Il rododendro, arbusto partigiano

28 Aprile 2024

Di rado si pensa al disastro ambientale quale conseguenza della violenza bellica. Poeti e scrittori sì, l’hanno considerato, e ne hanno dato immagini icastiche, non prive di coinvolgimento estetico-sentimentale. Basti ricordare, per il primo conflitto mondiale, il memorabile esordio dei Fiumi di Ungaretti: «Mi tengo a quest’albero mutilato/ abbandonato in questa dolina». O alle annotazioni di Gadda nel Diario di guerra e di prigionia: «questi bei prati, densi di magnifico foraggio e infiorati dell’estate, sono dilaniati dalla guerra»; altrove, si sofferma sugli «alberi secchi e stroncati» dal cannone, sulla «montagna disboscata dalla necessità dei soldati», sulle foreste «che van diradandosi per il disboschimento: noi stessi, per costruire le nostre baracche, cogliendo un pino qua e l’altro là, abbiam cooperato alla distruzione». 

Ancor meno si pensa a come gli alberi, e altri elementi naturali, siano stati salvifici per molti combattenti. Conoscere il territorio teatro di battaglia, e la sua vegetazione, era fattore decisivo per il destino dei giovani partigiani durante la Resistenza. Le gaggìe per il Milton di Fenoglio, i pini mughi per i “piccoli maestri” di Meneghello erano presenze che potevano salvare la pelle.

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A Ferdinando Camon che gli chiedeva come avrebbe raccontato la guerra partigiana, un quarto di secolo dopo la pubblicazione del Sentiero dei nidi ragno (1947), Calvino rispose:

«Credo che se riprendessi quella materia, se riuscissi a rimetterla a fuoco nella memoria, ecco, sarebbe a livello non macroscopico, ma quasi microscopico, una situazione, un episodio minimo, un momento tra la vita e la morte, momento assolutamente quotidiano in quella vita lì, abitudinario posso dire, è straordinario come ci si abitua anche alla possibilità di morire da un momento all’altro, un momento così, dicevo, visto nella rete di condizioni che lo determinano, condizioni materiali prima di tutto, biologiche, un certo rapporto con l’ambiente vegetale, i cespugli, l’attesa della crescita dei cespugli in primavera, come condizione di sopravvivenza per il partigiano, per la sua possibilità di fare azioni in terreno aperto, nel ’45 l’inverno non voleva finire, si spiava la primavera nella crescita delle foglie, non come fine probabile della guerra, a quella per scaramanzia si diceva sempre di non credere, troppe delusioni avevamo avuto, ma per i cespugli, custi si chiamano nel mio dialetto, la fitta coltre verde che avrebbe coperto le vallate rendendoci invisibili, la simbiosi partigiano-rododendro, i problemi del vitto spaventosi, tutto l’inverno nelle nostre montagne non c’era da mangiare che castagne, l’avitaminosi che riempiva le gambe dei partigiani di foruncoli, ciavèli in dialetto, certe cose sulla vita partigiana nessuno le ha mai dette [...]»

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Cespugli sempreverdi, che a stento raggiungono il metro d’altezza, i rododendri (Rhododendron ferrugineum) fioriscono tra aprile e giugno con belle corolle campanulate, profumate di resina, d’un rosa più o meno acceso, raccolte in serrati racemi all’apice dei fragili rami. Il nome d’origine greca (“rhodon”, rosa, “dendron”, albero) ne dice la bellezza e, in alcuni paesi europei, è chiamato infatti anche “rosa delle Alpi”. Cinque i petali che s’aprono a stella celando stami e pistillo: spiccano sul verde smagliante delle foglie, anch’esse raggruppate al sommo dei rami e che, innestate a spirale, girano tutt’intorno al raspo florale quali collaretti vittoriani. Ad esse si deve la ragione dell’aggettivo classificatorio: ellittiche, coriacee, lucide nella pagina superiore ma polverose, d’un bruno ferroso, nell’inferiore. I fiori sortiscono poi in capsule con minimi semi piatti e alati di lentissima germinazione.

Essenza di poche pretese, tipica dell’arco alpino, rara sull’Appennino settentrionale, predilige terreni silicei, vegeta sulle cenge rocciose, sui versanti montani freschi e di protratto innevamento, nelle praterie d’alta quota dove può formare colonie (rododendreto). Connota tuttavia anche il sottobosco di conifere e si rinviene, eccezionalmente, a più modeste altitudini. Limitato all’areale delle Alpi centro-orientali è invece il Rhododendron hirsutum, che preferisce suoli calcarei, riconoscibile dal margine fogliare cigliato e dai fiori privi di fragranza.

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Gli ibridi che ornano i nostri giardini sono ben più vistosi, possono raggiungere i quattro metri d’altezza, portano lunghe foglie e pannocchie di grandi fiori dal lungo pistillo arcuato, e sopperiscono alla mancanza di profumo con un’ampia palette di colori che dal bianco copre tutte le sfumature dei rosa e dei rossi fino al viola.

La famiglia d’appartenenza è quella delle Ericaceae, e con eriche ed epilobi è pianta immortalata da Ted Hughes in Resti di Elmet, la sua raccolta più funerea. Ambientata nella regione natale, lo Yorkshire occidentale, selvaggia terra di brughiere già assurta agli onori letterari con Cime tempestose di Emily Brontë, la silloge è dedicata ai genitori e ripercorre la storia della regione dalla caduta di Elmet, l’ultimo regno celtico, all’epoca dello sviluppo industriale, dalla prima guerra mondiale fino al declino economico della civiltà delle fabbriche. Storia sociale e naturale insieme, dove il tema della decadenza e delle rovine si intreccia a quello del vigore della natura che si riprende ciò che l’uomo le ha tolto. Ma nella poesia intitolata I rododendri, tra le più fosche del libro, anche i fiori comunicano pestilenziale devastazione, quella stessa che aggredisce «i giardini morti nell’acido»:

Gocciolavano una ghiaccia virulenta
nella mia nuca –
gommata divisa carceraria della soppressione!

Sorveglianti e sorvegliate dalle
nere pietre del Municipio
proibenti proibite.

La protetta foglia del poliziotto!

Detestabile sterilità sempreverde!
Sopra giardini morti nell’acido
dove azzurre finestre, nel sacrario della domenica, si riducevano

ad artritici meccanismi a molla,
abbaiavano come terrier e agitavano bastoni dalle soglie
vaste e nere e serie come musei.

Cenotafi e silenzio della brughiera!
Rododendri e pioggia!
È tutt’uno. È finita.

Semprecupa agghindatezza dell’ufficialità –
uniforme alla riserva idrica, nel tempio
e nelle aiuole del cimitero,

brutta come una banda d’ottoni in India.

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Tuttavia, è bene terminare con una visione più lieve che ci consente di riunire, almeno nella poesia, una delle coppie letterarie più tormentate. Di Silvia Plath, sepolta nel West Yorkshire a breve distanza dalla dimora degli Hughes, ecco questa Favola delle ladre di rododendri:

Passeggiavo per il giardino delle rose deserto
nel parco pubblico; a casa sentivo il bisogno
della presenza di una sola rosa per immaginare
tutte le altre nel rigoglio dei colori.

La testa di leone di pietra incassata nel muro
gocciolava la sua saliva di un verde pigro
nella vasca di pietra. Recisi
un bocciolo arancione, lo misi in tasca. Quando

ebbe aperto il suo arancione nel mio vaso
e regredì a paonazzo sfatto, ne scelsi uno rosso,
sgombrando la coscienza col dirmi che derubavo
il parco di meno rosso di quanto non facesse l’appassire.

La fragranza muschiata mi allietava il naso, il rosso l’occhio,
il velluto dei petali le dita:
riflettei sulla poesia che traevo in salvo
dall’aria cieca, da una completa eclissi.

Ma oggi, con un bocciolo giallo in mano,
mi sono arrestata agli schianti improvvisi
nel boschetto di alloro. Nessuno si avvicinava.
Uno spasimo ha afferrato i cespugli dei rododendri:

tre ragazze, intente, strappavano a bracciate frasche
color ciliegia e rosa dai rododendri,
ammassandole su giornali distesi.
coglievano sfrontate, non rallentate da alcun rimorso.

E non hanno smesso sotto la mia occhiata severa.
Ma mi son chiesta poi, la mia rosa un’accusa,
che cosa si riduca a nulla: il furtarello di fronte alla rapina
o la raffinatezza di fronte all’amore.

Ma in montagna, non facciamo incetta di rododendri: come ho ricordato, i semi germogliano a fatica, e le nuove piante impiegano un decennio a fiorire. C’è pure un altro buon motivo per non devastare questi arbusti fioriti: danno un miele raro, pregiato, frutto di un’apicultura nomade d’alta quota, di resistenza. E vien sempre il momento che la resistenza è richiesta a tutti noi.

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