Antonella Anedda: referti dell’esistenza

22 Dicembre 2023

Garzanti raccoglie in un ampio volume (Tutte le poesie, prefazione di Rocco Ronchi) le sei raccolte fino ad oggi pubblicate di Antonella Anedda: Residenze invernali (1992), Notti di pace occidentale (1999), Il catalogo della gioia (2003), Dal balcone del corpo (2007), Salva con nome (2012), Historiae (2018). 

È un’occasione per scoprire, o per rileggere, l’opera poetica di quella che è senza dubbio una delle voci più rilevanti e significative del panorama italiano e forse non solo italiano degli ultimi decenni.

La possibilità di attraversare diacronicamente la scrittura della Anedda consentirà al lettore di coglierne le evoluzioni tematiche e gli sviluppi stilistici, così come di osservare come una poesia a prima vista così orientata sui destini individuali sia in realtà innervata dalle suggestioni della storia degli ultimi decenni: le Notti di pace occidentali si riferiscono per antifrasi alla guerra del Golfo e ad altri stermini, così come nelle Historiae si affacciano i “massacri”, i “morti affogati”, gli “[spari] alle grandi porte dell’Est” e i corpi raccolti “nei mercati del Sud”; la nuova normalità di un millennio che pure, a detta di qualcuno, avrebbe dovuto segnare la fine della storia e che invece esige a quanto pare un fermo tratto tacitiano (a cui allude il titolo dell’ultima raccolta) per essere descritto. 

Tuttavia, l’impressione complessiva è quella per cui elementi profondi di continuità tematica, gnoseologica e per certi aspetti anche formale prevalgono sugli scarti e le peculiarità proprie delle singole raccolte, quasi che Anedda abbia fin da principio individuato i nuclei della sua poesia e abbia continuato a modularli e ad aggiungervi maturità e consapevolezza.

Un ricorrente nucleo tematico riguarda lo stato di sofferenza, della mente e del corpo, in cui l’essere umano viene a trovarsi; nelle “residenze invernali” (ospedaliere) della prima raccolta o semplicemente in una stanza, spesso una cucina, in un letto di casa oppure (più raramente) in uno scenario di guerra. La condizione umana ripete se stessa nella disarmante debolezza della sua corporeità:

Luci notturne. / I malati dormono gli uni / vicini agli altri posati / su letti uguali. / Solo diverso è il modo / di piegare le ginocchia / se le ginocchia / possono piegare, diversa / l’onda delle loro coperte (pp. 33-34, da Residenze invernali).

Molto era in quell’alba, in quell’albergo, nella carta / che mostrava l’acqua dura del muro e del soffitto. / Tutto, forse il senso del mondo, era nel singhiozzo di lei / e nel gesto di lui / che le avvolgeva i seni nel lenzuolo (p. 208, da Il catalogo della gioia)

Vi è nelle poesie di Anedda una situazione topica: un essere corporeo (variante: un io narrante), collocato in un interno domestico popolato dagli oggetti di ogni giorno (variante: in uno spazio reclusivo), intento a gesti quotidiani (variante: che prova dolore). Lo sguardo che lo osserva a un certo punto si sposta da quell’essere corporeo e dallo spazio chiuso che lo circoscrive per allargare, talvolta vertiginosamente, la prospettiva verso l’esterno, con un movimento che valica un limite fisico (oltre un vetro, oltre un muro, oltre una porta) e abbraccia uno spazio naturale, costituito dagli elementi della natura (il freddo, il vento, la pioggia ecc.) oppure si immerge in una dimensione temporale (gli anni, le stagioni): il “tempo slittante che sta andando via”, come dice la stessa Anedda in una bella intervista a Bruno Brunini. 

Chiedi al tatto, quando la stanza è buia. / Vai verso la mela sul comodino, / è tonda, liscia, usuale come crediamo debba essere la Terra. / Se tremi, come tremi e non è inverno, tocca la parete di legno, / in quei tronchi fissati contro il muro la realtà scaccia l’incubo. / Accendi la luce, penserai di esistere mentre la luna ruota (p. 416, da Salva con nome)

La stanza è vuota. / Il corpo diminuito nella sera. / Il viso nel vetro del lenzuolo. // Due mele sopra il tavolino scintillano. / Parlano mitemente / la loro lingua di sfere. // Correte nuvole alla notte / fatela entrare nel vestito appeso / che lo scuote come se avesse i seni // nuvole infittitevi al buio. Raffiche / trasformatela in fretta (p. 338, da Dal balcone del corpo)

Può accadere qualche volta che il movimento sia reversibile: quello che abbiamo chiamato “l’esterno” irrompe e sconvolge “l’interno” in una specie di visionaria apocalisse, domestica e metafisica insieme:

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Il libro putrefatto dalla pioggia, l’argilla che ha smottato, / la terra stride, i piatti crollano, / i muri si scollano dai quadri, nulla è allineato come i pianeti che crediamo di capire. Nella scossa che i cani annunciavano latrando stamattina / con i musi puntati verso uno sciame di api immaginario / il pavimento slitta verso il vuoto. Anche noi / fuggiamo nell’onda di una memoria della specie (oh tempesta di fuoco e di basilico, / di lampada e letti scardinati / e tu monte che inghiotti acqua e aria) / mentre la casa si scompone e scompare (p. 522, da Historiae)

A volte “l’esterno” irrompente – invece che natura, aria o tempo in fuga – assume l’aspetto del flusso di notizie (spesso pessime) che nelle nostre vite portano i media:

[…] Impegnarsi / a preparare il mattino come si prepara il caffè / premere polvere nera sull’acciaio, / per poi soffiare sull’amaro. / Nella radio ronza l’inferno. / Tendo l’orecchio alla morte, a come arriva. / Sparano alle grandi porte dell’Est / raccolgono corpi nei mercati del Sud. (p. 494, da Historiae). 

Ci si potrebbe chiedere se in questa dialettica interno / esterno, tra la finitezza del corpo individuale (e dei suoi oggetti) e apertura verso gli in(de)finiti spazi e tempi del mondo naturale, (la “dismisura delle cose”, p. 470, “Geometrie”, da Historiae) non sia possibile scorgere una tentazione di trascendenza. Se c’è, quest’ultima non è espressa in termini religiosi, perché “Dio non esiste”, anche se talvolta gli si parla, come si legge in una delle poesie più toccanti del volume: 

Quando andammo a trovarlo c’era un estraneo sul cuscino. / Guardava qualcosa che noi non vedevamo / forse un paesaggio o un viso, cose remote, acquatiche / nascoste da un canneto. A loro – non a noi – sorrise. / Quel corpo tanto amato si scuoteva come uscito da un fiume. // Dio non esiste ma gli chiesi comunque di lasciarlo, / di tenerlo così, come un suo cane (p. 394, da Salva con nome). 

Come è stato rilevato da più di un critico di Anedda, la dimensione dell’umano è “tragica”; ma non tanto nel senso della drammaticità, che può anche non esservi in questi referti fenomenologici dell’esistenza, ma nel senso di una presa d’atto di ciò che irrimediabilmente è. A questa condizione il “tragico” può non escludere a priori qualcosa che somiglia alla “letizia”:

Eppure il buio non è buio, / l’acqua non è disagio, né l’indifferenza un’offesa. / Succede a volte fino a che siamo vivi, / di provare una pace inspiegabile. Forse la letizia / di cui parlano i santi e che non chiede niente, / è solo attenta, premuta sulla terra, distante dalle stelle. (p. 471, da Historiae) 

e neppure al “futuro”:

Qualcuno a quest’ora avrà appena finito di sognare / mentre i popoli migrano, / qualcuno si sarà di nuovo messo a letto, / per qualcuno il mattino non diventerà mai sera […] In uno dei palazzi di fronte un cane resterà immobile / per ore vicino al suo padrone / nel suo futuro semplice di ciotola / in attesa di cibo che tintinna nell’aria. (p. 539, da Historiae)

Nella accettazione di un genere di esistenza che Heidegger avrebbe definito “deietta”, nel riconoscimento della propria finitezza si giunge alla cosiddetta “autenticità”, usando ancora una categoria di quel filosofo; che è però una categoria individuale.

Se si limitasse a ciò, questa poesia metterebbe in scena la condizione della parte moderatamente laica e moderatamente riflessiva dell’umanità occidentale, che ha scorso Orazio e Montaigne e vive (e conclude) le sue individuali esistenze in una quasi accettabile bolla di quotidianità, tutt’al più resa inquieta dal sospetto che oltre la bolla ci sia altro: “ronzante” ed estraneo e minaccioso.

Ma è questa la conclusione di Anedda? Non crediamo che sia questa. 

Registrare fenomenologicamente ciò che è, è un punto di partenza a cui si aggiunge altro:

Oggi non è difficile capire da dove viene il male:/ Neve tutta la notte, minima meno 10, / Un uomo muore assiderato. // Da oltre il vetro osserva tre persone, una famiglia, forse, / un gruppo minimo nel gelo di stasera. […] Segui la loro evoluzione / in cui qualcuno muore e gli altri avanzano a fatica. / Creature senza creatore in cammino da ere / fino al gesto in cui una, toccando l’altra, la consola. (p. 417, da Salva con nome)

Vedo i letti di chi amo disporsi in lunghe file, / ogni letto un corpo e un nome. / Più tardi sistemerò la poesia, ne farò una casa / con tetti a punta esatti per la neve. Ora bisogna uscire, / vivere per chi resta, scolpire / ogni giorno di nuovo la sua forma, lottare / per quel corpo che l’aria comunque disferà a folate. (p. 507, da Historiae)

Questo altro – solidarietà, consolazione, proiezione verso gli altri – è un atteggiamento che la parte moderatamente laica e moderatamente riflessiva dell’umanità occidentale tende a rimuovere. “Gli uomini sono esseri mirabili” recita un verso di Franco Fortini. La poesia di Anedda ce lo ricorda e ci ricorda che a volte può essere vero. 

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