli anni settanta e ottanta o l'anomalo The Veiling del 1995, qui presente). Un'arte barocca e romantica, sublime e mistica, teatrale e retorica, poetica e contemplativa, che solletica diffusi gnosticismi new-age e offre a tutti gratificazione emotiva e nobilitazione culturale.

Ma semplice non sempre significa superficiale. È una fortuna perciò che il percorso a Palazzo Reale ci riporti nella prima sala dove, sulla parete opposta al Quintet iniziale, c'è The Greetings (1995), il primo video di Viola ispirato alla pittura classica, in questo caso la Visitazione di Pontormo (1528-30).

L'opera ha uno spunto biografico significativo, che l'autore racconta così: era in auto, fermo a un semaforo, e sulla strada accanto a lui tre donne con morbidi e leggeri vestiti estivi si incontrano proprio nel momento in cui una folata di vento fa fluttuare le loro vesti. Nella cornice del finestrino si compone, in un lampo, l'epifania del quadro di Pontormo: una «immagine dialettica» (per dirla con Benjamin) in cui erano rimasti sospesi e sovrapposti i passi di tre donne americane del Novecento e quelli di due madonne fiorentine del Cinquecento.

Nel video è ricostruito lo sfondo del dipinto e il morbido svolazzare delle vesti dai colori contrastanti in cui riecheggia, ancora una volta, lo spirito della ninfa di Warburg. Ma lo slow motion non è un banale effetto speciale per dare vita a un'antica immagine statica. La sua forza è nella capacità di far emergere la temporalità di quell'immagine, che riverbera nella nostra memoria caricandosi di tensione e attesa, il cui acme è l'abbraccio tra Maria ed Elisabetta fissato dal pennello di Pontormo. Non è un arresto: è il condensarsi immobile, “per fantasmata”, della danza.

Se la fotografia taglia chirurgicamente il tempo e congela l'immagine come una farfalla infilzata, e se la grande pittura sottrae all'immagine la sua compiutezza, la contamina col tempo mettendola in risonanza con i fantasmi della memoria e dell'inconscio, allora certe immagini “dilatate” di Bill Viola riescono a ricreare, con la loro magia artificiale, l'inquieta vibrazione temporale della pittura. Che in fondo non è altro che l'eco della natura che scorre dentro e fuori di noi: nei ricordi, nei sogni, nella danza fantasmatica delle nuvole.

In copertina, The Greetings, 1995.

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