Tutto Fontana in formato portatile

20 Novembre 2023

Il campo di lavoro del critico d'arte – in generale, di chi la studia e ne scrive – può essere immaginato come un campo magnetico creato da due poli opposti: il polo della conoscenza ovvero dell'analisi-interpretazione, e il polo del piacere ovvero della visione-emozione. Il primo polo attrae chi usa la lente d'ingrandimento per non perdere il dettaglio, il secondo chi, come il Bergotte di Proust, si perde del tutto nel “minuscolo lembo di muro giallo” di un quadro di Vermeer. «L'uomo del dettaglio scrive romanzi a chiave», sostiene Didi-Huberman. «L'uomo del lembo scriverebbe ekphrasis senza fine, reticolate, aporetiche». (“Romanzi a chiave” qui va inteso nel senso di ricerche storico-critiche costruite su quel “paradigma indiziario” che Carlo Ginzburg delineò nel suo famoso saggio del 1979 Spie, appena ripubblicato in forma ampliata da Adelphi col titolo Miti, emblemi, spie)

È evidente che gli oltre sessanta studiosi che hanno collaborato al Dizionario Lucio Fontana (Quodlibet, 2023, realizzato in collaborazione con la Fondazione Fontana) si collocano tutti dalla parte dell'uomo del dettaglio. Con le sue 650 pagine e gli oltre 300 lemmi costruiti come brevi saggi, più un'accurata selezione di foto d'epoca e di immagini delle opere, il libro è una raccolta impressionante di temi, luoghi, persone, materiali, dettagli filologici e riferimenti storico-critici che girano attorno alla figura di un artista a cui ben si addice un'operazione del genere. Infatti, come scrive Luca Pietro Nicoletti, curatore dell'opera, Lucio Fontana è «una vera e propria stella fissa di una costellazione», un «punto di attraversamento e di coesione di una galassia di storie diverse che accompagnano i decenni centrali del Novecento».  

Il libro, però, non è un romanzo a chiave, è uno strumento per costruire storie; o meglio, un archivio sintetico e compatto, a portata di mano di chiunque voglia ricostruire un'appassionante storia dell'arte italiana ambientata tra gli anni Trenta e gli anni del miracolo economico. Ma è anche una miniera di scoperte per chiunque voglia tornare a guardare – e pensare – le opere di un artista fin troppo famoso e canonizzato.

Come tutti i dizionari, anche questo è uno strumento per conoscere una cultura, perché un grande artista è, in un certo senso, una cultura a sé, una rete di relazioni, «un'atmosfera di teoria e storia dell’arte», come direbbe Arthur Danto. In effetti, ciò che è stato compresso e schedato nelle voci di questo dizionario è l'intero “mondo dell'arte” di Fontana: un Artworld di cui fanno parte ovviamente le opere (circa 50 voci, tra lavori singole e cicli di lavori, come i “buchi”, i “tagli” o i “teatrini”), ma anche, e in egual misura, gli interpreti (altrettante voci, tra critici e storia della critica); i temi teorici (da Ambiente e Televisione, passando per Gesto, Kitsch o Monocromo) e poi i vari materiali usati dall'artista (ben 15 voci, da Acrilico a Vinavil); i luoghi in cui ha vissuto e lavorato (dall'Argentina, dove è nato nel 1899, a Venezia; da Albisola ai molti studi milanesi succedutisi tra gli anni Trenta e Sessanta); tutti i personaggi con cui ha stretto rapporti, spesso di sincera amicizia: gli artisti del suo tempo; i galleristi e i collezionisti; gli architetti e i fotografi (come Ugo Mulas, autore dei suoi ritratti più famosi).

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Concetto Spaziale, 1964-1965.

C'è un aspetto che colpisce, in questa rete di rapporti personali con colleghi, critici, galleristi: tranne pochissime eccezioni, tra cui Adolfo Wildt, che fu il suo maestro a Brera, tutti questi personaggi sono più giovani di Fontana, spesso molto più giovani, soprattutto i colleghi. Gli esempi più famosi sono Piero Manzoni e Yves Klein, le due geniali meteore di cui egli intuisce il talento fin dai primissimi esordi nel 1957; ma ci sono anche Enrico Baj e Asger Jorn; Roberto Crippa e gli “spaziali”; Castellani, Dadamaino e gli artisti del giro di Azimuth; Giulio Paolini, di cui è tra i primi collezionisti, e i vari giovani artisti giapponesi attratti dalla sua arte, tra cui Yayoi Kusama, che Fontana ospitò nel suo studio aiutandola a realizzare un'installazione-performance in occasione della Biennale del 1966.

Che un artista sessantenne, con una grande carriera internazionale e già sei Biennali di Venezia in curriculum alla fine degli anni cinquanta, frequenti, apprezzi e incoraggi tanti giovani artisti, acquistando spesso le loro opere, fa emergere, oltre alla grande generosità, un aspetto importante del suo carattere: quell'entusiasmo adolescenziale di cui parlava la scrittrice Milena Milani e quel «profilo energetico» dominato dall'allegria di cui scriveva all'epoca Raffaele Carrieri, e che si in intuisce nelle fotografie che lo ritraggono quasi sempre sorridente e un po' guascone. Non è solo una notazione psicologica, è un aspetto che si rispecchia nella vicenda artistica e nello stile stesso di Fontana: la passione del puer per l'invenzione, la voglia di rimettersi in gioco. «Non lo consideravo un pittore o uno scultore, ma un sapiente dell'estremismo. Non obbediva ad altra legge che a quella che aveva creato per liberarsi di se stesso», scrisse il poeta e critico Alain Jouffroy poco dopo la morte di Fontana, avvenuta nel 1968. È la capacità di rinnovarsi continuamente senza temere bruschi cambi di direzione che hanno notato molti critici e che aveva capito bene anche Piero Manzoni: «una lezione di attitudine alla vita: la volontà, la forza di far dell'arte: la libertà di invenzione».

Già negli anni venti aveva ottenuto importanti committenze con la scultura funeraria in Argentina, nell'atelier del padre; negli anni trenta, con la scultura figurativa modernista e i lavori in ceramica, aveva raggiunto un notevole successo (la sua prima Biennale è del 1930), ma si era anche lanciato nelle prime sperimentazioni di scultura astratta. E nel 1947, quando ritorna dall'Argentina dove aveva passato gli anni della seconda guerra mondiale, si reinventa da capo a fondo: propone un linguaggio nuovo, basato sulla tensione fra materialità e smaterializzazione, nel quale reinterpreta a suo modo l'informale; ma soprattutto diventa l'artista dello spazio, lanciando, con la vigoria delle prime avanguardie, un suo nuovo movimento.

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Struttura al neon, Triennale di Milano, 1951.

Dello Spazialismo di Fontana, però, più che le idee, contano le incarnazioni, il modo in cui i concetti si traducono in opere: i celebri «Buchi» e i celeberrimi «Tagli», esposti per la prima volta rispettivamente nel '52 e nel '59; ma anche i rivoluzionari Ambienti del '49 e '51, l'Ambiente a luce nera, presentato alla Galleria del Naviglio, e la Struttura al neon l'arabesco luminoso realizzato per lo scalone della Triennale. (A proposito della quale, alla voce Luce, scopriamo che una delle sue fonti dirette sono le fotografie di Gjon Mili, pubblicate su Life nel 1949, in cui Picasso disegna nello spazio con una torcia; quel Picasso di cui Fontana riconobbe la grandezza solo quando anch'egli raggiunse la consacrazione: «Anche lui ha cambiato molte cose»). Giustamente, il Dizionario dedica molte pagine a questi e agli altri ambienti di Fontana, la cui visionarietà è stata recentemente confermata anche dalla bella mostra all'Hangar Bicocca del 2017 (ne ha scritto Silvia Bottani qui).

«In questi quarant'anni della mia attività e di quello che vedo nel mondo artistico - dice Fontana a Carla Lonzi nell'ottobre del 1967 – un futuro c'è stato, proprio una trasformazione sulla fine del quadro, della pittura: l'arte portata in un fatto […] strutturale in senso filosofico. L'arte è andata su un concetto che io avevo sempre immaginato». È quel Concetto spaziale con cui titola sistematicamente le sue opere dalla fine degli anni quaranta e che implica non solo lo scavalcamento delle categorie disciplinari, ma anche il superamento della materia in direzione della componente immateriale, ideativa: «Li ho chiamati “Concetti” perché era il concetto nuovo di vedere il fatto mentale».

Nelle arruffate interviste di Fontana ricorrono spesso termini come “mentale” e “filosofico”, ma la filosofia non era pane per i suoi denti. Era invece affascinato dall'aura avventurosa della ricerca scientifica; e dall'astronomia in particolare: tra le fonti visive delle sue concezioni formali, come leggiamo alla voce Concetto spaziale, c'è il fortunato atlante fotografico di Pio Emanuelli, Il cielo e le sue meraviglie, pubblicato nel 1934. «La scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l'infinito. Allora buco questa tela che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita», dice ancora Fontana alla Lonzi. E a proposito dei tagli, in un'intervista a Grazia Livi: «sono soprattutto un'espressione filosofica, un atto di fede nell'infinito, un'affermazione di spiritualità».

Ma questa aspirazione alla purezza del cielo e alla concettualità del gesto artistico è solo un lato della sua personalità artistica. L'abbozzo di storia che personalmente ho trovato navigando nel Dizionario è la traccia di una persistente ambivalenza. Come il campo dell'estetica o della critica d'arte, anche Fontana vive una continua tensione tra due polarità opposte: da una parte, lo spazio immateriale del concetto e della luce, dall'altra la materia (l'argilla e tutti gli altri materiali che ha usato), carne colorata che le mani di Fontana percorrono, plasmano, fendono, graffiano, penetrano. La sua immaginazione d'artista è intrisa di questa fertile contraddizione tra la materia carnale e tattile e lo spazio luminoso e mentale.

È stato Enrico Crispolti, uno dei maggiori studiosi di Fontana nonché ispiratore di questo Dizionario, a evidenziare (quasi a dispetto della sua scrittura irta di faticosi termini astratti) anche il tema concreto dell'erotismo nell'opera dell'artista. Nelle Attese, titolo ufficiale dei “tagli”, non c'è soltanto la dimensione dello spazio al di là del quadro, c'è anche un «simbolismo erotico», una «astrazione analogica», ovvero l'evidente analogia con l'anatomia femminile. Difficile non vederla, ad esempio, nel ritratto che l'artista invia a Iris Clert, la sua fascinosa gallerista francese, pochi giorni dopo averla conosciuta: una Attesa dorata, sottotitolata Nudo, in cui il taglio nero attraversa la sagoma di un busto femminile.

Anche se i tagli verticali nel bianco assoluto degli ambienti allestiti per la Biennale nel 1966 e per Documenta nel 1968 indicano la dissoluzione nello spazio dell'astrazione pura e spirituale, non si può ignorare la suggestione erotica dei fendenti sulla tela delle Attese o delle penetrazioni nella materia argillosa delle Nature e nella carne rosata degli Olii. E ancora, se alla voce Arte sacra scopriamo la spiritualità di opere come quelle realizzate per il Centro Culturale San Fedele o delle più enigmatiche e metafisiche Fine di Dio, alla voce Nudo scopriamo che anche nel periodo dominato dall'astrazione lirica dei Concetti Spaziali, Fontana non ha mai smesso di disegnare nudi femminili: centinaia di fogli, realizzati la domenica con una modella: «Lo faccio per tenermi in esercizio. […] Anche per l'arte spaziale bisogna avere una cultura. Molti credono che le idee dei buchi e dei tagli vengono giù come la manna!». Una convivenza degli opposti, vissuta più con l'ironia del viveur che col senso tragico dell'esistenzialista: in una carta intelata del 1958, dove appaiono alcuni dei suoi primi tagli, campeggia la scritta «Io sono un santo», che sul retro diventa «Io sono una carogna».

Più sopra ho scritto che questo Dizionario può essere utile per tornare a guardare le opere di Fontana. Ma un libro voluminoso pieno di acribia storico-filologica e di riferimenti critico-interpretativi può davvero aiutare a guardare meglio? La risposta dipende dalla propria posizione rispetto alla polarità menzionata all'inizio. Sospetto che chi si identifica in Bergotte tenda a considerare irrilevante l'artista e il suo mondo, perché ciò che conta è soltanto la visione a cui l'opera apre, come fosse una finestra impersonale su una realtà nascosta del nostro esistere; mentre chi si identifica in Holmes o Dupin, sarà probabilmente d'accordo con Arthur Danto, quando diceva che «quel che è  interessante ed essenziale nell'arte è la capacità spontanea che ha l'artista di permetterci di vedere il suo modo di vedere il mondo». In questo senso, conoscere meglio Fontana e il suo mondo mi fa davvero guardare in modo diverso i suoi tagli e i suoi buchi. Mi fa sbirciare non la quarta dimensione o il fondo oscuro del reale, ma il nostro mondo con l'affascinante, contraddittorio sguardo di questo artista. Con la sua tensione tra lo spazio e la materia, l'infinito e la carne, il santo e la carogna.

In copertina: Lucio Fontana in uno scatto di Ugo Mulas.

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