Tinguely: macchine poetiche e IA
Una questione molto discussa di questi tempi è se la macchina, cioè l'intelligenza artificiale, possa fare arte. Questione assai impegnativa, vista la vastità e complessità dei termini in gioco. Possiamo però tentare un approccio più maneggevole partendo dalla macchina.
Un'ottima occasione per riflettere sul rapporto tra macchina e arte è offerta dall'Hangar Bicocca che ospita fino al 2 febbraio 2025 una bella retrospettiva di Jean Tinguely, il poeta delle macchine disfunzionali. E una delle opere in mostra è proprio una macchina che crea arte, costruita dall'artista svizzero negli anni in cui, per una curiosa coincidenza, dall'altra parte dell'Atlantico nasceva il programma di ricerca chiamato “intelligenza artificiale”.
I dadaisti credevano nella forza creatrice del caso; e come i surrealisti erano convinti che le coincidenze casuali fossero profondamente significative. Proviamo allora a prendere con spirito dadaista questa coincidenza e vediamo se questo loro nipote, bizzarro creatore di poesia “meccanica” ai tempi delle neoavanguardie, può dirci qualcosa sulla macchina “poetica” che sessant'anni dopo ci troviamo nelle nostre vite.
Immagino già le obiezioni: “Ma come! Gli sferraglianti assemblage di Tinguely sono una satira ironica della vecchia tecnologia meccanica, che in quegli anni diventava merce di massa e spazzatura della civiltà dei consumi: ruote, ingranaggi, pulegge, rottami da discarica, scarti di ferramenta, azionati da motorini di elettrodomestici dismessi. O tutt'al più una critica dell'egemonia disumanizzante della tecnica. Niente a che vedere con l'immateriale perfezione elettronica e digitale dell'attuale intelligenza artificiale!”.
Tutto vero. E le due opere poste all'inizio del percorso espositivo lo confermano in pieno. Sono due gigantesche macchine degli anni ottanta: sghimbesce catene di montaggio che mettono in moto ruote, bielle e ferraglie, macinando movimenti senza senso ed eseguendo una sinfonia di rumori casuali. Tra gli ingranaggi c'è anche un legno storto, una papera di plastica, un vecchio pianoforte, come a sottolineare la stralunata illogicità di queste macchine disfunzionali: enormi carillon cacofonici costruiti con residui di archeologia industriale.
L'aspetto teatrale e spettacolare dell'opera di Tinguely è quello che domina la mostra dell'Hangar Bicocca, concepita esplicitamente come «una scenografia sonora e visiva di opere cinetiche monumentali». Dopo le prime due grandi macchine, l'occhio è subito attratto dalla parete opposta dove spicca il monumentale Requiem pour une feuille morte (1967), che ne è quasi l'antitesi: invece del caos sferragliante, l'ordine inesorabile e mortifero dalla causa efficiente. È una piatta catena di montaggio completamente nera e retroilluminata, racchiusa in una struttura rettangolare: un'elegante composizione geometrica su fondo bianco che si muove in silenzio come un enorme ingranaggio d'orologio. Al suo interno, ruote di varie forme e dimensioni fanno oscillare ipnoticamente grandi bielle che assomigliano a lame. Gli ingranaggi ad altezza d'uomo evocano la macchina che inghiotte Charlot in Tempi moderni. L'unico elemento incongruo, appena percettibile all'estremità destra, è una piccola foglia bianca con un gambo a spirale, che una lama ricurva oscillante, invece di tagliare, fa ruotare avanti e indietro.
La metafora è fin troppo esplicita e rischia di finire nella retorica. Ma Tinguely se ne fregava di tutto, anche della retorica e dell'ermeneutica. Per lui ogni interpretazione andava bene e le sue macchine potevano essere qualunque cosa: protesta sociale, scherzo, satira e anche “non arte”. Inoltre, nella sua vastissima produzione, ci sono macchine di ogni tipo e carattere. Quelle nere della fine degli anni sessanta incarnano un'idea minacciosa della tecnica, come si vede bene nelle tre macchine singole presenti in mostra: sembrano armi che eseguono con perfezione maniacale pochi semplici movimenti, fissati nella coazione a ripetere del maniaco ossessivo.
Ma le macchine che meglio incarnano il senso dell'opera di Tinguely sono le opere più piccole, precarie e umoristiche della prima parte, nelle quali il movimento, tema fondamentale dell'arte di Tinguely, esprime tutta l'imprevedibilità del vivente. Tra di esse spicca il Meta-matic: infilando un gettone si mettono in moto gli ingranaggi di un buffo marchingegno inutilmente estroverso che con gran baccano manda a cozzare ripetutamente un pennarello su un foglio di carta fissato su una lastra in agitazione perpetua. Lo spettatore collabora alla creazione scegliendo i colori. Il risultato è un disegno astratto, frutto del caos meccanico. (Con cinque euro si acquista un gettone, si attiva la macchina e si porta a casa un'opera originale su carta timbrata).
Eccola qua, dunque, la macchina che crea arte da sola: artificiale senza intelligenza, ma con molta ironia e un pizzico di poesia. Di tutti i meccanismi costruiti da Tinguely, questo ironico distributore automatico di action painting è tra quelli che incarnano nel modo più immediato ed esplicito la poetica dell'artista. E nonostante la sua semplicità, mette in moto anche riflessioni utili per esplorare la questione citata all'inizio. Prima di esaminarle, però, diamo al suo autore l'attenzione che merita.
Nato a Friburgo nel 1925 ma cresciuto a Basilea, Jean dimostra subito un carattere indipendente e ribelle, come racconta Calvin Tomkins in The Bride and the Bachelors. Alla scuola preferisce i boschi, dove a dodici anni realizza la sua prima opera, che avrebbe sempre considerato la sua migliore: posiziona lungo un torrente una serie di piccole ruote idrauliche con meccanismi che sbattono contro lattine, bottiglie e altri oggetti rumorosi. Amplificati sotto le navate degli alberi diventano una bizzarra sinfonia pastorale di percussioni suonata dai rottami trovati nei vicoli di Basilea. Ci sono già gli ingredienti essenziali della sua poetica: il gioco, il macchinismo, la rivitalizzazione degli scarti, la musica del caso.
A quindici anni decide di partire per andare a difendere l'Albania dall'occupazione fascista, ma viene fermato al confine dalla polizia italiana e rimandato a casa. Il padre lo toglie dalla scuola e lo manda a lavorare in un grande magazzino dove si fa licenziare. Il suo successivo datore di lavoro, un decoratore di vetrine, nota le sue abilità e lo incita a frequentare un corso serale alla Kuntschule, dove trova il suo mentore: una giovane insegnante del corso sui materiali che gli fa conoscere i collage di rifiuti del dadaista Kurt Schwitters e il tema del movimento che attraversa molte avanguardie storiche, dal Futurismo all'arte cinetica di Naum Gabo e Laszlo Moholy-Nagy.
Nel '49 sposa un'ex compagna della scuola d'arte, Eva Aeppli, e due anni dopo si trasferisce in autostop a Parigi dove vive in “accettabile povertà”, lavorando saltuariamente come decoratore di vetrine e freneticamente alle sue macchine in movimento. Si inserisce subito nell'ambiente artistico e inaugura la sua prima personale nel 1954. Con sua sorpresa, le opere si vendono e i soldi finiscono tutti in materiali e motori per nuove opere.
I suoi primi lavori usano filo metallico ed elementi che ricordano l'astrattismo geometrico e i precari equilibri di Alexander Calder. Ma loro peculiarità è nell'effetto che le macchine realizzate con tali gracili strutture creano una volta messe in moto: una vitalità traballante e caotica che Eva vedeva come una parodia, irresistibilmente comica, degli orologi svizzeri, orgoglio della loro terra natale ossessionata dall'ordine. Non è un caso che avessero attirato l'attenzione di Bruno Munari, spingendolo a organizzare la prima mostra italiana dell'artista in quello stesso anno.
Nel '55 realizza le sue prime Machine à dessiner per la mostra Le Mouvement, nella quale è accanto agli esponenti storici dell'arte cinetica. Nel '58 resta molto colpito dalla mostra del “vuoto” di Yves Klein e in seguito entrerà a far parte del gruppo del Nouveaux Realistes, ma ne uscirà presto e nel 1970 ne celebrerà la fine col grande fallo pirotecnico auto-distruttivo eretto davanti al duomo di Milano.
Nel '59 presenta da Iris Clert i suoi Meta-matic, con successo trionfale. E altrettanto successo ottiene la gigantesca versione che presenta alla Biennale di Parigi, esposta all'esterno perché boicottata dagli astrattisti che lo considerano un ciarlatano. Il carattere teatrale delle macchine di Tinguely è accentuato dalle fantasiose performance ideate dall'autore, come nel caso del Meta-matic presentato a Londra sempre nel '59, azionato da due ciclisti professionisti che fanno a gara per sommergere la platea di rotoli di carta “dipinta”.
Il 1960 segna la consacrazione internazionale. Invitato a New York per una mostra ed eccitato dalla grande città che non ha mai visto e che immagina come il paradiso e l'inferno delle macchine, Tinguely progetta il suo Homage to New York: una grande macchina da presentare al MoMA, la cui unica funzione è distruggere se se stessa «in totale anarchia e libertà». Con l'aiuto di un vecchio dadaista entra in contatto con l'avanguardia newyorkese vecchia e nuova, tra cui Duchamp, che già conosceva e stimava Tinguely. I contatti sono utili per arrivare ai dirigenti del museo e il successo della sua mostra rompe le loro resistenze.
Il 17 marzo, il gigantesco ordigno viene trasportato nel giardino del MoMA: lungo sette metri e alto otto, completamente dipinto di bianco per essere più visibile in quella grigia serata, è fatto con decine di ruote di bicicletta, una vasca da bagno, una stampante in disuso, un vecchio piano meccanico, un pallone aerostatico e un bizzarro lanciatore di monete realizzato da Rauschenberg. Una volta messo in moto, dimostra immediatamente la sua imprevedibilità con una serie di malfunzionamenti da slapstick comedy. In mezzo al fumo, tra scosse e fremiti, tutti gli effetti percussivi si scatenano in un meraviglioso fracasso, il piano prende fuoco mentre ripete incessantemente una triste cantilena di tre note, un braccio meccanico fa rimbombare il tamburo di una lavatrice, un meta-matic si mette in moto a modo suo e finisce per far sventolare il suo rotolo di carta come uno sberleffo sopra il pianoforte in fiamme.
Tinguely è fuori di sé per la meraviglia e ride per gran parte del tempo. Non facendo quello che l'artista aveva previsto, la macchina ha incarnato in pieno la sua poetica: incidenti e malfunzionamenti contribuiscono alla meravigliosa, gioiosa libertà della macchina: “in totale anarchia e libertà”, com'egli l'aveva pensata.
È vero: si ride e si sorride spesso di fronte alla macchine di Tinguely. Bergson diceva che il comico è «il meccanico placcato sul vivente», cioè scaturisce da ciò che nell'uomo imita l'automatismo. Invertito specularmente, ciò vale anche per molti di questi eccentrici congegni: ci rispecchiamo nei loro movimenti e ridiamo dei loro continui e maldestri tentativi di imitare i nostri gesti, come i ripetuti inciampi di un clown. Di qui la loro vicinanza al gioco, e al divertimento infantile: l'arte è anche un gioco, un gioco serio come quello del bambino che si diverte con le costruzioni o che vede un cavallo nel manico di una scopa.
Ma torniamo al Meta-matic. Guardandolo in azione, i suoi ingranaggi neri e puntuti fanno pensare agli automatismi oscuri dell'inconscio che muovono il gesto dell'espressionista astratto. Lo conferma anche l'autore, rifilando una bella stoccata alla pittura informale allora dominante in Francia: la sua è un'opera «anti-astratta, perché dimostra che chiunque può fare un dipinto astratto, perfino una macchina». Il Meta-matic sarebbe dunque una presa in giro dell'arte come espressione del profondo, che con i suoi meccanismi “inconsci” crea opere sempre nuove e irripetibili.
Tuttavia, il principio fondamentale su cui si basa va ben al di là dell'intento parodistico e si ritrova in tutta la poetica di Tinguely. È lo sfruttamento artistico del caso, uno dei “trucchi” amati da dadaisti e surrealisti per ribellarsi al controllo razionale della coscienza. Con più ironia che ribellione, Tinguely fa un “uso funzionale del caso” rendendo traballanti e asincroni i meccanismi e instabile e non ripetitivo il movimento. È questo il vero “motore” dell'arte di Tinguely: l'anarchia ricavata dall'ordine ferreo della prevedibilità; la poesia distillata dall'ingegneria; la libertà della vita introdotta nella schiavitù deterministica della materia più rigida.
Nel Meta-matic, però, c'è un passaggio ulteriore: dopo aver insufflato nella macchina, grazie all'uso funzionale del caso, l'imprevedibilità del vivente, il potere “creativo” si trasmette, per proprietà transitiva, alla macchina stessa.
A prima vista, la creatività di questa ironica machina artifex non può essere altro che una parodia della creatività della machina sapiens che lavora dietro applicazioni “magiche” come GPT-4, Dall-E o Midjourney. La differenza sta ovviamente nell'intelligenza artificiale, che oggi è diventata “generativa”. Da una parte, l'azione creativa è limitata all'esplorazione casuale di movimenti meccanici; dall'altra, è in grado di esplorare enormi repertori di testi e immagini che possono contenere tutta l'arte moderna. Da una parte c'è il poeta che assembla rottami; dall'altra gli ingegneri che assemblano reti neurali addestrate a compiti complessi come la visione e il linguaggio. Da una parte c'è la fiamma ossidrica e l'immaginazione; dall'altra una matematica diabolicamente complessa.
Tuttavia sappiamo che quella matematica fa un uso essenziale della teoria della probabilità, la quale permette, in un certo senso, di addomesticare il caso. È come se l'utente del Meta-matic, invece di scegliere soltanto il colore, potesse plasmare l'aleatorietà degli ingranaggi e indirizzarla verso un certo tipo di risultato, a sua scelta, imitando qualunque stile e non solo quello, facilmente “meccanizzabile”, dell'action painting. Il prodotto finale è frutto di una cooperazione attiva della macchina e dell'utente, anche se il giudizio sulla qualità può essere espresso solo dall'uomo.
Ritroviamo dunque anche qui l'uso funzionale del caso e l'imitazione. Forse, nonostante tutta la sua intelligenza, la machina sapiens continua a usare gli stessi ingredienti della sferragliante macchina di Tinguely. Certo, l'eccezionale virtuosismo dei suoi risultati non ha paragoni, ma per quanto riguarda l'arte, non dobbiamo farci distrarre dalla facile analogia tra macchine che dipingono. Il vero nocciolo sta altrove.
Nel caso di Tinguely l'opera è la macchina stessa, e nell'eccentricità dei suoi bizzarri congegni c'è la personalità inimitabile del poeta con la fiamma ossidrica, e il suo anelito alla libertà: «La macchina è soprattutto uno strumento che mi permette di essere poetico. Se la rispetti, se ti metti in gioco con la macchina, allora forse riesci a fare una macchina davvero gioiosa – e con gioiosa intendo libera».
Insomma, dentro l'opera c'è l'artista e la sua unicità, che nessuna imitazione, per quanto creativa e intelligente, può sostituire.
Jean Tinguely, a cura di Camille Morineau, Lucia Pesapane e Vicente Todolí con Fiammetta Griccioli, Pirelli Hangar Bicocca, fino al 2 febbraio 2025.
In copertina, opera di Jean Tinguely.