Newton illumina il mondo

17 Novembre 2024

Può essere di una certa importanza riflettere sui motivi per cui due tra i più importanti rivoluzionari della storia della scienza abbiano avuto paura di quello che essi stessi stavano scoprendo e capendo. Abbiano, cioè, tenuto almeno in parte nascosto a lungo quanto andavano dimostrando. Come se fossero agiti dal loro stesso conoscere, stupiti e preoccupati di violare la teologia con la verifica sperimentale. Eppure, a pensarci solo un poco di più, si può giungere a riconoscere che se esiste un desiderio di conoscere – e ci sono buoni motivi per ammettere che esista – deve pur esserci allo stesso tempo una paura di conoscere. Ad abitare quello spazio ambiguo ci siamo tutti. Certo, qualcuno vive quell’ambiguità a un livello vertiginoso, come sappiamo essere accaduto a Charles Darwin e come verifichiamo nell’esperienza di Isaac Newton, anche in quest’ultimo libro di Franco Giudice, Il mondo in un’altra luce. Saggi newtoniani, Carocci editore, Roma 2024.

La conoscenza si para innanzi a noi con l’illuminazione di un’ipotesi che prelude alla scoperta. La bellezza di andare oltre il noto e il consueto, se si tratta di scoperte che porranno il mondo in un’altra luce, per richiamare il bel titolo del libro di Giudice, non può essere libera dal suo portato angosciante. È proprio della bellezza, infatti, suscitare la vertigine derivante dalla paura di riuscire a contenerla e a contenerne le conseguenze, come ha sostenuto Luigi M. Pagliarani. Se poi le scoperte sulle quali ci si affaccia sporgendosi oltre il già noto riguardano la messa in discussione di intere cosmologie teologicamente sostenute, è possibile comprendere le difficoltà di muoversi su quella linea sottile tra meraviglia e paura [cfr. Alfonso Maurizio Iacono, Paura e meraviglia, ETS, Pisa 2024; vedi recensione qui]. Rigore matematico e inquietudine teologica si combinano nello straordinario percorso esistenziale e scientifico di Newton, e Franco Giudice, in questi saggi di alto tenore documentale e analitico, ne mostra tutta la potente dimensione rivoluzionaria, unitamente alla complessità dell’umana vicenda dello scienziato inglese.

Era nato prematuro, Newton era così piccolo alla nascita che avrebbe potuto essere contenuto in una tazza, avrebbe detto la madre. Suo padre era analfabeta, e sua madre a malapena era in grado di leggere. Non possiamo saperlo con certezza, ma tentare di rappresentarci la cosmologia, il modo di vedere il mondo dei genitori di Newton, sì, possiamo provare a farlo. Se poi paragoniamo quel modo alla cosmologia emergente dalla sua ricerca e dai suoi studi, beh! siamo di fronte a un abisso.   

Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) e l’Opticks (1704), infatti, sono tra le opere più importanti e innovative di tutta la storia della scienza. Due pietre miliari, sia per le straordinarie scoperte che contengono – dalla legge di gravitazione universale alla natura composita della luce solare – sia per l’originale e coerente metodo di indagine del quale Newton si servì per realizzarle.

In circa venticinque anni di studi a lui dedicati, con un approccio originale che combina storia, scienza e filosofia, e non pochi affondi di natura psicologica, Franco Giudice, nei saggi raccolti nel volume si dedica a ricostruire soprattutto la genesi e la lunga gestazione dei due capolavori newtoniani. Al tempo stesso, tuttavia, attraverso una lettura incrociata con l’ingente e prezioso patrimonio di manoscritti lasciati inediti da Newton, di tali opere l’autore intende anche mostrare il retroterra religioso e metafisico, non sempre così evidente nella versione a stampa.

Si può fare storia e filosofia della scienza con uno stile narrativo coinvolgente, ed è quello che riesce a Franco Giudice. Occupandosi, nel primo capitolo, della nascita di un nuovo sistema del mondo, l’autore ci conduce a una svolta cruciale, emersa da quella emozione di base del cercare che fa di noi umani degli animali curiosi. Mentre era talmente immerso nelle sue ricerche di teologia e di alchimia fino al punto da dimenticare di mangiare, Newton è attratto da un fenomeno astronomico piuttosto raro, l’apparizione di una cometa nell’inverno del 1680. Anzi di due comete, come tutti gli astronomi europei, Newton compreso, supposero, quando dopo la prima, avvistata agli inizi di novembre e svanita alla fine del mese, a metà dicembre ne comparve una seconda molto più grande. Solo John Flamsteed era convinto che la cometa fosse una, proponendo una rottura radicale, con l’ipotesi che le comete percorressero orbite curvilinee. Newton, rivedendo la sua precedente affermazione sulle traiettorie rettilinee delle comete, grazie anche a un carteggio con Flamsteed, scrisse una serie di proposizioni in cui affermava che le comete si muovevano, come i pianeti, lungo orbite curvilinee intorno al Sole e che le due comete erano in effetti una sola. Una prova straordinaria del valore e del potere dell’esercizio del dubbio nella ricerca scientifica, ma non sufficiente per andare oltre la credenza che il moto dei pianeti e delle comete fosse causato da un etere celeste. Newton continua a ragionare in termini di vortici cartesiani. La prova che un dubbio non basta mai, se non si dubita sugli esiti del dubbio stesso. Di questo Newton mostrerà di essere capace come pochi altri subito a seguire, nel confronto con Halley, che diede il nome alla cometa apparsa nel 1682, abbandonando la dottrina dei vortici e realizzando che lo spazio celeste è vuoto. Halley nel corso della visita del 1684 chiese a Newton quale curva, a suo avviso, avrebbero descritto i pianeti nell’ipotesi che la forza di attrazione verso il Sole fosse stata inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Sir Isaac rispose subito che sarebbe stata un’ellisse, e quando Halley in un empito di gioia e di sorpresa gli domandò come lo sapesse, Newton disse: “perché l’ho calcolato”. Promise ad Halley che gli avrebbe mandato quei calcoli, ed effettivamente lo fece, inviandogli un breve manoscritto di nove pagine intitolato De motu corporum in gyrum (Sul moto dei corpi in rotazione). Nella sua dimostrazione Newton stabiliva che, data una traiettoria ellittica, il corpo che la percorre deve essere sottoposto a una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza da uno dei due fuochi. Non solo, ma dimostrava anche la seconda e la terza legge di Keplero e molto altro ancora. Halley fu così impressionato che andò di nuovo a Cambridge per convincere l’autore a sviluppare le sue idee e a renderle di pubblico dominio. Newton si buttò a capofitto nella ricerca e non ebbe altri interessi al di fuori di quelli esposti nel suo breve manoscritto. Mise da parte gli studi di teologia e alchimia ed entro la fine del 1686 portò a termine qualcosa di davvero stupefacente: un maestoso trattato di cinquecento pagine che aspettava soltanto di essere stampato. Come effettivamente accadde il 5 luglio dell’anno successivo quando Halley comunicò a Newton la pubblicazione dei Philosophiae naturalis principia mathematica.

I Principia portavano a compimento la rivoluzione scientifica avviata da Copernico, Keplero e Galileo, rappresentandone il culmine e la sintesi più coerente. In un quadro unitario che coniugava osservazione, esperimenti e dimostrazioni matematiche, Newton delineava una nuova immagine dell’universo e delle sue leggi che sarebbe rimasta immutata per più di due secoli, fino cioè alla teoria della relatività di Einstein. Per la prima volta con il suo nuovo sistema del mondo Newton sanciva l’unificazione dei fenomeni celesti e terrestri, demolendo definitivamente il dogma tradizionale di una differenza ontologica tra mondo celeste e mondo terrestre, tra astronomia e meccanica.

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Nelson Goodman, consapevole della portata eversiva delle sue tesi, avrebbe portato all’esasperazione le considerazioni sulle dinamiche che conducono a così profonde trasformazioni delle immagini e delle teorie che noi abbiamo del mondo. Egli stesso aveva scritto nella prefazione al suo libro più famoso: «quel che emerge può forse essere chiamato un relativismo radicale, che si risolve in qualcosa di assai prossimo all'irrealismo» [N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, Laterza, Roma-Bari 1988]. Dal momento che la tesi del libro è: non c'è un mondo; ci sono tanti mondi, nessuno dei quali onnicomprensivo; più precisamente c'è un mondo per ogni diverso modo di combinare e costruire sistemi simbolici, ci troviamo a domandarci se ad agire nella costruzione delle nostre conoscenze sia un costruttivismo radicale o se non si verifichi una dinamica evolutiva continua tra persistenza ed emergenza, in cui certe scoperte non solo rendono possibili le successive, ma persistono almeno per i loro assunti fondamentali nelle teorie che pure almeno in parte le falsificano e le trasformano. Senza trascurare, come sostiene Aldo Giorgio Gargani nell’introduzione al libro di Yehuda Elkana, Antropologia della conoscenza, [Laterza, Roma-Bari 1999], una maniera nuova di guardare alla storia della scienza e di ricostruirne le tappe, che riporta in primo piano e analizza «quelle forme di vita umana e quell'intreccio di vicende storiche nelle quali in realtà la scienza essenzialmente si è formata e continua a crescere».

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È dichiarata e praticata l’attenzione alle vicende storiche nella ricerca di Franco Giudice, così come la sua cura nel dare voce a punti di vista che corroborano il percorso newtoniano, evidenziando contributi di altri scienziati e la loro influenza, e utilizzando un rigore analitico che non concede nulla alla ennesima costruzione di un mito. Anzi, il lettore è condotto in molteplici escursioni nel laboratorio mentale e sperimentale di Newton, dove regnano allo stesso tempo la consapevolezza che si sta realizzando una rivoluzione scientifica e la disposizione al confronto, seppur serrato e spesso conflittuale, alla ricerca di spiegazioni non confutabili dei fenomeni. Come accade, ad esempio, con la formulazione della teoria della luce e dei colori e, quindi, per Opticks, del 1704, che insieme ai Principia, saranno destinate a segnare per sempre la storia della scienza. Se nel trattato Newton descrive la natura della luce mediante fenomeni di rifrazione attraverso prismi, lenti e fenomeni di diffrazione, definita inflexion, nonché i fenomeni di dispersione della luce nello spettro dei suoi colori componenti, il percorso per giungere a quelle formulazioni si avvale di una serie di rivisitazioni in cui le critiche, come quelle di Christiaan Huygens, uno dei più celebri filosofi naturali e astronomi dell’epoca, ma non solo, svolgono una funzione essenziale.

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È, forse, nella lettera a Oldenburg del 6 luglio 1672, riportata puntualmente da Giudice, che si può ravvisare un passaggio che lo stesso Newton poi si impegnerà a rivedere, nel quale appare chiaramente come la verifica, senza la falsificazione, non conduca alla buona scienza. “Voi sapete”, scrive Newton, “che il modo appropriato di indagare le proprietà delle cose consiste nel dedurle dagli esperimenti. E io vi ho detto che alla teoria da me proposta sono arrivato non inferendo che è così perché non è altrimenti, vale a dire non deducendola da una confutazione delle supposizioni contrarie, ma derivandola dagli esperimenti che concludono positivamente e direttamente”. Dopo un serrato confronto durato anni, pur non rinunciando all’idea che i colori siano innati alla luce diretta del Sole, Newton, nelle righe di apertura dell’Ottica, ridimensiona le proprie posizioni e, come esito delle confutazioni delle posizioni contrarie, scrive: “la mia intenzione in questo libro non è di spiegare le proprietà della luce mediante ipotesi, ma di proporle e di spiegarle con la ragione e gli esperimenti”.

Il cammino della scienza non è lineare, come si avverte anche nella storia dei grandi scienziati e Franco Giudice ce ne dà una prova occupandosi nel libro dell’intreccio così rilevante nella filosofia e nella scienza dell’epoca, tra principi attivi, qualità occulte e metodo sperimentale. Si incontra qui una delle questioni epistemologiche più impegnative che da sempre riguarda il nostro rapporto con la conoscenza: la nostra difficoltà a riconoscere l’autonomia e l’autorganizzazione del vivente, senza dover introdurre cause prime, orologiai occulti, e alchimie di sorta, ma privilegiando un approccio di tipo sperimentale basato esclusivamente sui dati di fatto. Sia analizzando il rapporto tra lo sviluppo della ricerca e del pensiero di Newton con la tradizione dei cosiddetti principi attivi, sia considerando la funzione svolta dal mito platonico in Galileo, emerge quanto sia impegnativo giungere a spiegazioni matematiche dei fenomeni, togliendo così al mito la sua “maschera o sembianza poetica” e mostrandoli “in aspetto di verace istoria”, come lo stesso Galileo sostiene nelle Opere. Il mito, si sa, non si lascia prosciugare, come emerge anche nelle analisi critiche di Newton verso Galileo, e rinasce non come residuo ma come costante sodale di ogni forma di conoscenza.

Per molti aspetti l’intreccio si propone anche per quanto riguarda il rapporto tra filosofia naturale, teologia ed ermeneutica biblica, come lo stesso Newton riconosce nello Scolio e nella Correspondence in una lettera a Richard Bentley il 10 dicembre 1692: “Quando scrissi il mio trattato del nostro sistema, ebbi un occhio particolare per quei principî che potessero aiutare gli uomini riflessivi a credere in una divinità, e nulla può rallegrarmi di più che il mio libro sia considerato utile a tale scopo”. Franco Giudice evidenzia come “dietro il linguaggio accomodato della Bibbia, che descrive le quantità sensibili e relative dei fenomeni naturali per le persone comuni, c’erano quindi le quantità assolute, vere e matematiche”. Il rapporto tra la scienza newtoniana e il design argument incarnava il tipo di teologia sviluppata da Newton e dai suoi seguaci, quella teologia cioè che considerava il metodo e le acquisizioni della nuova scienza come validi alleati della religione cristiana.

Come si vedrà nell’ultimo capitolo del libro, quello dedicato a Francesco Algarotti e al suo Newtonianismo per le dame (1737), l’intreccio che dà conto dell’evoluzione del pensiero scientifico si complica ulteriormente in ragione delle dinamiche del potere, non solo in campo scientifico, ma in campo sociale, politico e religioso. Tra le opere di divulgazione dell’“altra luce” che scaturiva dalla rivoluzione di Newton, quella di Algarotti fu l’unica a incorrere nella proibizione ecclesiastica da parte dell’Inquisizione romana. Un destino che non toccò nemmeno alle opere dello stesso Newton. Il registro linguistico lieve e ironico del libro di Algarotti e la sua capacità di penetrazione presso il pubblico, come in altri tempi era accaduto per il riso, aveva suscitato la reazione del potere che non mancò, come sempre, di gettare ombre oscurantiste sulla nuova luce della conoscenza.     

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