L’ultimo peccato di Rossini
«Io abbandonai la mia carriera musicale nel 1829; il lungo silenzio mi ha fatto perdere la potenza del comporre, e la conoscenza degli istrumenti. Ora sono un semplice pianista di quarta classe, e quantunque qualificatomi, come vedi, assai modestamente, i pianisti di tutte le nazioni (che mi fan festa in casa mia) mi fanno sorda ed aspra guerra (dietro le spalle) a modo che non trovo allievi, malgrado il modico prezzo delle mie lezioni di 20 soldi: né mi è dato produrmi, perché non richiesto; e vivo quindi, qual pianista, sotto il pubblico flagello...»
Poche settimane dopo la trionfale prima della Petite Messe Solennelle, avvenuta a Parigi nel palazzo del banchiere Alexis Pillet-Will la sera del 14 marzo 1864, Gioachino Rossini si dipingeva (come in questa lettera all’amico compositore Giovanni Pacini) in maniera vittimistica, auto commiseratoria e fuorviante. Atteggiamento singolare, ma non sorprendente: anche se i tempi più duri della forte crisi depressiva che lo aveva attanagliato per anni erano alle spalle, la sua visione del mondo, della musica e della sua stessa creatività ne risentivano, quanto meno accentuando la sua corrosiva ironia, spinta fino al paradosso.
La realtà era che la Petite Messe aveva rilanciato impetuosamente la sua immagine riportandolo al centro della scena in età ormai avanzata (aveva allora 72 anni, gliene restavano da vivere quattro). L’evento si era svolto al cospetto del gran mondo parigino (compositori, scrittori e artisti, nobili, ricchi borghesi e alti prelati), la stessa élite assidua frequentatrice delle serate musicali che il compositore teneva da anni ogni sabato nella sua casa parigina (e che sarebbero proseguite fino a pochi mesi prima della morte). Basti a testimoniare il successo la testimonianza di un ascoltatore speciale come l’operista Giacomo Meyerbeer: «Che cosa possiamo fare noi al suo confronto, noi che andiamo sempre a tastoni ed esitiamo ad ogni momento? (...) Guardate come ha saputo creare in due mesi un mondo intero! Egli è il Giove del nostro tempo, e ci tiene tutti nel cavo della sua mano».
Un anno più tardi, dopo una nuova esecuzione sempre al palazzo Pillet-Will, finalmente il compositore si sarebbe concesso un sorriso, scrivendo all’amico Francesco Florimo: «Mi è caro farvi noto che un mese or fa, fu per la seconda volta eseguita dal mio amico conte Pillet-Will, e nel suo palazzo, una mia Messa. Il credereste? I dottori parigini mi hanno classificato per questo lavoro nel numero dei savants e dei classiques. Rossini savant! Rossini classique! (…) Se il povero mio maestro Mattei vivesse, direbbe: “Va’ là che questa volta Gioachino non ha disonorata la mia scuola”».
Il primo elemento di quella che diventerà la Petite Messe Solennelle risale al 1862 ed è il Kyrie, pensato come omaggio musicale all’amico compositore Louis-Abraham Niedermeyer, scomparso l’anno precedente. La sezione centrale, il Christe per coro senza accompagnamento, cita infatti il tema dell’Et incarnatus (parte del Credo) di una Messa scritta dal collega nel 1849. Nel giugno 1863, a quella pagina furono aggiunti un Gloria e un Credo, delineando così una “Piccola Messa di Gloria”, come l’aveva titolata in italiano Rossini, cioè una composizione comprendente solo i primi tre pezzi dell’Ordinario. Il lavoro era stato portato a termine nella villa suburbana di Passy (oggi è il XVI Arrondissement della capitale francese), il “buen retiro” di Rossini per l’estate, costruito alla fine del decennio precedente: una dimora allora di campagna, a due passi dal Bois de Boulogne.
Nell’autunno dello stesso anno, in vista dell’esecuzione destinata all’inaugurazione del palazzo Pillet-Will, il compositore aggiunse le altre parti fisse della liturgia, il Sanctus e l’Agnus Dei e scrisse un Preludio religioso affidato al pianoforte solo, destinato all’Offertorio e quindi da anteporre agli altri due pezzi. Per l’occasione parigina – privata ma ad alto tasso di mondanità – il titolo divenne Petite Messe Solennelle. I due aggettivi sembrano contradditori e continuano a sorprendere gli ascoltatori. In realtà, l’ossimoro è più apparente che sostanziale e fu sempre fonte di ironico divertimento per il suo inventore. Infine, dopo la citata seconda realizzazione, avvenuta nella primavera del 1865, fu aggiunto l’Inno eucaristico per soprano O salutaris hostia.
La composizione di questo insolito e affascinante ultimo capolavoro si svolse dunque in un arco di tempo piuttosto lungo, specialmente al confronto con la frenetica attività del ventennio trascorso nel mondo operistico. Ma non fu l’unica interruzione del “silenzio creativo” seguìto al Guillaume Tell. Nonostante le malattie e la crisi depressiva, grazie anche all’amorevole assistenza della sua seconda moglie, Olympe Pélissier, conosciuta a Parigi fin dai primi anni Trenta e sposata nel 1846, dopo il 1829 Rossini aveva infatti composto lo Stabat Mater (iniziato nel 1833 e completato nove anni più tardi) e le Soirées musicales (1830-35), costituite da otto Ariette per soprano e quattro Duetti. E soprattutto aveva riempito quattordici album con i suoi Péchés de vieillesse, rimasti inediti finché visse. Si tratta di un’ampia serie di brevi composizioni per pianoforte solo o accompagnato da voci: un itinerario musicale di carattere autobiografico, ricco di un’espressività tagliente e ironica, riflessa anche nei titoli di molti pezzi. Il linguaggio musicale è evocativo, non di rado francamente descrittivo se non addirittura caricaturale, talvolta quasi oggettivo e perfino “meccanico”. Qualcosa che agli studiosi da tempo appare come una singolare quanto spiazzante premonizione del modernismo di primo Novecento, fra Eric Satie e Igor’ Stravinskij.
Cronologicamente collocata alla fine di questa singolare collana di pagine pianistiche, la Petite Messe Solennelle era considerata dal suo stesso autore una sorta di suggello della sua vita. Lo si desume dalla celebre dicitura in francese apposta sulla seconda pagina della partitura autografa conservata alla Fondazione Rossini di Pesaro. Traducendo: «Piccola messa solenne a quattro parti con accompagnamento di due pianoforti e armonium, composta per la mia villeggiatura di Passy. Dodici cantori dei tre sessi, uomini, donne e castrati, saranno sufficienti per la sua esecuzione: cioè otto per il coro, quattro per le parti solistiche, in totale dodici cherubini. Signore perdonami il raffronto: dodici sono anche gli apostoli dipinti nel celebre affresco di Leonardo, “L’ultima cena”. Chi lo crederebbe, ci sono fra i tuoi discepoli quelli che stonano! Signore rassicurati. Affermo che non ci sarà nessun Giuda alla mia cena, e che i miei canteranno giusto, e con amore (in italiano nel testo; n.d.r.) le tue lodi e questa mia piccola composizione che è, ahimè, l’ultimo peccato mortale della mia vecchiaia».
Alla fine, in una sorta di flusso di coscienza ante litteram, il compositore aggiunse una postilla: «Buon Dio, eccola terminata questa povera piccola messa. È musica sacra quella che ho appena finito di comporre, o musica esecranda? (in francese si gioca fra le espressioni “musique sacrée” e “sacrée musique”; n.d.r.). Io ero nato per l’opera buffa, tu lo sai bene! Poca scienza, un po’ di cuore, ecco tutto. Sii dunque benedetto, e accordami il paradiso».
Oltre al riferimento alla storica conversazione avvenuta nel 1822 a Vienna con Beethoven, che lo avrebbe appunto invitato a limitarsi al genere comico, circola in queste righe qualche segnale della religiosità sicuramente particolare di Rossini, poca verità “effettuale” sui suoi trascorsi musicali, qualche utile indicazione su come egli stesso pensava dovesse essere realizzata questa partitura, che fu dedicata a Louise Pillet-Will, moglie del banchiere padrone di casa, curatore dei cospicui interessi finanziari del compositore.
Da tempo lo strumento d’elezione per Rossini, è naturale che il pianoforte sia protagonista dell’accompagnamento progettato inizialmente per questa composizione sacra, affidato a due tastiere in dialogo non solo con le voci, soliste o corali, ma anche fra loro e con un armonium. Accompagnamento così originale da mettere a lungo in secondo piano, sul piano storico e musicologico, la versione per orchestra completata dal compositore stesso nel 1867. Come osservava Giovanni Carli Ballola (Rossini – L’uomo, la musica, Bompiani 2009), quest’ultima è «una bella partitura rossiniana, non l’irripetibile prodigio musicale» della versione primigenia. Che forse più dell’altra realizza la straordinaria sintesi stilistica caratteristica di questo capolavoro del genere sacro. In questa partitura, infatti, lo spirito della ormai affermata “scuola antica” ottocentesca (che faceva riferimento al gregoriano, a Josquin Desprez e Palestrina, a Sebastian Bach) e le ragioni della tradizione classicista delle “Messe concertate” con Arie e numeri d’insieme si confrontano con affascinante equilibrio, fra polifonia severa, arduo contrappunto, seducenti melodie. Il tutto con una struttura ritmica di accattivante mobilità ed espressività e non senza una tinta armonica che esplora talvolta anche le dissonanze, cospargendole però di zucchero, come disse una volta il loro autore. E basti citare al proposito le “obliquità” pianistiche e le irregolarità metriche dell’accompagnamento del Crucifixus per soprano solo nel Credo.
Rossini era tuttavia consapevole del fatto che la trascrizione orchestrale era un approdo, per così dire, inevitabile. Per questo, tentò di rendere possibili le condizioni esecutive che riteneva indispensabili per uscire dalla dimensione cameristica della versione iniziale della partitura. L’obiettivo era non mettere a repentaglio il rapporto fra voci e strumenti così com’era stato delineato nella prima stesura, che non richiedeva solo un accompagnamento “casalingo”, ma su di esso tagliava la piccola formazione vocale necessaria. E il problema consisteva specialmente nelle voci di tessitura alta. In quel periodo, nelle chiese era proibita la promiscuità dei sessi nelle cantorie e questo obbligava ad utilizzare, per le parti di contralto e di soprano, le voci bianche. Una soluzione che Rossini rifiutava radicalmente: egli cercava “pesi” vocali, qualità timbrica e omogeneità di emissione che le voci dei piccoli cantori non potevano garantire.
Per risolvere la questione, dopo avere cercato invano la mediazione di Liszt (che nel 1865 aveva ricevuto gli ordini minori in Vaticano) il “pianista di quarta classe” tornò a indossare – almeno per qualche mese – i panni di personaggio internazionale della musica, rivolgendosi direttamente al papa Pio IX e chiedendogli di annullare le disposizioni dei suoi predecessori che condizionavano la resa della musica sacra in chiesa.
L’operazione fu preparata con la collaborazione di uno dei più importanti latinisti italiani, Luigi Crisostomo Ferrucci, all’epoca bibliotecario della Laurenziana di Firenze. Le lettere che Rossini gli inviò sul tema sono illuminanti.
«Ti sarà forse noto – si legge in una di esse, datata 23 marzo 1866 – avere io composta una messa solenne eseguita in una gran sala del mio amico Conte Pillet-Will, per la quale si è menato molto rumore (…) Esito molto, malgrado la sollecitudine dei sapienti ed ignoranti, ad istrumentarla per poscia poterla eseguire in qualche grande basilica, e ciò per la mancanza delle voci (così dette bianche) di soprani e contralti, senza le quali non si deve cantare la Gloria del Signore! Mi spiego… Un Pontefice di cui ignoro il nome e l’epoca emanò una Bolla che proibiva la mutilazione dei ragazzi per farne dei sopranisti: questa misura, sebbene abbia un venerabile aspetto, è stata fatale per l’Arte musicale, e specialmente per la musica religiosa, ora in tanta decadenza. Quei mutilati, che non potean percorrere altra carriera che quella del canto, furono i fondatori del “cantar che nell’anima si sente”, e la orrenda decadenza del bel canto italiano ebbe origine dalla soppressione di essi. Altro Pontefice, di cui pure ignoro il nome e l’epoca, emanò Bolla che proibiva la promiscuità d’ambo i sessi nelle cantorie […]. Ora che gli usi sono totalmente cambiati, vale a dire che uomini e donne sono gli uni frammischiati cogli altri, è ridicolo che si voglia rigorosamente osservare la prescrizione di questa malaugurata ulteriore Bolla. Chi rimpiazza i sopranisti e le donne? Sono i giovanetti dai 9 ai 14 anni con voci acetose e per lo più stonate. Pare a te che la musica religiosa possa sussistere con sì misere risorse?».
Ferrucci fornì al compositore uno “specimen” in latino per la lettera accompagnatoria, e gli preparò un memoriale per illustrare tutti i termini della questione. Rossini consegnò il plico nelle mani del nunzio apostolico a Parigi, cardinale Flavio Chigi (che aveva assistito alla prima assoluta della Petite Messe), e questi lo fece avere al papa. Quasi un affare di Stato, insomma, condotto attraverso i canali diplomatici e secondo le regole. Pio IX – che soleva dire di avere da giovane molto amato la musica del pesarese – non accolse l’istanza. «Il nostro Santo Padre – riferì Rossini a Ferrucci nel giugno 1867 – in risposta alla nostra magnifica lettera mi riscontrò: mi offerse benedizioni e cose tenere, ma la Bolla tanto da me desiderata restò (io penso) nel suo cuore. Povera musica religiosa!».
Questi incidenti di percorso non impedirono al compositore di completare la strumentazione della Petite Messe Solennelle. La versione con orchestra fu presentata postuma sempre a Parigi, in teatro, alla fine di febbraio del 1869, pochi mesi dopo la sua morte, avvenuta il 13 novembre dell’anno precedente.
L’edizione critica, curata da Davide Daolmi e pubblicata da Fondazione Rossini/Casa Ricordi nel 2013, ha definitivamente chiarito, anche in base all’esame dei successivi interventi autografi sul manoscritto, che il compositore non intese mai la versione con pianoforti e armonium come una riduzione, ma la sottopose a progressivi aggiustamenti, considerandola un’opera a sé stante. Quanto alla versione con orchestra, oltre la volontà di evitare che altri la realizzassero al posto suo (così pare avesse detto: e come dargli torto?), si tratta di un lavoro accuratamente meditato, che disorientò il pubblico e la critica dell’epoca per la sensibilità timbrica molto personale e niente affatto propensa alla magniloquenza retorica corrente nella musica sacra del secondo Ottocento e per la sofisticata ricerca di significative relazioni fra i colori orchestrali, specialmente quelli di fiati e ottoni, e le voci. Una scelta che guarda avanti, per certi versi anche spiazzante: il musicista che si sentiva estraneo alla sua epoca, perché considerava che l’ideale e il sentimento del tempo in cui viveva fossero «esclusivamente rivolti al vapore, alla rapina e alle barricate» (così in un’altra celebre lettera a Pacini), non considerava di rifugiarsi musicalmente nel passato che rimpiangeva, ed elaborava un linguaggio capace di andare oltre. Mettendo a fuoco uno stile molto sofisticato ma limpidamente comunicativo e a suo modo innovativo, che oggi ci appare un “riflesso antico” e allo stesso tempo quasi un’anticipazione di certa modernità novecentesca.
Grazie alla Rossini Renaissance, il testamento musicale dell’autore del Barbiere di Siviglia e del Guillaume Tell è da tempo tornato alla ribalta in entrambe le sue forme. Negli Anni Settanta e Ottanta era forse più frequente la versione con i pianoforti, ma oggi quella orchestrale è tendenzialmente prevalente nella programmazione. Al Rossini Opera Festival di Pesaro, casa-madre delle scelte interpretative autentiche, è preponderante: dal 1984 al 2023 si contano dieci esecuzioni e solo tre sono state proposte con i pianoforti, l’ultima volta nel 2004. Anche per il Concerto di Natale della Scala, tenutosi il 21 dicembre in un teatro gremito, il direttore Daniele Gatti ha scelto la versione con orchestra, lavorando di bulino proprio per sottolineare le sfumature timbriche disegnate dal compositore in questa versione. E basterà citare la squisita eleganza dell’accompagnamento ai soli archi del Mottetto O salutaris hostia. Esecuzione esemplare, anche per l’attenzione allo stile dei solisti e del coro. Dimostrazione che l’altra faccia della Petite Messe Solennelle è ricca di tesori diversi, non necessariamente minori.
In copertina, Gioachino Rossini nel 1865, un anno dopo la prima esecuzione della Petite Messe Solennelle, tre anni prima della morte. Fotografia di Étienne Carjat.