Pigozzi: godimento senza desiderio

21 Dicembre 2024

La gloria e l’abisso.

Generazioni sintomatiche alla ricerca di godimento senza desiderio popolano il nostro presente e manifestano esperienze gloriose e catastrofiche, o caratterizzate dall’indifferenza e, quindi, dalla sospensione eccessiva della risonanza con gli altri. È la crisi del legame sociale che ricade nei mondi interni causando vuoti senza orrori di sé stessi, per il narcisismo che li accompagna e che non ce la fa a compensare, ovviamente, quei vuoti. Siamo di fronte a quella che Laura Pigozzi chiama la vera malattia del secolo: la dipendenza psichica su cui si innestano vecchie e nuove droghe [L’età dello sballo. Giovani, droghe, psicofarmaci, tra conformismo e dipendenza, Rizzoli, Milano 2024]. L’unico luogo sicuro sarebbe un senso di sé, ma è come prescrivere il sintomo, come indicare una mappa per uscire dal labirinto, mappa che contiene proprio la via che non c’è.

Una condizione di “adultescenza” prende piede nell’esperienza e nei comportamenti. Mai come oggi un neologismo coniato alcuni anni orsono da Luigi M. Pagliarani mostra la propria attualità. Le sue basi sono ravvisabili nel funzionamento del Nucleuo accumbens, un’area del cervello e del sistema della ricompensa. Il sistema limbico è connesso con il Nucleo accumbens e riceve proiezioni dopaminergiche dal mesencefalo, partecipando quindi al sistema di ricompensa. Il sistema di ricompensa dal punto di vista anatomo-funzionale è una struttura complessa che si origina nei nuclei profondi dell’encefalo ed è distribuita nei centri cerebrali preposti al comportamento motivazionale ed emozionale. La sua azione si configura, perciò, in un rapporto circolare fra dopamina, gratificazione e dipendenza. Ogni qual volta si prova gratificazione, sia di tipo fisico che di tipo psicologico, il sistema di ricompensa rilascia dopamina, un neurotrasmettitore molto potente che funge da rinforzo. Il circuito di ricompensa spinge ad adottare e ripetere quei comportamenti che hanno dato piacere e innesca il noto meccanismo della dipendenza. La velocità compulsiva e l’insoddisfazione sistematica, quando prendono il sopravvento, accelerano i processi e non favoriscono il consolidamento di una base sicura. Ogni volta c’è quella che appare come la più sicura delle basi e come tale viene esibita, per dissolversi come neve al sole alla prima occasione, finendo nella rimozione e nella dimenticanza. Come si incontra nel verso di uno dei poeti contemporanei più incisivi, la dimenticanza fa rima con l’inaccessibilità al progetto e al futuro: “Questa è dimenticanza: che ricordi il passato e non ricordi il domani della storia”, scrive Mahmud Darwish.   

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Cédric Le Borgne, La donna invisibile, Fotografia di Giacomo Bianchi.


Il furore effimero

Fare della vita un’opera. Keith Haring ha detto di Jean Michel Basquiat che “usava il pennello come un’arma”. Pochi riescono a rivolgere quell’arma verso un’opera e a dipingere o scolpire un capolavoro, a fronte dei molti che non sono in grado di riconoscersi e dare un senso a sé stessi, pur non dismettendo il proprio furore, tanto effimero quanto doloroso e spesso autodistruttivo. Anche se noi stessi abbiamo messo seriamente in discussione il costrutto di identità [Cfr. V. Gallese, U. Morelli, Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024], siamo qui di fronte a una sorta di ‘identità a riscrivere’, in cui ogni persistenza di un’individuazione di base scivola in un’ansia performativa continua, e a quella che abbiamo chiamato diventità fa difetto un appiglio relazionale almeno in parte sicuro. Sì, perché c’è sempre contemporaneamente un bisogno di individuazione e uno spazio noi- centrico da cercare di far convivere per una vita sufficientemente buona. Per questo sarebbe necessario un esame di realtà, ma è proprio la realtà da esaminare che è sfuggevole insieme alla carenza di codici per costruirne una mappa attendibile e almeno in parte affidabile e rassicurante. Gli aspetti cerimoniali, quasi liturgici e acclamatori, che emergono, certo, nei casi più eclatanti dello star system mediatico, sono i pilastri dello spirito del tempo e i feticci irraggiungibili per i più. Nell’esperienza dei molti ne vediamo manifestazioni meno appariscenti e più edulcorate, ma costituiscono modelli pervasivi di riferimento mediati dalla semiosfera digitale in cui trascorre il tempo vissuto e che è fonte di significati attraenti, quanto effimeri. Quegli aspetti rituali e cerimoniali finiscono per comporre un mosaico, – o meglio sarebbe dire – un labirinto glorioso, fatto di sballi, tatuaggi sul corpo, disforie corporee e graffiti sul mondo, nel quale naufraga ogni individuazione almeno in parte stabile.

Siamo di fronte a una sorta di feticismo, dove il feticcio non è tanto la merce ma la trasformazione di sé stessi e del proprio corpo in merce fungibile. Il concetto di feticismo, come noto, ripropone il problema delle apparenze, cioè dello scarto esistente tra l’essere sociale e le immagini nebulose e fantastiche attraverso cui l’essere sociale si vede ed è visto e concepito. Secondo Freud il feticismo è un’operazione psichica dove la parte sostituisce il tutto. Il feticismo oggi è in aumento per cui siamo di fronte a un tema di grande attualità dove il problema è capire il potere sostitutivo che ha la merce nella soddisfazione del bisogno e nel suscitare il desiderio. In realtà il processo di feticismo delle merci sta sempre più portando al primato dello spettacolo in tutti i campi della vita, fino a una spettacolarizzazione della vita stessa. Un esempio è il narcisismo dei social. Se siamo tutti spettatori di una comunità immaginaria fatta di individui soli, finisce per andare in crisi la rilevanza e la complessità del legame sociale, che invece è sempre stato fondamentale per favorire lo sviluppo delle facoltà individuali e il valore stesso dell’esperienza. Per rispondere alla domanda su cosa sia il feticismo oggi, secondo Alfonso Maurizio Iacono che ne ha attualizzato l’analisi, dobbiamo fermarci e guardarci intorno. Siamo letteralmente circondati da feticci, cioè da oggetti ai quali attribuiamo qualità che appartengono alle relazioni umane e che, proprio in virtù di queste qualità, pur mostrandosi identici, ci appaiono diversi da ciò che sono. In questo processo, le cose inerti diventano vive e allo stesso tempo si impongono, fascinose, sulle persone. Una delle conversioni dell’incidenza attuale e del costrutto di feticismo si può rilevare a proposito del rapporto con il corpo e con sé stessi. Laura Pigozzi individua, con la sua consueta modalità esplicita e tagliente, alcuni aspetti di questo processo, come quando descrive l’evoluzione, o meglio sarebbe dire l’involuzione, delle dinamiche relazionali genitori-figli, ponendole in associazione con la dipendenza e le sue diverse forme: “Impauriti dal mostro dell’incuria, secondo cui tutte le sofferenze dei figli deriverebbero dall’assenza di attenzioni, dall’abbandono e da uno scarso attaccamento – condizione prevalente ai tempi in cui lo psicologo John Bowlby ne scriveva –, i genitori e gli operatori non si sono ancora sufficientemente accorti che l’eccesso di attaccamento, di zelo e di presenza – in una parola, di plusmaterno famigliare – sta creando patologie gravissime e nuove, che non sappiamo ancora affrontare in maniera convincente e strutturata, tra cui insicurezze letali che gli adolescenti credono di poter riparare con l’uso di sostanze” [pp. 197-198].

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Di fronte alle dipendenze

Il percorso di Laura Pigozzi si snoda a partire dall’analisi delle dinamiche familiari di fronte alle dipendenze, per giungere ad analizzare le ragioni che rendono così difficile uscire dalle dipendenze. L’approfondimento critico di alcune ideologie che accompagnano i modi di intendere e affrontare le dipendenze permette di comprendere che è opportuno guardare ad esse da un punto di vista interno ai soggetti e alle dinamiche relazionali che sottendono ai processi di individuazione. Non sono trascurate dall’autrice le cosiddette altre dipendenze, dagli psicofarmaci, al cibo, all’alcol, a internet, allo sport, fino alla presentazione dei dati dell’Osservatorio europeo. La scrittura decisa e senza equivoci e la chiarezza espositiva ci mettono di fronte a uno stile narrativo denso di suggerimenti diretti e indiretti sugli errori da evitare perché nei processi di allevamento, educazione e cura dei bambini e delle bambine, delle adolescenti e degli adolescenti non si creino le condizioni per finire nell’età dello sballo. Uno dei tratti distintivi del contributo di Laura Pigozzi consiste nel costante dialogo che stabilisce tra l’esperienza terapeutica con le pazienti e i pazienti e i risultati più recenti delle ricerche di neuroscienze affettive e cognitive. L’autrice ribadisce in più parti del libro la necessità di individuare i correlati neurofisiologici delle complesse fenomenologie della dipendenza, nel tentativo di dipanare una matassa interpretativa particolarmente scivolosa e intricata. Così come i contenuti clinici e scientifici del libro non mancano di continui riferimenti agli aspetti economici e sociali delle dipendenze, con un orientamento critico verso le forme di vita consumistiche, individualistiche e alienanti proprie del tardo-capitalismo. “Godere senza desiderare è la cifra di una civiltà drogata”, dichiara in modo schietto Laura Pigozzi all’inizio del proprio lavoro, per proporre poi l’individuazione di quattro elementi che dal suo punto di vista caratterizzano la dipendenza, che si articoleranno nello sviluppo di tutto il libro: l’oggetto da cui la dipendenza si origina, l’infanzia del soggetto, le relazioni che riesce o non riesce a instaurare in adolescenza e, da ultimo, il modo in cui egli attiva il circuito cerebrale della ricompensa. L’esplicita dichiarazione che nei primi mille giorni la madre può trasmettere, insieme al nutrimento e all’educazione, il sentimento della vita, uno dei più potenti antidoti alla dipendenza, rende evidente la dimensione eminentemente relazionale del fenomeno e il fatto che lo stesso processo di individuazione di ogni vita si esprime ed è intimamente connesso ai modi e alle vie con cui ognuno di noi elabora il rapporto tra autonomia e dipendenza. Se il paradosso della dipendenza sta nel “bramare ciò che ci fa male”, la dipendenza viene definita “un morbo che vorrebbe infettare tutti soprattutto quando è usata come supporto essenziale per far girare una certa economia”. Sono molteplici i dispositivi contemporanei orientati e finalizzati a causare dipendenza, pensati per il godimento immediato, quello che poi richiede un successivo godimento fino a generare un chiaro processo di infantilizzazione che è funzionale al mercato. Contrariamente a quanto generalmente si ritiene “non è solo l’assenza a provocare il vuoto nel quale la dipendenza si genera, ma anche l’iperpresenza che è sempre assenza di cura. L’ipercura infatti è una forma di abuso. Quando diciamo che un tossico dipendente riempie i buchi con la sostanza non dobbiamo pensare solo ai buchi lasciati da una famiglia assente, ma anche a quelli lasciati dalla famiglia iperpresente” [p.15]. Incontriamo qui uno dei temi caratterizzanti il percorso di ricerca e applicazione di Laura Pigozzi che si è sviluppato nel corso del tempo con particolare attenzione agli effetti indesiderati delle dinamiche affettive, dagli amori tossici e ai meccanismi che stanno alla base dei processi che generano dipendenza. Quei meccanismi hanno un’origine molto precoce, fin dalla fase prenatale e perinatale, come evidenzia l’autrice richiamando l’importante contributo di uno dei più rilevanti studiosi italiani che ha correlato la psicoanalisi alle neuroscienze, Mauro Mancia. “Le relazioni pre e post natali del bambino costituiscono la sua esperienza affettiva precoce e sono capaci di condizionare l’incontro delle predisposizione di un essere umano con la realtà” [p. 23]. Nel condizionamento può intervenire anche l’allattamento, come una possibile radice della dipendenza, evidenziando la concretezza del ruolo della madre come trasmissione del sentimento della vita. Nella socialità precoce del bambino interviene naturalmente anche il ruolo del padre, e dall’equilibrio che si genera nella triade madre, padre, bambino, dipendono significativamente le effettive possibilità di non finire in quella che Laura Pigozzi chiama “l’alienante ruota del criceto” che attiva il circuito cerebrale della ricompensa, circuito cardine della dipendenza.     

Rimettere in moto i desideri

Gli anelli che sottendono alla genesi delle dipendenze e alle difficoltà di uscirne possono essere ricondotti a tre, quello neurologico, quello psicoanalitico e quello epigenetico. Quest’ultimo, secondo l’autrice, offre una prospettiva sul futuro sia per il soggetto che per la sua progenie in quanto, in base all’epigenetica, la branca della scienza che dimostra quanto i cambiamenti nella vita modifichino l’espressione genica di ciascuno di noi influenzando le dinamiche ereditarie, è per noi possibile cambiare. A ciò concorre anche la neuroplasticità. Il libro contiene un’importante analisi del ruolo delle droghe cosiddette leggere e di quelle pesanti, cosicché ci si trova di fronte alle approssimative analisi con cui spesso si considera il ruolo della cannabis, e allo stesso tempo al grande problema relativo all’invenzione di nuove sostanze chimiche che laboratori sparsi per il mondo creano nella misura di più di mille molecole l’anno per aggirare le leggi. Quelle molecole portano a overdose per le quali non sembra ci siano antidoti. Ma anche gli psicofarmaci, il cibo, l’alcol, Internet, e la dipendenza dall’eccesso di attività sportive, sono annoverate nelle cause di dipendenza, con una particolare attenzione dedicata a quelli che sono definiti gli psicofarmaci da sballo. L’analisi di Laura Pigozzi è qui dettagliatissima e propone al lettore una mappa di particolare utilità per confrontarsi con i propri comportamenti, anche con quelli che si propongono spesso come attività innocue, ma per la crisi del legame sociale e per la diffusa alienazione che caratterizza l’esperienza quotidiana, possono divenire cause di dipendenza significativa o particolarmente grave. Il punto cruciale per affrontare i problemi della dipendenza è la prevenzione e, secondo l’autrice, la prevenzione si fa soprattutto in famiglia. La neonatalità e l’infanzia possono diventare importanti fattori di rischio per lo sviluppo delle tossicomanie. In adolescenza una vita ricca di relazioni evolutive con i pari e libera da atteggiamenti genitoriali invasivi, con adeguati compiti di crescita che sostengano la progettualità, può favorire un’individuazione sufficientemente buona.

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