L'incanto del mondo

6 Settembre 2024

È proprio di chi, pensando, combina efficacemente emozione e ragione, storia e mito, logica ed ermeneutica, trattare temi apparentemente del passato, capaci di illuminare il presente. Alfonso Maurizio Iacono, con il suo stile narrativo da conte philosophique, ci ha abituati a questi ponti esplorativi e ne abbiamo una conferma in questo lavoro, Paura e meraviglia. Storie filosofiche del XVIII secolo, ETS, Pisa 2023.

Mentre il confine tra realtà e fantasia, tra virtuale e reale, diventa sempre più labile, che ne è dell’immaginazione e, quindi, della paura e della meraviglia? O per dirla con uno dei capisaldi della ricerca e del pensiero di Iacono, che ne è dei mondi intermedi nel momento in cui si fa sempre più indefinito il confine tra osservatore e mondi osservati? E come si evolve la nostra disposizione a cogliere il mondo “con la coda dell’occhio”, per dirla sempre con il nostro autore, a essere cioè contemporaneamente in noi stessi e parte della realtà osservata?

Le vie della conoscenza non sono semplici, non della semplicità che piacerebbe a noi. “Nella scienza tutto è forte, disinvolto e splendido come nei racconti di fate. Solo che gli uomini non lo sanno, intuiva Ulrich; non sanno nemmeno lontanamente come si fa a pensare; se si potesse insegnar loro da capo a pensare, vivrebbero anche in un mondo diverso”, scrive Robert Musil con impareggiabile ironia nel suo capolavoro, L’uomo senza qualità

Possiamo forse sostenere che uno dei giganti del pensiero illuminista come David Hume non sapesse come si fa a pensare? Sarebbe pura blasfemia. Possiamo altresì sostenere che il problema c’era ai tempi di Hume ma non riguarda i tempi nostri? Non avremmo avuto lo sconcerto di Albert Einstein di fronte alla fisica quantistica né lo stupore dei fisici odierni nel non riuscire a trovare la via per conciliare quello che tuttora si mostra inconciliabile: la relatività e la fisica quantistica.

Per queste e altre ragioni, come vedremo, le storie filosofiche del diciottesimo secolo di Iacono ci riguardano molto da vicino.

Se l’irrazionale è nel razionale e viceversa; se il primitivo è nel contemporaneo e altrettanto vale per il reciproco; se il mito è nella scienza e quest’ultima se ne avvale e concorre a crearne, di miti; se gli dèi erano “contemporaneamente effetto e oggetto” del terrore di Cesare, come fa notare E. Gibbon, uno degli autori chiamati in causa da Iacono, allora la conoscenza si configura come un’impresa storica complessa, in cui tutto è più e più volte intrecciato, comprendendo nell’intreccio lo stesso soggetto conoscente, come Iacono, tra i primi, ha mostrato in un libro insuperato, L’evento e l’osservatore. Ricerche sulla storicità della conoscenza, pubblicato nel 1987 e in una nuova edizione da ETS, Pisa nel 2013. E, forse, anche se non possiamo saperlo, quand’anche, come auspica Ulrich, insegnassimo a noi stessi da capo a pensare, penseremmo ancora come pensiamo, essendo il pensiero e la conoscenza, oltre che un’impresa storica, un’impresa ineluttabilmente antropologica, rispondente a un vincolo fondamentale e quindi imprescindibile, che è il nostro corpo-cervello-mente in relazione con il mondo. In quel vincolo stanno anche le nostre possibilità di conoscere e di conoscerci, come ha mostrato in un libro essenziale su questi temi Mauro Ceruti [Il vincolo e la possibilità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009].

Carlo Ginzburg, in Occhiacci di legno [Quodlibet, Macerata 2019] ridefinisce la postura dello storico, e fa ricorso allo scarto straniante, alla capacità di capovolgere i ruoli tra il soggetto dello studioso e l’oggetto dei materiali che studia, alla condizione di farsi agire da loro. Spiega: “È una frase su cui continuo a riflettere, che riguarda i limiti dell’io. Penso che il compito della scienza – come pensava anche Freud – sia quello di ridurre per quanto è possibile lo spazio del cosiddetto libero arbitrio. Io ho usato anche questa espressione: “essere agiti”. Nel momento in cui veniamo a contatto con le narrazioni mitiche, si crea un intreccio per cui esse ci spingono in una certa direzione”. Per lui la distanza non è un dato, non una condizione in cui ci si ritrova, non un problema pacifico: la distanza è qualcosa che si costruisce. Diventa a sua volta un elemento costitutivo del processo che si chiama indagine storica – il significato originario della parola historia è precisamente indagine, come ricorda in varie occasioni – , delinea un profilo cognitivo che tra smarcamenti di senso, passi laterali, gradazioni di empatia ed esperimenti a doppio cieco – quelli che in medicina si basano sull’effetto placebo – esalta l’impronta filologica: delinea una pratica di epistemologia che di fronte a ogni sapere adotta, alla maniera di Michel Foucault, l’esercizio dell’archeologia del sapere costantemente sospeso in equilibrio instabile tra passato e presente. 

Porre una distanza tra sé e il presente determina lo spazio dove matura la coscienza storica, la consapevolezza di muoversi nella geografia delle rovine del tempo, l’opportunità di abbracciare quella che, con “la piega” di Gilles Deleuze, possiamo definire una filosofia del divenire, capace di rappresentare la trasformazione della materia e i movimenti della mente come fenomeni interconnessi, che restituisce una teoria sensibile al rapporto tra superficie e texture e in grado di misurarsi con il tessuto delle cose e la profondità della superficie materiale del loro disegno.

Stiamo parlando di una conquista non facile e mai definitiva. Perché la paura e la meraviglia non sono sentimenti vissuti solo dai primitivi che non conoscevano le spiegazioni scientifiche dei fenomeni, ma sono costanti della nostra esperienza e ad esse dobbiamo le possibilità sostanziali del nostro conoscere e del nostro conoscerci. Semmai cambiano i fenomeni con cui ci confrontiamo e, quindi, le modalità con cui elaboriamo il nostro meravigliarci o il nostro avere paura. Le rivelazioni che ci riesce di fare però inevitabilmente ri-velano i fenomeni di nuovi veli, al punto che ci accade di non vedere, o meglio, per dirla con Hein von Foerster, di “non vedere di non vedere”. “Ma il limite di Hume (come di Smith e di Gibbon) fu di usare nei confronti del “volgo ignorante”, dei “selvaggi” e dei “primitivi” quei medesimi preconcetti che egli stesso aveva grandemente contribuito a criticare in seno al pensiero e alla filosofia occidentale”, scrive Iacono analizzando i processi conoscitivi di David Hume, Adam Smith e Edward Gibbon. Il fatto è che l’uso di quei preconcetti da parte di menti così illuminate si lega contraddittoriamente a una lotta filosofico-politica per liberarsi dai preconcetti di una verità imposta dall’autorità della religione, una verità che si serviva delle false credenze. “Ma è accaduto che anche l’autorità non religiosa e apparentemente disincantata si sia servita di credenze per imporre la cerimonia della sua esistenza dominante. E le credenze, che non coinvolgono soltanto il ‘volgo ignorante’, ma anche gli uomini ‘illuminati’, devono essere oggetto dell’indagine storica, che non può porle pregiudizialmente al di fuori di sé con la motivazione che, in quanto tali, risultano ‘false’. Si confonderebbe, in caso contrario, il senso dell’indagine con il preconcetto. La discriminazione tra il vero e il falso deve comprendere il falso come problema storico”. Si respira in questa profonda argomentazione di Iacono, come nelle analisi di Ginzburg, la limpida lezione metodologica di Arnaldo Momigliano e la forza diffusiva dei suoi insegnamenti in quel laboratorio pisano che, anche nel dialogo fitto con Aldo Giorgio Gargani, ha fornito un’evoluzione ancora tutta da comprendere e valorizzare nella produzione di conoscenza.

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Accade, nella ricerca e nella conoscenza che, per criticare un pregiudizio e un autoinganno, se ne affermi inconsapevolmente un altro, o se ne trascuri e non se ne veda un altro ancora. Non solo, ma non si veda di non vedere che lo sguardo non è mai assoluto e che il logico-formale e il mitico convivono sempre nel conoscere umano. L’osservatore e l’evento osservato partecipano di un processo in cui il primo è coinvolto nel secondo e il secondo cambia il primo. Non possiamo vedere senza occhi e gli occhi filtrano quel che vediamo. 

Il libro di Iacono è un’interrogazione sul soggetto conoscente o, richiamando Edgar Morin, uno studio sulla conoscenza della conoscenza. Avvalendosi dell’approfondimento della funzione svolta dalla paura e dalla meraviglia nella nascita della nostra propensione a creare credenze o della nostra tensione a conoscere mediante la filosofia, il percorso del libro è sostenuto da una continua necessità di comprendere il nostro bisogno di conoscere e la nostra intollerabilità del vuoto di conoscenza. Analizzando dettagliatamente le riflessioni di Hume: “Noi trasferiamo sempre la nostra esperienza, espressamente o tacitamente, direttamente o indirettamente, ai casi di cui non abbiamo esperienza” [Trattato sulla natura umana, 1739], emerge il ruolo della proiezione nel nostro rapporto con la realtà e il mondo. Nell’introiettare gli eventi della nostra esperienza, finiamo per proiettare il nostro mondo interno, con le sue ansie e i suoi stupori sulla realtà e sul mondo, reificando poi quanto noi stessi abbiamo proiettato. Un contributo di particolare utilità per la comprensione di questi processi viene da Axel Honneth, in Reificazione. Sulla teoria del riconoscimento, [Meltemi, Milano 2019]. “Inventiamo dèi a nostra immagine e somiglianza e attribuiamo loro il potere di fenomeni ed eventi che altrimenti sfuggirebbero alla nostra comprensione e alla nostra stessa esperienza”, scrive Iacono. Si potrebbe continuare sostenendo che l’attribuzione più radicale agli dèi che noi stessi inventiamo è quella di averci creato. Non solo, ma ancor più incidente nelle nostre vite è il ricorso al divino per cercare di contenere e sopportare ogni aspetto e manifestazione di noi stessi che ci risulti difficile comprendere e accettare, prima di tutto la paura della morte, ma anche lo stupore che ci prende tutte le volte che, per dirla con Woody Allen, non siamo d’accordo con noi stessi. 

L’associazione della paura all’origine delle religioni e della meraviglia alla nascita della filosofia è una delle prime sistemazioni riguardanti i tentativi di comprendere che l’esperienza del meraviglioso ci ricorda continuamente che il nostro dominio del mondo è incompleto, come scrive Stephen Greenblatt. Nel momento in cui si cerca di presentare la religione come qualcosa che ha una storia, da parte della filosofia e della storia si producono due effetti che Iacono documenta con analisi articolate dello sviluppo del pensiero. Da un lato si scopre che attribuire all’ordine delle cose ciò che appartiene all’ordine delle idee significa spostare nelle cose ciò che appartiene all’osservatore, assolutizzando un modo di procedere con il modo di procedere. Si comprende cioè che la verità del modo di procedere per conoscere non appartiene alle cose stesse conosciute. Dall’altro si scopre allo stesso tempo come la mente si acceca. Uno degli accecamenti, evidenziati con chiarezza da un antropologo come Marshall Sahlins a proposito dell’economia dell’età della pietra, consiste nelle congetture mediante le quali si tende a interpretare culture altre con i parametri della propria, stabilendo degli stadi di sviluppo lineari e ritenendoli passaggi necessari. Nella teoria scozzese che accomuna Hume e Smith si propone, infatti, una scala di successione dei sistemi fondati sulla caccia, sulla pastorizia, sull’agricoltura e sul commercio, attraverso cui verranno comparati gli antichi con i selvaggi contemporanei. Per queste vie, come è noto, è poi accaduto che si desse vita a un processo distruttivo dell’essere sociale nell’uomo moderno in favore del suo essere economico, come se questa fosse una tendenza assoluta. Mentre, come ha dimostrato E. P. Thompson, forme comunitarie di identità collettive, spesso antagonistiche, rimangono o vengono create ex novo nella vita degli individui. 

Le dinamiche mediante le quali si producono e affermano le credenze, fino a diventare veri e propri sistemi di pensiero, anche con le loro contraddizioni interne, sono accuratamente analizzate da Iacono, in particolare nel capitolo quinto, dove si considerano la paura e la meraviglia nell’idea di storia filosofica di Hume, Smith e Gibbon. Un esempio di particolare valore riguarda March Bloch e la sua analisi della credenza dei re taumaturghi pubblicata nel 1924 [I re taumaturghi, Einaudi, Torino 1989]. Se molti studiosi di fronte alla credenza del potere taumaturgico dei re di guarire la scrofola con il loro tocco, concordano nel negare a quel potere un’origine soprannaturale, perché non negano quel potere in sé stesso, perché non contestano affatto che i re operassero effettivamente le guarigioni? “La ragione sta nel fatto che tra quegli uomini e noi stanno le scienze fisiche e naturali”, sostiene Bloch. Questa secca spiegazione però tende a non considerare un fatto importante, tutto da comprendere: il significato sociale di quella credenza e le ragioni del sostegno collettivo nel confermarla. Se quella credenza si afferma, sosterrà lo stesso Bloch in un testo successivo, è perché le immaginazioni sono già predisposte ad accoglierla: “un avvenimento, una cattiva percezione che non andasse nella direzione verso cui già tendono le menti di tutti potrebbe al massimo costituire l’origine di un errore individuale, ma non di una falsa notizia popolare e largamente diffusa […] la falsa notizia è lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti”. Ogni riferimento ai tempi in cui viviamo è lasciato alla nostra capacità e volontà di comprendere quello che è sotto gli occhi di noi tutti. Il punto da sottolineare riguarda la distinzione tra inclinazione al meraviglioso e credenza nel miracoloso, poiché se è la loro unione a stravolgere il senso comune e la ragione, è la loro distinzione che permette di far comprendere l’idea di un progresso della mente umana.

La paura e la meraviglia che a un tempo il diverso e le differenze suscitano, non consentono tregua neppure quando il pensiero, come nel caso di Kant, cerca di evolversi con un salto di qualità basato sul nesso fra senso dell’alterità e ragione egualitaria. Pur disponendosi sul piano morale nella chiave dell’universalità raggiunta a un certo momento dello sviluppo umano, convive in Kant non soltanto una particolare versione della teoria degli stadi, ma anche una concezione delle razze, la cui differenziazione comporta il giudizio dell’inferiorità del negro. Rimane, quindi, la questione di come collocare le considerazioni di Kant di fronte al suo grande argomento della ragione egualitaria come segno dell’inizio della civiltà. Si tratta di una questione che non può non essere posta ogni qualvolta si cerca di riflettere non solo sulla questione occidentale del rapporto fra eguaglianza e senso dell’alterità, ma anche su come procede il corpo-cervello-mente di noi esseri umani di fronte alle differenze e nella elaborazione del combinato tra mente, credenze e scienze.        

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