Cioran, Il nulla è per tutti

4 Settembre 2024

Sorprende, ma non troppo, che l’apocalittico Cioran, in questa antologia di lettere appena pubblicata (Emil Cioran, Il nulla per tutti. Lettere ai contemporanei, Mimesis 2024), si mostri uomo attento e gentile, capace di corrispondere in modo affettuoso con l’interlocutore. La sua immagine di filosofo tragico e senza speranza, autore di eleganti e crudeli aforismi, ne esce non conforme alle attese, ma coerente con la sua fiducia nell’uomo e non nell’umanità.

In L’inconveniente di essere nati scrive: “Il pensiero della precarietà mi accompagna in ogni circostanza: stamane, imbucando una lettera, mi dicevo che era indirizzata a un mortale” (NPT, p. 7). Ogni lettera ha il dono, unico e splendido, di cercare e trovare il proprio lettore. Come queste righe scritte a Elie Wiesel per il suo libro Entre deux soleils: “Parigi, 12 maggio 1977 [...] Lei ha il dono di stimolare il lettore e di metterlo subito di fronte all’intollerabile. La vista dei mendicanti di Sighet, gli unici sopravvissuti, sfida l’incubo e persino l’allucinazione. È evidente che un popolo la cui storia offre tali estremi non sfuggirà mai alla difficoltà. Per questo il suo timore è comprensibile e, purtroppo, legittimo. Nelle quattro pagine che lo esprimono, lei agisce come un profeta. Speriamo che il futuro non ratifichi le sue ansie! Ma in questo caso non si tratta di ansia, bensì di certezza, e ciò che amo di più in lei è il coraggio disperato con cui affronta ciò che conosce” (NPT, 242). Del disperato coraggio di affrontare ciò che conosce è stato, e sempre sarà, testimone Emil Cioran. I mendicanti rumeni di Sighet, vittime del genocidio antisemita, occupano la sua mente con un dolore assoluto, a lui familiare, che non troverà sollievo in nessuna parola.

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Ma è la lettera al giovane poeta Paul Celan, che condivide la sua stessa nazionalità, a stupire per la sua natura luminosa: un inno alla bellezza della poesia che oltrepassa ogni barriera: “Parigi, 8 gennaio 1959. Mio caro amico, grazie per avermi inviato le poesie di Osip Mandel’stam, così mirabilmente tradotte da lei. Questo poeta di cui fino a oggi non sapevo nulla, nemmeno il nome, l’ha scoperto o era già conosciuto? Come sta procedendo? Quanto a me, godo, come si suol dire, di salute piuttosto cagionevole, e trascino miseramente i miei giorni. Se ne ha voglia, forse potremmo vederci prossimamente?”. In un breve scritto ancora sul poeta, Cioran scrive: “Celan, in una chaise-longue, si sforzava di essere gaio e non ci riusciva. Aveva l’aria impacciata, l’aria di un intruso, come se quello splendore non fosse per lui. ‘Che cosa cerco qui?’ doveva pensare. E, in effetti, che cosa cercava nell’innocenza di quel giardino, lui colpevole di essere infelice e di non trovare da nessuna parte il suo luogo?” (FC, p. 48)

Cioran è anche prodigo, nelle sue lettere, di consigli affettuosi, come questo rivolto a Susan Sontag: “Parigi, 13 gennaio 1988. Cara Amica. Amo queste pagine su Wagner e Thomas Mann. ‘Ho accumulato divinità’, questa frase riassume e corona le sue infatuazioni e le sue disillusioni. Deve diventare il titolo del suo prossimo libro. Lasci che le dica quanto sono felice di rivederla e di trovarla così in forma, scandalosamente giovane. Con affetto, Cioran”. Anche se Susan Sontag non avrebbe mai scritto un libro con questo titolo, commuove che il filosofo trovi dentro di sé l’impulso di suggerire alla scrittrice il titolo di un libro futuro. Gli entusiasmi, come lampi, percorrono questo libro epistolare, dove ogni lettera sembra davvero una carezza, una stretta di mano, senza che mai si scivoli in pericolosi dettagli personali.

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Scrivendo a Jean-Paul Jacobs, Cioran accenna alla difficoltà di parlare realmente di sé e della propria vita perché si sente obbligato, poeticamente, eticamente, a dire sempre e soltanto la sua tragica visione del mondo: “Talvolta mi pento di non essere uno scrittore, intendo dire qualcuno capace di soffermarsi sui dettagli o sugli avvenimenti: in ogni caso, non potrei mai parlare della mia storia, della materia della mia vita: le mie avventure sono state assimilate dalla mia visione del mondo, sono svanite nei miei interrogativi e nelle mie paure” (NPT, p. 135). In sintesi Cioran cerca, con la sua scrittura, a ogni nuovo aforisma, a ogni nuovo libro, di ri-considerare il mondo al di là della propria vita e, a ogni istante, testimoniarsi ‘sradicato’ dal flusso delle cose esistenti. Come rivela in una missiva a Maria Zambrano: “Inoltre, questa vita folle di Parigi, questa sensazione di detenzione in mezzo al mondo, di irrespirabile. Propriamente e metaforicamente. Ciò che più amo di lei è che ha pensato e meditato molto all’idea di futuro, all’unica cosa che l’uomo non avrà” (NPT, 250).

Uno dei suoi libri più celebri, Sommario di decomposizione, Cioran voleva chiamarlo con un titolo diverso: Il manuale del povero diavolo. I personaggi della sua umanità sarebbero sempre stati “affetti da ogni genere di infermità segreta, bocciati a tutti gli esami di questa terra, gente che si trascina dietro il suo recente o antico smarrimento”. Lo scetticismo dissacrante, il disinganno quotidiano, la masochistica amarezza: ecco le armi di questo paradossale profeta che, mentre trova come unica soluzione alla vita il suicidio, appresta, come antidoto involontario, il resoconto minuzioso della disperazione. “Ogni principio d’idea coincide con una sofferenza, per predilezione segreta” (QT, p. 10) Ma dalla sofferenza non è disgiunta la gentilezza rara del rapporto epistolare, uno dei modi che il pensatore predilige per distanziare la tanto disprezzata umanità e avvicinarsi, con lo schermo trasparente delle parole, a quelle individualità che ancora lo appassionano, sempre segretamente. “Forse è meglio non spiegarsi, non dare a se stesso la chiave del proprio destino. Agli altri di trovarla – se credono meriti di essere cercata” (FC, p. 26).

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In una lettera ad Alain de Benoist scrive: “...Mi ha chiesto perché non mi uccido: potrei a mia volta chiederle perché lei condivide determinate chimere (la parola è sua) sino al punto di proclamarle, di organizzarle in corpo di dottrina. Più penso al futuro, meno capisco come si possa aderire a qualunque cosa (NPT, p. 99). Il nichilismo del pensiero cioraniano contesta le “magnifiche sorti e progressive” già disprezzate da Leopardi ing La ginestra, e destruttura ogni fede che si configuri come pura ideologia. Tutto è e resta vanitas. “Più invecchio e meno mi diverto a fare il piccolo Amleto. Già non so più, riguardo alla morte, quale tormento provare” (SA, p 52).

In una lettera a Jean-Paul Jacobs osserva: “La cosa buona di quello che fa è la costante esasperazione, il bisogno di distruggere un’affermazione nello stesso istante mentre viene formulata (questo è il suo lato ‘mistico’ o ‘diabolico’). Nelle pagine in tedesco l’ho riconosciuta nelle variazioni sull’Ende, che completano quelle sul vuoto nel testo francese” (NPT, p. 138). Quando Cioran parla di ‘insonnia senza fine’ e di ‘solitudine totale’ parla proprio di questo: della mancata indulgenza verso ogni forma di conforto spirituale che la vita potrebbe suggerire, negli stati estremi in cui solitudine e insonnia annientano l’essere umano. Per il pensatore rumeno avvicinare ‘mistico’ a ‘diabolico’ è uno scherzo crudele: lucidità, chiaroveggenza, vigilanza estrema, gli strumenti della sua riflessione.

In una lettera del 1989 ad Alice Laurent, discendente del filosofo russo Lev Šestov, il maggiore rappresentante della ‘filosofia del sottosuolo’, scrive: “Gentile Signora, Lev Šestov mi ha reso un enorme favore: mi ha liberato dall’idolatria della filosofia. Dovrei aggiungere: da tutte le idolatrie. Arrivato in Francia nel 1937, avrei voluto incontrarlo, ma non ho voluto disturbare un solitario senza uguali. A rischio di deluderla, sarò solo uno spettatore durante le giornate in questione. La colpa è del Maestro stesso, che mi ha insegnato l’arte di restare al di fuori di tutto” (NPT, p. 153). Punto di partenza di Šestov non è una teoria filosofica ma l'esperienza della perdita, del venir meno delle certezze, della libertà, del senso. Pensare la perdita come necessità del vivente è anche il fulcro della poetica cioraniana, a cui non è mai estraneo il disincanto. Scrive il filosofo: “L’insonnia è la sola forma di eroismo compatibile con il letto” (SA, p. 117): ironico commento alla passività dell’attività filosofica. In un suo testo inedito Ilaria Palomba, riflettendo sul sorriso di Cioran, osserva: “Amo quel sorriso, la complicità cosmica; qualcosa di beffardo nell’ironia affatto gioiosa ma leggiadra, dissacrante, di chi ha compreso gli equilibri e i disequilibri, restando tra gli altri con quel misto di tragedia e ironia. Una parola capace di indurre alla riflessione socratica: dire senza mai dire troppo; il lavoro di comprensione ciascuno deve farlo da sé, è la strada individuale prima che sistemica”.

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Come sempre, discutere intorno a Cioran non induce al cosmico pessimismo di cui sono portatrici sane le sue parole. “Solo i chiacchieroni e i taciturni raggiungono la follia: quelli che si sono svuotati di ogni mistero e quelli che ne hanno immagazzinato troppo” (SA, p. 118). La tragica gentilezza che il filosofo mostra verso i suoi interlocutori non si disgiunge da un occhio lucido e spietato nella sua acuminata eleganza di osservatore. Scrivendo a Ben Amì Fihman osserva: “Fa molto bene a tenere un diario, che sarà necessariamente un modo per vincere le sue sofferenze. A che cosa serve l’espressione? A dimostrare che non si lascia abbattere e che è al di sopra delle sue miserie. Inoltre, lei ha in più il senso del ridicolo e questo dono renderebbe tollerabile anche l’inferno. Ho sopportato il mondo e il mio orrore per il mondo, facendomi beffe sia del mondo sia dell’orrore che non ha mai mancato di ispirarmi. Sia gentile e mi tenga informato delle cure che sta ricevendo e di come le sta sopportando. Credo di averglielo già detto: legga Marco Aurelio di tanto in tanto. Tossiva sangue, poveretto, mentre scriveva le sue malinconiche riflessioni in una tenda vicino a Vienna nel cuore della notte, e di giorno combatteva contro i barbari” (NPT, p. 109).

Forse è proprio questo il modo per “combattere i barbari” anche quando le lotte si sono placate: scrivere l’indipendenza del proprio pensare. “A ciascuno la sua follia: la mia fu quella di credermi normale, pericolosamente normale. E poiché gli altri mi sembravano pazzi, ho finito con l’aver paura, paura di loro e, ancor più, paura di me stesso” (SA, p. 121). Scrivere tenendo stretta una certezza: che “il nulla” è “per tutti” e nessuno sfuggirà alla sua ineluttabile vittoria. Chi si è beffato sia del mondo che del suo orrore per il mondo, è destinato a una fragile pace, racchiusa nell’enigma di una lettera, nella gioia di un messaggio.

Nel 1994 scrive a Gérard Binda: “La mia vecchiaia mi pesa. Cosa posso fare? Non c’è soluzione. Se ce ne fosse una, l’avrei trovata. Ho fatto un grosso errore, non avrei dovuto smettere di scrivere. È stato un errore molto grande. Non si può vivere senza illusioni, senza lo stimolo di quelle bugie letterarie che sono indispensabili nell’estrema vecchiaia” (NPT, p. 49). Cioran affida al rapporto epistolare questa intima e perentoria confidenza: la “bugia” della scrittura, la “finzione” dell’arte, come linfa segreta di cui non si potrà mai fare a meno, soprattutto nei giorni estremi della vita. “Quando sono esauriti i pretesti che esortano all’allegria o alla tristezza, si giunge a vivere, l’una e l’altra, allo stato puro: è così che ci si affianca ai folli” (SA, p. 118).

Libri consultati:

Emil Cioran, Sillogismi dell’amarezza, a cura di Mario Andrea Rigoni, Adelphi, Milano 1993 (SA).

Emil Cioran Fascinazione della cenere, a cura di Mario Andrea Rigoni, Il notes magico, Cittadella 2005 (FC).

Emil Cioran, Quaderno di Talamanca Ibiza, a cura di Domenico Brancale, Edizioni L’Obliquo, Brescia 2011 (QT).

Emil Cioran, Il nulla per tutti. Lettere ai contemporanei, a cura di Vincenzo Fiore, Mimesis, Milano-Udine 2024 (NPT).

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