Tornare a casa

18 Maggio 2024

Più o meno palesemente si insinua nel presente un ricorso a categorie misteriche, mitologiche, magiche, che sempre più spesso sono richiamate per tentare di affrontare il tempo da fine epoca che stiamo attraversando. Se è legittimo sostenere che il mito e la scienza sono sempre stati compresenti e entrambi ci aiutano a conoscerci e a conoscere il mondo; se si intende andare oltre la dicotomia ideologica che colloca la ragione scientifica da un lato e la mitografia e le manifestazioni dell’irrazionale dall’altro; se si intende, insomma, superare l’assoggettamento allo scientismo razionalista, allora è quanto mai necessario fare una distinzione la più possibile rigorosa. Se, per intenderci, parlando di magia, di manifestazioni irrazionali, di mito, ci riferiamo a produzioni del corpo-cervello-mente di noi umani nella nostra storia culturale e personale, è un conto; se finiamo per annettere a quei fenomeni uno statuto a sé stante e una loro istanza che li reifica e supera l’umano, è un altro conto. La crisi della ragione e il fatto che ne stiamo conoscendo meglio i limiti e le capacità, non può prescindere, secondo noi, da due condizioni di base: che solo con la ragione si può comprendere e criticare la ragione; che solo un approccio naturalistico ci può permettere di conoscere, con tutti i limiti della nostra capacità di conoscere, noi stessi, la realtà e il mondo. Per via naturalistica allora avremo la possibilità di comprendere qualcosa di più delle manifestazioni che definiamo magiche o misteriche, o mitiche, come espressioni del nostro corpo-cervello-mente e della complessa combinazione dei vincoli e delle possibilità di quel sistema in relazione con gli altri e il mondo. 

Da un lato sembra importante non ridurre le esperienze come i sistemi di credenze, le cosmologie, la magia, la metafisica, il mito, al grado di superstizione. La nostra è una specie alla costante ricerca di significato e sarebbe impossibile comprendere chi siamo e come ci comportiamo senza la nostra dimensione simbolica e le sue molteplici e ricchissime espressioni e manifestazioni. Oltre al rischio di scadere in una visione del tutto impoverita della nostra ricchezza immaginativa e simbolica. 

D’altro lato, però per riconoscere tutto questo non è né necessario, né auspicabile, consegnarsi ad ammissioni di attendibilità e ad attribuzioni di validità dimostrabile riguardo a quei fenomeni. La loro importanza analoga alla nostra biologia e alla nostra corporeità sta nell’essere decisivi elementi analizzatori del nostro modo di essere, in quanto espressioni della nostra complessità; in quanto proprietà emergenti, a queste ultime non riducibili, delle nostre proprietà costitutive.

Il metodo scientifico è la via per non impazzire e far vivere la democrazia.

Possiamo volare con la nostra immaginazione e giungere ad autoelevarci riconoscendo parti di noi che mai avremmo incontrato senza certe esperienze anche traumatiche e certi incontri, per tornare a noi stessi e scoprire l’immanenza di quanto abbiamo vissuto e scoperto. Fatti come siamo per creare mondi paralleli al mondo in cui siamo situati con la nascita e la nostra storia, nell’immaginazione e nella finzione possiamo ritrovarci e ancora una volta riconoscerci. È al palazzo di Glinda che Dorothy, la protagonista del Mago di Oz, scopre di avere sempre posseduto gli strumenti per tornare a casa: quelle scarpette d’argento che, infatti, possono portarla ovunque. Ma le scopre nel palazzo e sono le scarpette che la riportano a sé stessa, o è dentro lei che si trova e ritrova la via? “…e una finestra si apre nella sua psiche, sulla profondità dell’essere”, scrive Carla Stroppa a pagina 26 del suo libro La magia del ritorno. Sulle tracce del Mago di Oz di Frank Baum, [Moretti&Vitali, 2024]. 

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In realtà alla fine della lettura del libro, il testo di Baum, per quanto famoso e importante, sarà stato solo un pretesto. Ricchezza di contenuti ed eleganza nel modo di porli fanno di questo libro un inatteso e sorprendente percorso nella psicologia umana e, in particolare, nei sentieri che si possono seguire per inventarsi, arrivare a sé stessi ed esserci. Devo riconoscere che per tutta la lettura del testo mi ha fatto compagnia una delle più note e profonde poesie di T. S. Eliot, contenuta nei For Quartets

“Non smetteremo di esplorare. / E alla fine di tutto il nostro andare / ritorneremo al punto di partenza / per conoscerlo per la prima volta”.

Mi accorgo che scrivo in prima persona e sento che per scrivere di questo libro non potrei fare diversamente, tale è la risonanza che il testo invoca ed evoca nel mio percorso esistenziale. Soprattutto per la capacità dell’autrice di trattare una materia incandescente come la profondità emozionale e magica del vivere, senza concedere nulla a una moda molto diffusa anche tra gli addetti ai lavori, di abusare di quelle dimensioni manipolandole e scimmiottandole. Una presa di distanza non solo praticata nella narrazione ma anche esplicitamente dichiarata: un progetto scientifico e politico di particolare momento e rilevanza. Oggi che mito, magia e misticismo pervadono l’era digitale in un miscuglio tra millenarismi e divinità occulte, una felice combinazione tra scienza e cultura umanistica che non pretenda di definire una supremazia di una sull’altra può essere particolarmente feconda. Seppur facendolo si sa di “consegnarsi alla marginalità e alla resistenza”, di cercare “di sopravvivere alla disumanizzazione provocata dai venti tossici che circolano oggi nel mondo”. Si procede in tal modo ciechi di fronte all’ovvio, pur di evitare il confronto tra la visione cosciente e le stratificazioni inconsce che risultano incapsulate nel corpo emozionale e nella cosiddetta memoria implicita, che di fatto è un doppio fantasmatico e pluristratificato della memoria cognitiva. Sono l’arte e la psicoanalisi che, tra le altre vie, possono aiutare nella direzione di un confronto efficace ed emancipativo. Sulle orme di Henri Corbin, Carla Stroppa si dedica ad approfondire lo spazio psichico in cui avviene la connessione tra l’io e l’inconscio, lo spazio “magico” dove i corpi si fanno spiriti e gli spiriti prendono corpo. Se la ricerca delle condizioni per evitare la scissione tra immaginazione e pensiero può rispondere all’umana necessità di ritornare alla completezza, – a una completezza che non sappiamo se c’è mai stata o è uno dei tanti miti di cui ci avvaliamo creandoli e incessantemente reificandoli –, quella ricerca è necessario che non perda la forza dell’immanenza come condizione per comprenderci e comprendere la nostra continua produzione di mondi paralleli. Come riconosce Stroppa: “Il fatto che la magia delle proiezioni approdi all’individuazione o alla distruzione del Sé, dipende dalla qualità della coscienza e dalla presenza o meno di un’etica dell’Io. È sempre una soglia fragile che occorre osservare con umiltà, conoscendo gli inganni di Psiche che si accompagna sempre a Hermes, il grande mago appunto, dio per eccellenza degli inganni nel loro aspetto creativo e nel contempo distruttivo”. L’arte magica, per Stroppa che riprende i surrealisti, è l’arte che è in grado di operare fuori dai confini della razionalità, facendo leva sul potere dell’inconscio quale forza creativa di potenziale illimitato. Dichiarando di scrivere appoggiandosi all’immaginazione e lontano dalla teorizzazione astratta, l’autrice si pone in dialogo con l’efficace interpretazione che Thomas H. Odgen dà della poesia e della psicoanalisi: “Forse l’elemento fondamentale che caratterizza la poesia e la psicoanalisi è proprio lo sforzo di accrescere l’estensione e la profondità della nostra capacità di fare esperienze, parlando delle parti più orribili e quasi insopportabili alle parti più tenere, sottili e affettuose”. Per quella via può prodursi un ritorno a casa del Sé, percorribile mediante un passaggio di coscienza individuale e al contempo antropologico più che mai urgente, data la frammentazione e la meccanizzazione che opprimono la coscienza contemporanea, spaesandola e privandola appunto di una casa sicura. È certamente a carico dell’io che possono essere elaborate le strategie del ritorno a sé stessi e può essere attivato e continuamente riattivato il processo di individuazione, ma senza la collaborazione dei sogni e in generale delle manifestazioni dell’inconscio, ciò è molto difficile. Secondo Wilfred Bion la rêverie è una strada fondamentale da percorrere nel tentativo di ricavare un senso dall’esperienza inconscia. Del resto, come accade nei personaggi del mago di Oz, seppur sciagurati e tenerissimi, abbiamo già tutto in noi stessi, dobbiamo solo prenderne coscienza e assumercene la responsabilità, mettendo in pratica quello che James Hillman chiama la base poetica della mente. Ad essere convocata è la disposizione positiva della psiche, la presenza carnale simbolica di quella oscura e palpitante intimità dell’essere in cui infaticabilmente respira, senza mai fermarsi, la speranza come ha sostenuto Maria Zambrano riferendosi a quella che lei chiama “la trascendenza stessa della vita che incessantemente rampolla mantenendo aperto l’essere individuale”. Per questa via anche i traumi possono rappresentare una specifica particolare opportunità di individuazione e di ristrutturazione di sé, come ha dimostrato con la sua ricerca Carla Weber, evidenziando come negli angoli oscuri della mente può vivere anche la luce della creatività che trasforma il disorientamento in una nuova visione di sé e del mondo. L’attitudine a connettere ciò che i traumi separano è rappresentata da Dorothy in modo semplice e innocente: nel tempo che rimane dopo le tempeste traumatiche e i cicloni che hanno sconvolto la prospettiva esistenziale, quella che Stroppa chiama l’anima fanciulla e che Luigi Pagliarani chiamava il puer, istanze che vivono anche se non riconosciute nel fondo di noi, esprimono il desiderio e l’invocazione di “tornare a casa”.

Come si può intuire lo spazio della ricerca di sé è sottile. Non solo, ma facilmente confusivo. Quando ci occupiamo del mito e delle esperienze estreme che riconduciamo a qualcosa che chiamiamo magia, il rischio è che lo stesso metodo di interpretazione del fenomeno diventi “mitico” o “magico”, o si trasformi addirittura in reificazione o in mitopoiesi. Nella nostra contemporaneità, come è facilmente osservabile, questo non è solo un rischio. Le fughe verso il misterioso, l’esoterico, l’irrazionale sono uno dei tratti principali delle società attuali. Come sostiene in un’opera puntuale e allo stesso tempo di rilevanza generale Tommaso Ragonese [Alicudi e la segale cornuta. Alle origini di un’allucinazione collettiva, Meltemi/Atlantide, 2024], si scompongono e ricompongono strati e frammenti di miti a proprio gusto laddove vi sono assai poche somiglianze e dove gli isomorfismi rimangono più o meno arbitrari. 

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Ma allora, ogni volta che ci troviamo di fronte all’irrazionale, al mito e alla magia, non si tratta di nient’altro, per dirla con Trevor-Roper che di “mental rubbish of peasant credulity”? No, evidentemente non è così. Come Ragonese mette ben in evidenza in un libro di grande fascino, soprattutto per chi ha la fortuna di conoscere da quarant’anni il piccolo mondo dell’isola eoliana di Alicudi e i personaggi protagonisti, – ma anche per chi è interessato a una visione ricca e articolata dell’umana vicenda –, le produzioni narrative con cui accompagniamo le nostre vite sono infinite. Conversiamo con la realtà e con il mondo senza misura e ci facciamo compagnia, come gli alicudari nelle sere d’inverno, con le invenzioni del nostro sistema corpo-cervello-mente in relazione con gli altri, per inventarci e reinventarci. Accade che a quelle narrazioni e a quelle invenzioni finiamo anche per credere, reificandole come se avessero uno statuto reale, più vero del vero. In un movimento di stop and go finiamo poi per negare la nostra compulsione inventiva e scadiamo nello scientismo iperazionalista, salvo riprendere vie che ci portano agli estremi dell’esoterismo. Siamo tutte quelle dimensioni ma dualisticamente tendiamo a pretendere di scegliere, rimanendo intrappolati in una sorta di riduzionismo ossessivo. Allora forse può divenire importante, anche seguendo il filo dell’analisi di Ragonese e assumendo la prospettiva della magia del ritorno a noi stessi di Stroppa, cercare di andare oltre e non bollare l’impossibile e l’indecidibile del mito e della magia a idiosincrasia folclorica, ma usarli come grimaldello per accedere alla complessità del vivente e del presente dove realtà e mito, ragione ed emozioni non sono disgiunti. Si chiede Ragonese, risuonando con Stroppa: “Non è forse la nostra meta-credenza nella frattura irreconciliabile tra mito e ‘reale’ a essere il prodotto di un’interpretazione della realtà assoggettata a un altro vero e proprio mito: il culto contemporaneo della razionalità e del progresso?” 

Quella stessa integrazione necessaria interessa Carla Stroppa quando, alla ricerca delle vie del ritorno a sé stessi, si chiede: “Possiamo forse eliminare l’Ombra senza eliminare al tempo stesso i corpi sui quali la luce si arresta per proiettare appunto il suo gioco d’ombre?” Ovviamente non possiamo, pena negare la vita stessa, ma non possiamo neppure definire persone ed eventi unicamente in base alla loro Ombra. Con una particolare ed efficace apertura al codice affettivo femminile, Carla Stroppa si sofferma sulla rilevanza delle proiezioni e sulle illusioni necessarie. Seppure in una certa misura il ritiro delle proiezioni è inevitabile con la crescita, ciò un toglie che abbia in sé qualcosa di pericoloso e persino di psicologicamente catastrofico se la vita non offre altri oggetti di proiezione, altre illusioni del realizzare, altri sogni da inseguire con passione. “… se gli oggetti di proiezione si esauriscono”, scrive l’autrice, “si esaurisce l’eros dell’esistenza”, e diviene impossibile il ritorno all’originaria casa del sé. Per questo Dorothy riecheggia le varie voci del ritorno che la letteratura ci ha donato nel magico incrocio di ogni singola voce narrante. Secondo l’autrice queste voci cantano insieme la fantasia, la femminile furbizia e la sublime delicatezza di un canto poetico che non può e non deve spegnersi sull’altare della normalizzazione, perché il suo silenzio equivarrebbe alla desolazione della morte delle sirene così come Kafka lo ha evocato per noi, denunciando il deserto di una vita senza ispirazione e senza speranza. Ponendosi la questione della combinazione efficace tra funzione logica della mente e quella che lei chiama funzione analogica dell’anima, Carla Stroppa risuona in modo per certi aspetti impressionante con le domande che uno dei protagonisti principali del libro di Ragonese si pone. Elio Zagami, psichiatra e psicoanalista junghiano, alicudaro da generazioni, si chiede infatti: “Vogliamo cancellare del tutto la realtà analogica, allontanarla da noi? Ma con essa allontaneremo tutti i segni, tutto il mondo della notte, perché il mondo onirico è tutto analogico, l’inconscio è analogico. Oppure lo vogliamo integrare? Questo è il bivio”. Sembra di vederlo, Elio Zagami, e di conversare ancora con lui mentre mangia l’insalata di riso da una scodella dopo la sua quotidiana nuotata nel mare di Alicudi e, dopo il pranzo condividere un caffè ponendo assiduamente la questione del bivio. Il ritorno a casa finisce così per avere a che fare con la ricomposizione dell’asse io/sé che vede al centro del percorso la bambina e il bambino con tutta la loro fragilità e i traumi subiti, ma anche con la potenziale integrità che serbano in fondo a sé stessi.

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