Antonio Prete: paesaggio dell’attesa

11 Ottobre 2024

C’è una fenomenologia ricorrente nella poesia di Antonio Prete – in quella delle precedenti raccolte Menhir, Se la pietra fiorisce, Tutto è sempre ora – così come nel recentissimo Convito delle stagioni (Einaudi, Torino 2024), che non sapremmo definire altrimenti che “campo di forze”. 

Molto spesso le poesie di Prete prendono le mosse dall’osservazione, o contemplazione, di fenomeni, naturali – un paesaggio, gli alberi, il mare, animali, una sorgente, un battito d’ali – o interiori – immagini e figure della memoria che lo spazio naturale evoca e attrae. 

E pressoché sempre, ciò che cade sotto lo sguardo appare innervato da una “energia” (termine che ricorre spesso anche nelle prose di Prete) che fa sì che gli elementi risultano in tensione o in movimento o in trasformazione. Alcune occorrenze lessicali verbali: fluttuare: Amore e turbamenti fluttuano nell’aria (p.5); sfumare: Petali gialli che sfumano in bianco niveo (p.7); andare: D’essi [gli amici] scorgo / ora, in questo crocevia di presenze, / mentre vanno, le distinte postille (p.8); sfogliare: un album che il vento siderale / sfogliava (p. 14); trascorrere: trascorrevano ombre (p. 14); venire: ho visto / che venivano, dietro di me, in forma / di figure le stagioni della mia vita (p. 15); dilagare: un rosa occiduo, e un velo di celeste / che dilaga verso la prima stella (p. 19); sospingere: mondi che ora la luce solare / ha sospinto nell’assenza (p.23); lontanare: [acqua] Gorgoglia tra i salici, / traspare e s’inombra, lontanando tra gli argini che si spengono (p. 24); atterrare: Ora atterrano sul prato gli anni saltimbanchi (p. 25); transitare: di quel che transitando fu presto aria (p. 25); pulsare: In quel che appare / e in quel che si nasconde pulsa un tempo/ che è attesa (p. 27)

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Lo stesso pervasivo campo semantico aggrega anche numerosi sostantivi e aggettivi: fuggitive (p. 5), balenio (p. 7), danza (p. 18, 25), turbine (p. 14), corsa (p. 19), giostra (p. 20), ritmo (p. 20), fuga (p. 22), vertigine (p. 22), traccianti (p. 23), ecc. (ed è verosimilmente questa “energia” che spiega, nella poesia di Prete, elementi espressionistici di stampo reboriano e che riconduce all’ alveo di una certa poesia simbolista).

Talvolta il movimento e la tensione sembrano circoscritti al mondo della natura; in altri casi quest’ultimo entra in risonanza con l’universo interiore dell’autore, facendo più chiaramente emergere i grandi temi della sua poesia (che sono gli stessi della sua riflessione in prosa, che con la poesia costituisce un continuum): il tempo, la memoria, il desiderio, la distanza, la dialettica tra presenza e assenza. 

Del resto, la continuità tra “cielo interiore” e “cielo esteriore” è un punto fermo nella poetica dell’autore. In un libro in cui, con la curiosità culturale che gli è propria, esplora le immagini dell’interiorità nella letteratura, scrive: «Guardare dentro di sé come se si scrutasse un cielo: i ricordi sono comete in transito» e, viceversa: «Ma c’è anche l’opposto movimento: vorremmo attingere una tale leggerezza del pensiero, una tale libertà delle idee, da poter osservare le cose dall’alto, da lontano, in uno stato di costante elevazione. Il cielo interiore e il cielo esteriore si guardano, si scambiano immagini e figure, si riflettono uno nell’altro»; Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri 2016, p. 114).

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Landscape with Stars Henri-Edmond Cross (Henri-Edmond Delacroix) French ca. 1905–1908.

Leggiamo un esempio dell’una e dell’altra tipologia. 

Nel cerchio del vedere

È un intrico di rami bruni, la linea
dei tigli, privi delle loro foglie.
Sui tronchi, macchie di muschio.
Dove finisce l’arato, boschi di faggi,
di castagni. In lontananza, sperduti
torrioni.

Questo cerchio del vedere
è solo un punto. S’aprono, di là da questo,
altri cerchi, con fiumi che corrono verso il mare,
strade che rigano valli, cieli che si perdono
in altri cieli, tra vortici d’astri.

Quel che qui è assente dalla vista
è nel respiro degli alberi, nel tordo
che si posa un istante sul ramo alto
della magnolia, nel suono del vento
tra i cespugli.
In quel che appare
e in quel che si nasconde pulsa un tempo
che è attesa. Tremito di sconfinata attesa.

Oltre che per la sua alta qualità poetica, abbiamo scelto questo testo per l’esplicitazione quasi didattica di ciò che abbiamo chiamato “campo di forze”. 

Nella prima strofa si cumulano, quasi paratatticamente, una serie di immagini di natura, piuttosto ravvicinate e osservate fin nel dettaglio («Sui tronchi, macchie di muschio»). La seconda strofa spiega che tale visione è provvisoria e destinata ad espandersi (e si noti lo stilema leopardiano: «di là da questa») fino ad una prospettiva cosmica. La terza e conclusiva strofa spiega perché questo può accadere: quel che è presente e quel che è «assente dalla vista» condividono una stessa dimensione, che è “l’attesa”; anzi: «un tempo che è attesa». È, ci sembra, proprio questa “quarta dimensione” temporale che conferisce ai singoli elementi l’energia («pulsa», «tremito») e li pone in tensione e perciò in rapporto con tutti gli altri. 

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Landscape with a Large Building Franz von Hauslab the Younger Austrian 1818–83.

Alla poesia di Prete forse si addice quella formula che in un libro famoso Gian Carlo Roscioni riferiva alla prosa di Gadda e alla gnoseologia ad essa sottesa: Singula enumerare. Omnia circumspicere: una aspirazione alla totalità e al senso che, come spiegava il professor Kant, sarà pure un’idea regolativa destinata razionalmente alla sconfitta, ma che inevitabilmente ritorna: in tutti e a maggior ragione nei poeti. 

Vorremmo a questo proposito richiamare una delle bellissime prose che l’autore ha inserito nella raccolta (secondo un tratto caratteristico di tutta la sua opera, che vede sfumare le distinzioni troppo nette tra i generi: prosa critico-saggistica, narrazione, prosa aforistica, poesia in versi): 

Questo scritto non vuole dimostrare ma riflettere, non persuadere il lettore ma renderlo partecipe di una fondata percezione: quel che accade – nella vita quotidiana dei singoli e in quel teatro, spesso tragico, che chiamiamo storia – ha con sé, in ogni azione, in ogni gesto, qualcosa che non prende forma, restando inattuato, qualcosa che ha a che fare con la speranza priva di risposta, con il desiderio rimasto vuoto, con il progetto inadempiuto. Contrattempi e ostacoli impediscono l’attuazione di un’idea, o di un sogno, ma quell’idea e quel sogno hanno avuto un tempo, e spesso un’energia che non si disperdono, anzi agiscono silenziosamente nella formazione di nuove idee, di nuovi sogni. Quel che non è stato da noi vissuto continua a vivere in noi con una sua presenza: ombra che presiede a una scelta, immagine che favorisce un incontro, mancanza che sospinge verso una ricerca. Potremmo dire che un’immensa elpisfera (dal greco elpis, speranza) circonda la Terra: le azioni e gli stessi pensieri attingono il loro respiro, il loro tempo, e persino il loro prender forma, da questa invisibile fascia che avvolge la Terra.

Il discorso della poesia è quindi un’attesa che è «ricerca» «desiderio» e «speranza».

La dimensione temporale prima citata che irrompe nel paesaggio è, ci sembra, esistenziale e non può che essere del soggetto. Un esempio, anch’esso didattico, del legame tra le immagini naturali e la dimensione soggettiva della memoria è nella poesia Un albero, un nome:

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Design for Salon Ceiling, Hôtel Candamo Jules-Edmond-Charles Lachaise French Eugène-Pierre Gourdet French ca. 1873.

Un albero, un nome

Dico: ciliegio. E appare nel suo inverno,
già con le prime gemme. Nei rami
il ricordo dell’ultima neve.
C’è, nel nome, la chimica delle cellule arboree,
l’attesa del fiore, il primo infogliarsi.
Ci sono le radici, la fotosintesi,
la linfa, l’energia molecolare.
E si aprono nel nome filmiche vallate
giapponesi, con floreale allegria.

Mi porta anche, il nome, le ombre meridiane
di un orto, in un’antica primavera:
c’era un ciliegio che, ragazzi,
spogliavamo dei frutti.
Con il nocciolo si potevano
fare, bucandolo, minuscoli fischietti.
Con un grappolo di ciliegie appeso
alle orecchie si improvvisavano
selvatici monili.
È quel ciliegio
che chiede ora timidamente
di entrare in questa poesia.

Il complesso stratificarsi di piani concettuali di questa poesia è particolarmente interessante. Del ciliegio si colgono prima le sue connotazioni esteriori ed oggettive («la chimica delle cellule arboree,/ l’attesa del fiore, il primo infogliarsi./ Ci sono le radici, la fotosintesi, / la linfa, l’energia molecolare: singula enumerare) poi, secondo quel movimento di espansione visto nella poesia precedente, altre immagini («filmiche); fa infine irruzione la dimensione memoriale di una terra e di una infanzia attorno a cui si addensano altre immagini correlate al ciliegio.

Ma nel testo c’è di più, ovvero il gioco, in questo caso condotto a carte scoperte, del ruolo del linguaggio. La poesia, infatti, si apre con un ciliegio che è anzitutto “nominato” («Dico: ciliegio. E appare…»), che comincia ad esistere, o ad esistere nuovamente, nel momento in cui diventa elemento della lingua della poesia. 

Vorremmo concludere con ciò che Prete stesso scriveva proprio su “Doppiozero” a proposito dell’Infinito di Leopardi e del compito della lingua e che compendia bene, credo, il suo stesso lavoro di poeta: 

Portare nella lingua l’assenza suprema, nominare l’indicibile, rappresentare l’irrappresentabile è del resto compito proprio della poesia: lingua che ospita il visibile e l’invisibile, la presenza e la parvenza, il configurabile e il vuoto di ogni figurazione.

[…] proprio nella lingua risuonano e si mostrano le rifrazioni dell’infinito, la dicibilità appunto solamente linguistica, vale a dire i visibili e udibili riverberi. 

In copertina, Bouquet of Flowers with a Painted Lady Butterfly, Willem van Leen, 1763 - 1825.

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