Lo strano caso dei Colchici d’autunno: le figlie prima delle madri

27 Ottobre 2024

Tra letteratura e antropologia c’è una zona di contatto che tende all’osmosi. Più di un antropologo di formazione o di mestiere si è dedicato al romanzo; altri, nella narrazione del loro esercizio professionale, sono penne di tutto rispetto. Come Claude Lévi-Strauss, che s’è occupato anche di musica, arte e letteratura. In quest’ultimo ambito, l’antropologo e strutturalista francese si è applicato su una poesia di Guillaume Apollinaire Les Colchiques, e sul fiore in questione: il colchico autunnale (Colchicum autumnale). Il saggio, intitolato Un piccolo enigma mitico-letterario, è compreso nella silloge del 1983 Lo sguardo da lontano, tradotta l’anno successivo da Primo Levi per l’editore Einaudi, che Calvino fece in tempo a recensire. 

Apollinaire, comprensibile quanto inevitabile pseudonimo di Wilhelm Albert Wlodzimierz Apollinaris de Waz-Kostrowicki, era nato a Roma il 26 agosto 1880, morirà giovane, a Parigi, il 9 novembre 1918, vittima dell’epidemia di febbre spagnola. Sperimentatore, giocoliere della parola, fu un autore di riferimento delle avanguardie. Gli spettacoli della natura, e in genere tutto il vivente, furono per lui oggetti primari di partecipata osservazione e fonte d’ispirazione poetica, come in questo componimento che leggiamo tradotto da un altro suo grande collega, Vittorio Sereni. La traggo da Canzoni per le sirene che accoglie versioni di poeti italiani (Mondadori 2018):

Il prato è velenoso ma leggiadro in autunno
Le mucche pascolandolo piano piano s’intossicano
Lì il colchico fiorisce colore d’ombra lilla
Ombrati di viola come questo autunno
A un fiore come quello i tuoi occhi assomigliano
E per loro piano piano la mia vita s’intossica

Chiassosi e infagottati i bambini di scuola
Arrivano soffiando nelle armoniche
A cogliere i colchici somiglianti a mamme
Figlie di figlie identiche e del medesimo colore 
Delle tue palpebre inquiete come al vento folle i fiori

Canta un canto sommesso il guardiano del gregge
E lente le mucche lasciano muggendo 
Per sempre il grande prato mal fiorito d’autunno

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A dispetto del titolo del volume, Lévi-Strauss mette sotto la lente d’ingrandimento un verso della poesia: «les colchiques qui sont comme des mères / filles de leurs filles», i colchici che somigliano a mamme, figlie delle loro figlie.

La singolarità di questo intervento sta nel fatto che l’interesse dell’antropologo non si deve a ragioni di etnobotanica come accade, per esempio, nel suo Pensiero selvaggio. Il libro, edito da Plon nel 1962, reca in sovracoperta un cespo di violette tricolor che pare suggerire una delle tesi principali: le classificazioni, i sistemi tassonomici di animali e vegetali di popolazioni pregiudizialmente dette selvagge, sono tutt’altro che astrusi, bensì metodici, complessi, fondati su solidi saperi teorici, «comparabili, da un punto di vista formale, a quelli che la zoologia e la botanica continuano a utilizzare». Perciò riuscire a identificare con precisione le piante (e gli animali) per gli studiosi di questa disciplina è prassi necessaria per una più rigorosa interpretazione dei miti e dei riti in cui ricorrono. Lévi-Strauss ce ne offre un esempio con l’essenza chiamata «sage» dalle popolazioni indigene dell’America del Nord, che gioca un ruolo capitale in molti rituali: è l’Artemisia (Artemisia frigida), dalla livrea argentea, chiamata a rappresentare il côté femminile, lunare e notturno, e usata nei trattamenti della dismenorrea o dei parti difficili. Così la Solidago (Solidago virga aurea) dai fiori gialli, efficace contro i disturbi delle vie urinarie, simboleggia invece il côté maschile, solare e diurno. Nel volume, le due erbacee sono persino riprodotte nelle tavole botaniche di Carl F. Ledebour (Icones plantarum) e dal Bulletin of the Torrey Botanical Club. Queste precisazioni non sono secondarie, si sono rivelate utili a risolvere problemi quali, appunto, la dicotomia tra il polo femminile e maschile. Allo stesso tempo palesano dei rituali comuni a diverse popolazioni anche lontane geograficamente, con lingue e culture differenti. Inoltre, soggiunge Lévi-Strauss, l’analogia tra le posizioni dell’Artemisia nel nuovo e nell’antico mondo, o il ruolo riservato in Occidente alla Solidago, altrimenti detta «ramo d’oro», può risultare interessante per un’indagine comparata.

Niente di tutto ciò a proposito del colchico autunnale di Apollinaire. Insoddisfatto dei critici che hanno inteso il verso in modi bizzarri o superficiali, come il semiologo Jean Claude Coquet, Lévi-Strauss si produce in uno studio puntuale. Entra nel terreno più proprio della botanica e vi scopre il fenomeno pertinente al fiore e alla sua riproduzione, necessario per illuminare il verso, la collocazione e il motivo dell’epiteto solo in apparenza incidentale. Lascio a lui la parola, la sua descrizione mi esime persino dal redigere la scheda illustrativa:

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«il Colchico produce larghi fiori che spuntano rapidamente dal suolo e si aprono in autunno. Essi portano solo stami; l’ovario è situato sul fianco del bulbo, a dieci o venti centimetri sotto terra. Per compiere la fecondazione, il polline si sposta all’interno del perianto, che continua verso il basso a forma di un tubo cavo che costituisce uno stelo cinque o sei volte più lungo del lembo: per una distanza insomma di parecchie decine di centimetri».

Le sue fonti gli rivelano altre due particolarità del Colchico: l’ovario resta sepolto accanto al bulbo fino a primavera quando si sviluppa salendo alla superficie e, giunto a maturazione, dà un frutto capsulare a tre logge visibile al centro delle foglie che pure spuntano in quel periodo. Perciò, ogni anno, il bulbo, esausto dopo aver prodotto fiori e frutti, è sostituito da un altro cresciutogli a fianco, cosicché la pianta si rinnova sempre dallo stesso lato, e si sposta ogni anno della misura del suo bulbo:

«Se dunque il fiore del Colchico è in senso stretto ermafrodita, questo ermafroditismo è di carattere specialissimo, perché l’organo maschile e quello femminile sono separati dalla massima distanza: quello è nel fiore, e sempre nel punto più alto; questo è sotterra a parecchi centimetri, confuso nella massa del bulbo generatore, ad un tempo origine della pianta attuale e principio di quella che le succederà in avvenire. Una connessione temporale si accompagna ad una separazione spaziale».

Ebbene, i fiori precedono di molti mesi sia l’apparizione delle foglie – carnose, lanceolate, dall’apice acuto – sia dei frutti. E, dal momento che i semi non esercitano una funzione primaria nella moltiplicazione della specie (il loro processo di germinazione è assai lungo) garantita dallo sdoppiamento del bulbo, il Colchico può dirsi un clone, per cui è pressoché impossibile distinguere quale sia la madre e quale la figlia. Commenta Lévi-Strauss:

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«Nel Colchicum autumnale fattori di confusione controbilanciano diversi tipi di sfasamento: uno sfasamento verticale caratterizza il modo della fecondazione, uno orizzontale il modo della riproduzione. A questi due sfasamenti d’ordine spaziale se ne aggiunge un terzo nell’ordine temporale, poiché il fiore di una determinata pianta appare otto o nove mesi prima delle foglie».

Si aggiunga poi che gli antichi botanici chiamavano Filius-ante-patrem non solo il Colchico ma anche, per ragioni analoghe, la Tussilago e l’Epilobio, e «Apollinaire era abbastanza erudito per aver incontrato questi vecchi termini, e scelto di farne uso». Ciò basta a giustificare l’espressione. Ma, non contento, l’antropologo adduce usi in ambito mistico, che riguardano la vergine Maria, e letterario (Chrétien de Troyes, il Parzival di von Eschenbach), giungendo a citare pure il matematico e filosofo René Thom a proposito della multipla interazione tra significante e significato. Nel testo poetico tale instabilità nella relazione tra significante e significato, sempre pronta a ribaltarsi, si verifica nelle immagini del fiore: «quando Apollinaire descrive il colchico “couleur de cerne”, color d’occhiaie livide, e più oltre “couleur de tes paupières”, color delle tue palpebre, fa delle palpebre il significante dei fiori, che, da significante delle palpebre, divengono ora il loro significato».

Infine, accenno solo al fatto che per Lévi-Strauss – qui più in veste di strutturalista e semiologo – nella pianta, divenuta segno, la particolarità che la natura le ha assegnato si unisce alla funzione semantica affidatale dal poeta. L’epiteto assolverebbe così alla funzione di umanizzare il fiore entrando in triangolazione con i bambini – maschi, in francese, «per designazione» – che matureranno e se ne andranno, ma che ora raccolgono i colchici, e le vacche, femmine, che invece presto moriranno macellate o avvelenate dai fiori. Tra questi due piani, uno ascendente (i bambini), l’altro discendente (le vacche), i colchici rappresentano il vertice stabile di chi si perpetua sul piano orizzontale. Perciò possono ben dare il titolo alla poesia. E se il simbolismo dei bambini e delle vacche rimane vago, e va inferito dal testo, quello dei fiori è enunciato esplicitamente, ne è la «cellula generatrice»: con il loro pallido colore violaceo, quando sono agitati dal vento simboleggiano gli occhi e le palpebre della donna amata che lentamente avvelenano il poeta. E con ciò i colchici assumono «valore pieno ed intero di segno».

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Dopo avervi ammorbato con questo resumé del pur affascinante saggio di Lévi-Strauss, posso solo cercare di sollevarvi con l’etimo del fiore. Rinvia all’antica Colchide, terra dove nascono in massa, e dove la maga Medea lo prediligeva nella preparazione delle sue misture venefiche. La colchicina è infatti la sostanza tossica contenuta in tutto il fiore e nei semi, che può portare a esiti nefasti anche negli umani.

Quindi, usiamo i bulbi solo come essenza per ornare il giardino d’autunno: vogliono terra ricca e umida questi fiori dalle semplici corolle di sei tepali color malva, che circondano sei stami dalle antere gialle (è detto anche falso zafferano) e tre stili. Meglio se li collocate un po’ a caso nel prato, daranno quel quid di spontaneo sempre d’effetto. Piantateli in agosto o ai primi di settembre, in zone di mezz’ombra luminosa, non avranno poi bisogno di essere rimossi se non quando i fiori scarseggeranno. A differenza del Croco dalla fioritura primaverile e appartenente alla famiglia delle Iridaceae, il Colchico con le sue molte varietà (circa sessanta) rientra nella famiglia delle Liliaceae; in Italia allo stato spontaneo troviamo oltre al C. autumnale, il C. lusitanum e, nelle regioni meridionali, il C. bivonae e il C. Cupanii, tutti velenosi e deliziosamente lilla, eccetto che per il pallido C. alpinum. Se li volete gialli dovete cercare l’indiano C. luteum.

Come ultima venia, vi regalo i sempre piacevoli versi di Guido Gozzano, dall’incipit dell’ottava sezione del poemetto La signorina Felicita ovvero la Felicità:

Nel mesto giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse volendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio 
accompagnarmi loro nel costume.

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