Zelkova, l’incantevole olmo del Caucaso

24 Novembre 2024

Zelkova: potrebbe essere il cognome di una ginnasta o ballerina russa, non starebbe male neppure a una spia, o alla protagonista del romanzo di un secolo fa, la Montagna magica (1924) di Thomas Mann. La fascinosa Claudia Chauchat, dalle morbide braccia e dallo sguardo obliquo, tipico dei suoi tratti esotici su cui lo scrittore insiste: «fisionomia tartara», «zigomi marcati», «occhi stretti», «occhi chirghisi». Questi ultimi soprattutto, colpiscono Hans Castorp ricordandogli quelli del compagno di classe Hippe Pribislav (da pronunciare, come insegna la voce narrante, Pscibislav). È un’ammaliatrice ambigua Claudia, una «noncurante» donna con il malvezzo di sbattere le porte, fare palline con la mollica del pane, mordicchiarsi le unghie, e strascicare il passo, un’andatura per cui, certo, il cognome da sposata, con la sua sonorità francese, meglio le si addice. Di quello d’origine, invece, poco si sa perché la memoria della signorina Engelhart fa difetto: «ha un cognome russo non francese, in -anov, -ukov, lo sapevo ma l’ho dimenticato». Una «petite tache umide» l’ha dirottata nel sanatorio svizzero di Davos, a far alzare la febbre di Hans Castorp e conquistarne la devozione dopo una conturbante festa di carnevale. Si dice avesse lasciato il marito, russo anch’egli a dispetto del nome, nel Daghestan, «una regione selvaggia» del Caucaso da dove proviene pure la Zelkova carpinifolia, essenza arborea altrettanto incantevole.

L’albero, della famiglia delle Ulmaceae, fu in tal modo battezzato dal botanico tedesco Karl H. Koch a metà Ottocento sulla rivista «Linnaea», adottando il termine georgiano (ʒelkva) desunto dalla descrizione del collega Peter Pallas (1741-1811) il quale, però, lo collocava nel genere Rhamnus (Rhamnus carpinifolia).

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Ne esistono circa sei specie, native dei boschi europei e asiatici; è albero maestoso, di notevole impatto ambientale, elegante e longevo, di lenta crescita ma che può raggiungere i trenta metri. Ama i climi temperati e, se ha spazio (come dovrebbe), si ramifica dal basso con portamento espanso, ampia chioma a cupola compatta e regolare; altrimenti il tronco, dalla liscia corteccia grigia che con l’età si screpola scoprendo macchie rugginose, si erge robusto per aprirsi in un alto ombrello. Le foglie caduche ad inserzione alterna, hanno lamina ovata e ricordano quelle del carpino ma con un tenero bordo a cappette (margine crenato) anziché doppiamente seghettato. È una pianta monoica con fiori maschili raggruppati all’ascella delle foglie nella parte basale o mediana dei rametti, mentre i femminili più piccoli, sono isolati, sempre ascellari ma collocati nel segmento terminale delle fronde. L’antesi, poco appariscente, avviene in aprile in contemporanea all’emissione delle foglie, e diffonde nell’aria un profumo intenso. Il frutto è una piccola noce di 5-7 millimetri caratterizzata da quattro solchi longitudinali.

Essenza assai usata in Oriente, in Giappone si chiama Keyaki (Zelkova serrata) e orna molti viali di Tokio, dove persino l’intero quartiere alla moda di Roppongi («sei alberi»), noto per la sua vivace vita notturna, ricorda ancora nel nome le sei Zelkove che un tempo caratterizzavano l’area.

Diffusa in Italia fino a 35.000 anni fa, si trova spontanea solo in un paio di popolazioni dei monti Iblei (Zelkova sicula), relitti delle foreste del Terziario; in Europa, fuori dal Caucaso, altre se ne rinvengono a Creta (Zelkova abelicea). Perciò la si può osservare solo negli orti botanici, nei parchi e giardini pubblici: gli ignari studenti dell’Università Statale di Milano sostano sulle panchine sotto le fronde delle quattro Zelkove di largo Richini che, in questa stagione crepuscolare, si armonizzano alle tonalità rosso-aranciate della facciata in cotto dell’antica Ca’ Granda.

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Fu importata in Europa a fine Settecento da André Michaux, botanico reale della corte di Luigi XVI, e l’esemplare più vetusto dovrebbe essere quello che ancora dimora nei Royal Botanical Gardens di Kew. Alcuni individui bicentenari vivono anche nei grandi parchi di nobili residenze: famoso è l’abitante del Parco Reale di Racconigi, un altro si può ammirare nel Parco Ducale di Colorno, mentre quello di Villa Zorze Rossetti a Latisana è deceduto il 16 gennaio 2008. Tuttavia, il suo legno chiaro e duro rivive in una scultura dell’artista Nico Colle: un’alta colonna di libri, soggetto pertinente alle nostre occorrenze.

Una sola, quest’oggi, la citazione letteraria, estratta dal libro di una scrittrice sudcoreana già nota ma assurta all’olimpo internazionale con la recente assegnazione del Premio Nobel.

Un libro che ci porta da un Nobel all’altro – Thomas Mann lo vinse nel 1929 –, da un sanatorio a un ospedale psichiatrico.

Nella Vegetariana (2007) Han Kang ci narra la vicenda di Yeong-hye vista da tre ottiche esterne, quella del marito, del cognato, e della sorella maggiore, corrispondenti ai tre atti in cui è scandito il libro. Yeong-hye è una giovane donna che dopo un sogno spaventoso decide di non mangiare più carne. Tale scelta di vita stravolge l’esistenza dei suoi parenti, soprattutto del marito, superficiale e mediocre, che l’ha «sempre considerata insignificante», e del padre che vi si oppone con la violenza consueta. Una figura passiva, servizievole, rassegnata, che pare adattarsi ad ogni situazione e soddisfare ogni richiesta altrui, d’un tratto mostra una volontà ferrea, inamovibile, che la porterà a desiderare di divenire pianta, essere pianta. Solo la sorella In-hye, pur con molte resistenze e nonostante la scoperta scandalosa del rapporto artistico-erotico tra Yeong-hye e suo marito (straordinario colpo di scena al centro del romanzo), non l’abbandona e se ne fa carico. Continuerà a farle visita nell’ospedale psichiatrico dove viene ricoverata, e dove la scelta di Yeong-hye diviene a tal punto radicale da percepirsi vegetale: rifiuta di parlare e di ingerire qualsiasi cibo eccetto l’acqua, si mette a testa in giù in equilibrio sulle mani a imitare la forma dell’albero apparsole in un nuovo sogno rivelatore, si espone nuda al sole per cercare invano di avviare il processo di fotosintesi clorofilliana: «tutti gli alberi del mondo sono come fratelli e sorelle», dirà alla sorella al suo ingresso nella clinica, quando ancora un poco comunicava.

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Il passo che vi trascrivo è tratto dalla terza e ultima sezione del romanzo, quando la situazione precipita dopo la fuga nei boschi di Yeong-hye, e la sorella si reca per l’ultima volta a farle visita:

«–Ho un appuntamento con il dottor Park In-ho.

L’impiegata al banco la saluta, riconoscendola dalle visite precedenti. Lei chiude l’ombrello gocciolante e lo fissa con il laccetto, poi si siede su una lunga panca di legno. Mentre aspetta che scenda il dottore, si volta a guardare la zelkova che sorge nel giardino davanti all’ospedale. È un albero vecchissimo, è evidente, deve avere come minimo quattrocento anni. Nelle belle giornate, quando dispiega al sole i suoi innumerevoli rami lasciando che la luce faccia scintillare le foglie, pare quasi che voglia comunicarle qualcosa. Oggi, che è una giornata fradicia e intorpidita dalla pioggia, è reticente, e cela i propri pensieri. Nella parte bassa del tronco, la corteccia vecchia è scura come una sera satura di umidità, e le foglie, sferzate dalla pioggia, fremono mute sui rami più piccoli. E lì vede il viso di sua sorella, che tremola come una spettrale immagine residua sullo sfondo di quella scena silenziosa».

Un libro terribile e avvincente, crudo e misterioso, che non dà risposte e si rivolge a un lettore disposto ad affrontare la vertigine del vuoto.

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