In lotta con il roveto

25 Agosto 2024

Li detesto. Sono la peste del mio giardino, confinante con un appezzamento incolto che li diffonde oltre la recinzione. Con i rovi selvatici è una lotta continua, e persa in partenza: s’allungano rapidi e cacciano i loro turioni ovunque, a metri di distanza dalla pianta madre. Con la siccità, che ne impedisce l’eradicazione, è ancor più difficile provare a liberarsene. Dunque, perché scriverne?

Innanzitutto perché anche le rose sono rovi e, a primavera inoltrata, in aperta campagna o sul ciglio dei boschi, le siepi di rovi fiorite nulla invidiano alle rose di macchia. È una visione se non paradisiaca, certo purgatoriale, in attesa dei frutti: le more, nere, lucide e sugose.

Ma la vera ragione è un’altra: un così gran numero di autori li ha resi protagonisti delle loro opere che potrei allestire un’antologia letteraria monotematica, con testi e nomi di prima grandezza. 

Il rovo, dunque, per la nostra rubrica è il caso in cui più che la clorofilla può la letteratura. Ma prima di passare alla non semplice selezione della proposta poetica, è bene soffermarsi un poco su questa essenza irta e dolce al contempo. 

Il genere Rubus è così studiato da essersi accaparrato una branchia della botanica, la Batologia (dal greco βάτος = rovo). La spiccata attitudine all’ibridazione rende assai complesso distinguere le numerosissime specie. Se ne contano un paio di migliaia di cui circa sessanta le riconosciute in Italia. Tra queste le più note sono il rovo comune da mora (Rubus ulmifolius), di cui diremo, il rovo bluastro (Rubus caesius) con bianche corolle, polloni e frutti pruinosi, il rovo erbaiolo (Rubus saxatilis) dalle more rosse e il rovo da lampone (Rubus idaeus).

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Il Rubus ulmifolius è un arbusto sempreverde e perenne, dal portamento cespuglioso, che può far macchia per oltre i due metri d’altezza, e s’alza ancor più quando approfitta del supporto altrui. È pianta pollonifera, dalla cui base getta, anche a metri di distanza, bruni turioni sarmentosi, pelosi e ricoperti di spine adunche, provvisti di gemme apicali che, appena giunte a terra radicano, e da cui nuovi individui partono alla conquista di territorio. Lo dice «coraggioso» Emily Dickinson in questa sua poesia, al solito splendente, dove ci offre una visione del rovo quasi penitenziale che pare voglia riscattare il rovo dalla cattiva fama che la tradizione popolare gli attribuisce: nel linguaggio dei fiori è simbolo dell’invidia e, naturalmente, di spine di rovo fu intrecciata la corona del re dei giudei.

L’anima candida di Emily che loda tutto il creato, anche nel rovo vede una bontà non solo culinaria:

Il rovo – porta una spina sul fianco –
ma nessuno lo udì gemere mai –
offre il suo frutto, senza preferenze
alla pernice o al bimbo –


Può talvolta appoggiarsi sulla siepe
o appigliarsi ad un albero –
con le mani s’avvinghia ad una roccia –
ma non chiede pietà –

Noi – dichiariamo il male – per alleviarlo –
con il lamento – tende invece al cielo
quanto più soffre
il rovo coraggioso –

Veniamo alle foglie, che sono picciolate e composte da tre o cinque lamine dal margine dentato (simili a quelle dell’olmo, come da aggettivo botanico), d’un verde opaco e buio sulla pagina superiore, chiare e tomentose nell’inferiore. I fiori, radunati in pannocchie apicali anch’esse ricoperte di un latteo tomento, con calice di cinque sepali appuntiti che rendono i bottoni dei boccioli assai graziosi. Cinque anche i petali rosa, persino intenso, di rado bianchi, intorno a numerosi stami dalle antere pelosette.

Il frutto – le more che tutti conosciamo – è un tondo agglomerato di piccole drupe dapprima verdi, poi rosse fino al nero brillante della maturità, ciascuna contenente un seme. È il buono che ripaga dalle escoriazioni guadagnate durante la raccolta, e dal quale si ricavano marmellate, succhi e geli, se non si incorre nello sperpero del giovane Seamus Heaney che ha messo in versi in La raccolta delle more (1965), tratta dalla silloge Morte di un naturalista:

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Fine agosto: pioggia battente e sole
per un’intera settimana, e le more maturavano.
All’inizio, solo una, un lucente grumo viola
in mezzo ad altri, rossi, verdi, duri come nodi.
Mangiavi quella primizia e la polpa era dolce
come vino addensato: aveva dentro il sangue dell’estate
che lasciava macchie sulla lingua e brama
di raccolta. Poi quelle rosse si tingevano d’inchiostro e quella fame

ci mandava con lattiere, barattoli di piselli e di marmellata
dove i rovi graffiavano e l’erba umida ci scoloriva le scarpe.
Intorno ai campi di fieno, campi di grano e solchi di patate
scarpinavamo e raccoglievamo fino a colmare le lattine,
finché il fondo tintinnante non si ricopriva
di more verdi, e sopra grandi macchie nere ardenti
come un piatto di occhi. Avevamo le mani martoriate
dai rovi, i palmi appiccicosi come quelli di Barbablu.

Ammucchiavamo le bacche fresche nella stalla.
Ma quando la vasca era colma trovavamo una peluria,
una muffa grigio-ratto, che divorava il nostro tesoro nascosto.
Anche il succo puzzava. Una volta staccata dagli arbusti
la frutta fermentava, la polpa da dolce diventava aspra.
Mi veniva sempre da piangere. Non era giusto
che tutto quel bel raccolto puzzasse di marcio,
Ogni anno speravo che durasse e sapevo che era speranza vana.

Alla raccolta delle more si è dedicata anche Sylvia Plath, che s’accontenta di gustarle dal rovo, ma oltre le siepi di more non c’è il mare desiderato. È un testo pieno, oltre che di more, di immagini e metafore mirabili, si intitola, va da sé, Andar per more ed è datato 23 settembre 1961:

Nessuno sul sentiero, e niente, niente se non more,
more su entrambi i lati, ma soprattutto a destra,
un vialetto di more che scende a tornanti, e là dove finisce,
da qualche parte, un mare che si gonfia. More
grosse come il polpastrello del mio pollice e mute come occhi
ebano nelle siepi, grasse
di succhi rosso-blu. E si sciolgono sulle mie dita.
Non avevo chiesto questa sorellanza di sangue: devono proprio amarmi.
Si adattano alla mia bottiglia del latte, comprimendosi i fianchi.

In alto vanno i gracchi, in neri stormi cacofonici –
brandelli di carta bruciata che turbinano in un cielo spazzato.
La loro è l’unica voce, che protesta, protesta.
Non credo che il mare apparirà.
Gli alti prati verdi brillano come se fossero illuminati dall’interno.
Arrivo a un cespuglio di bacche così mature che è un cespuglio di mosche,
i ventri verde-blu e le ali sospese in un paravento cinese.
Il banchetto di miele delle more le ha sopraffatte: credono nel paradiso.
Ancora un tornante, e le bacche e i cespugli sono finiti.

Adesso manca solo il mare.
Incanalato tra due colline un vento improvviso si riversa su di me,
sbattendomi in viso il suo bucato fantasma.

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Queste colline sono troppo verdi e dolci per aver assaggiato il sale.
Seguo il tratturo fra le pecore. Un ultimo tornante
mi porta al lato nord, una parete di roccia arancione
affacciata su nulla, nulla se non un vasto spazio
di luci bianche e color peltro, e un fragore come di argentieri
che battono e battono su un intrattabile metallo.

Del rovo sono commestibili non solo i frutti i cui semi, per altro, sono ricchi di omega 3 e 6. È infatti specie officinale, e se ne utilizzano radici e foglie per le proprietà astringenti, diuretiche, depurative, persino antiflogistiche: i romani ne masticavano le foglie per curare le infiammazioni gengivali. Tutto ciò, comunque, non mi distoglierà dalla mia battaglia, pur vana, contro questi intrusi.

Termino con Le more di Francis Ponge, prese dal Partito preso delle cose (1941) dove il succo inchiostrato del frutto sortisce in uno di quei mirabili petit poème en prose che, come scrive Calvino, «rappresentano il miglior esempio d’una battaglia col linguaggio per farlo diventare il linguaggio delle cose» (da Esattezza, in Lezioni americane, 1984):

Sui cespugli tipografici costituiti dal poema, su una strada che non porta né fuori dalle cose né verso la mente, certi frutti sono formati da una agglomerazione di sfere che una goccia di inchiostro riempie.
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Neri, rosa, e kaki insieme sul grappolo, offrono lo spettacolo di una famiglia burbera in età diverse piuttosto che una viva tentazione a coglierle.
Vista la disproporzione tra i semi e la polpa, gli uccelli li gustano poco, tanta poca cosa resta in fondo quando dal becco all’ano ne sono attraversati.

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Il poeta invece nel corso della sua passeggiata professionale ne fa giustamente il proprio modello: «così dunque, si dice, riescono in gran numero gli sforzi pazienti di un fiore molto fragile benché da un arcigno intricarsi di rovi difeso. Senza molte altre qualità – more, perfettamente mature sono, e mature – come anche questa poesia è fatta».

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