La forza del destino alla Scala
Incastonata nel catalogo verdiano fra due capolavori come Un ballo in maschera, perfetto meccanismo melodrammatico, e Don Carlos, formidabile apologo pessimista sul potere, La forza del destino non ha mai raccolto un analogo riconoscimento critico. È vero che vi appaiono i primi segni del passaggio dalla drammaturgia musicale costruita sulle forme tradizionali della vocalità alla concezione nella quale si afferma la “parola scenica”, che supera gli schemi precostituiti e avrebbe caratterizzato il tardo stile di Verdi. Ma il rifugio della melodia come luogo astratto dell’effusione lirica e/o drammatica non è mai abbandonato davvero. E il tumultuoso soggetto obbliga il compositore a una struttura per quadri che spesso è stata considerata dispersiva, per quanto abbia elementi di notevole interesse.
Alla perplessità degli studiosi fa da contraltare una fortuna esecutiva piuttosto evidente, anche se intermittente. Quest’opera è stata popolare nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, dopo il debutto milanese della seconda versione (1869) ed ha avuto una presenza significativa specialmente negli Anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Recentemente è tornata alla ribalta al Maggio Fiorentino nel 2021 (direttore Zubin Mehta, regia della Fura dels Baus), e al Regio di Parma per il Festival Verdi nel 2022 (direttore Roberto Abbado, regia di Yannis Kokkos, poi proposta l’anno seguente anche al Comunale di Bologna). Dall’inizio del secolo gli allestimenti in Italia non sono mancati, specialmente nei teatri di tradizione.
E tuttavia alla Scala, dove La forza del destino inaugura questo 7 dicembre l’ultima stagione operistica firmata del sovrintendente Dominique Meyer, il precedente più vicino è del 2001, quando fu realizzata dai complessi del teatro Mariinskij di Pietroburgo. Per trovare un’esecuzione con i complessi scaligeri bisogna risalire di un quarto di secolo, febbraio-giugno 1999. Dirigeva Riccardo Muti, la regia era firmata da Hugo de Ana. Sintomatico il fatto che nel “santuario” nazional-popolare di Verdi, l’Arena di Verona, l’opera è stata allestita l’ultima volta nel 2000 e poi è scomparsa dalle locandine.
Eppure, si tratta del melodramma con il quale negli Anni Venti del secolo scorso prese il via l’impetuosa Verdi-Renaissance tedesca, che mise fine al declino dell’interesse internazionale per il bussetano, seguito alla sua morte nel 1901. Accadde nel 1926 a Dresda, direttore Fritz Busch. Il libretto fu proposto nella tradizione in tedesco di Franz Werfel, scrittore praghese di origine ebraica che due anni prima aveva pubblicato un libro destinato a vasta diffusione, Verdi – Il romanzo dell’opera, contribuendo in maniera decisiva a riaccendere l’attenzione sul compositore. Sia Busch che Werfel di lì a pochi anni si sarebbero trovati nella necessità di emigrare: il primo per la sua opposizione al regime nazista, il secondo per sfuggire alla persecuzione razzista hitleriana.
Trent’anni più tardi, anche l’incisione discografica realizzata proprio alla Scala da Maria Callas sotto la guida di Tullio Serafin (rimasterizzata nel 2014 da Warner Classics) avrebbe giovato, almeno per qualche tempo, alla notorietà della Forza del destino. Così come quelle realizzate nello stesso periodo da un’interprete squisita come Renata Tebaldi, fra l’altro protagonista dello storico allestimento diretto da Dimitri Mitropoulos nel 1953 al Maggio Fiorentino. Del resto, quest’opera è apprezzata dai melomani soprattutto (ma non solo) per le bellissime melodie-preghiere riservate nel secondo e nel quarto atto allo sfortunato soprano protagonista, la terza Leonora del catalogo verdiano dopo quelle dell’esordio assoluto con Oberto, conte di San Bonifacio (1839) e del Trovatore (1853). All’epoca di quella registrazione – metà Anni Cinquanta – Fedele d’Amico poteva concludere un suo breve scritto su questo lavoro (è pubblicato in Forma divina – Saggi sull’opera e sul balletto, Olschki 2012) punzecchiando i critici che vanno troppo per il sottile, destinati – annotava – a fare meritatamente una pessima figura. La battuta è auto ironica: in quell’articolo – pur fra molte considerazioni positive – le riserve non mancano affatto. Si parla della natura composita della partitura verdiana come di un vizio d’origine e si aggiunge che «il limite fondamentale non è musicale, ma drammaturgico e insomma operistico».
All’inizio del 1861, erano due anni che Verdi non scriveva musica. La sua ultima fatica era stata Un ballo in maschera, che aveva debuttato a Roma nel febbraio del 1859. In quel periodo il compositore si dedicava soprattutto alla gestione della sua tenuta di Sant’Agata e seguiva da vicino la politica. La seconda Guerra di Indipendenza si era conclusa da poco, la spedizione dei Mille aveva portato all’annessione delle Due Sicilie al Regno di Piemonte, sul ponto di diventare Regno d’Italia. Per le insistenze di Cavour, aveva accettato di candidarsi nel collegio di Fidenza al parlamento. Eletto, era spesso a Torino, anche se fare il deputato non era nelle sue corde e lo sarebbe stato ancora meno dopo la morte del primo ministro, nel giugno di quell’anno. La sua esperienza parlamentare si sarebbe conclusa di lì a pochi anni.
L’offerta di scrivere un’opera per il teatro imperiale di San Pietroburgo lo raggiunse nella capitale sabauda, portata dal celebre tenore romano Enrico Tamberlick (1820-1889), allora stella del Bol’šoj. Le trattative furono rapide, anche per i buoni uffici della moglie del compositore, Giuseppina Strepponi. Tramontata rapidamente l’ipotesi di musicare il Ruy Blas di Victor Hugo (anche se i committenti, dopo un iniziale diniego, si erano mostrati disponibili, pur di assicurarsi l’autore della Traviata) la scelta del soggetto cadde su Don Álvaro, o la fuerza del sino, dramma “in cinque giornate” di Ángel de Saavedra duca di Rivas (1791-1865), autore spagnolo almeno in gioventù di tendenze liberali e di gusti letterari romantici, andato in scena con grande successo a Madrid nel 1835.
Una traduzione italiana di questo lavoro era stata pubblicata a Milano nel 1850 e Verdi – sempre a caccia di soggetti operistici – l’aveva subito adocchiata. Durante l’estate del 1861, già nel pieno della composizione, il suo apprezzamento emerge in una lettera all’impresario francese Léon Escudier. Il dramma, gli scrisse, «è potente, singolare e vastissimo: a me piace assai e non so se il pubblico lo troverà come io lo trovo, ma è certo che è cosa fuori del comune». Il libretto fu affidato a Francesco Maria Piave, collaboratore spesso maltrattato ma sicuramente titolare della fiducia del compositore in molti lavori capitali, da Macbeth a Rigoletto, da Traviata a Simon Boccanegra, e molto disponibile a soddisfare le imperiose esigenze drammaturgiche del compositore, e il lavoro procedette rapidamente. Rispetto all’originale di Saavedra, ovviamente molto sfoltito nei personaggi e nelle situazioni, una scena del tutto estranea fu inserita nel III atto. È quella militare-popolare che si svolge presso Velletri, desunta con i buoni uffici del traduttore Andrea Maffei (amico e collaboratore del compositore) dal primo dramma della trilogia di Friedrich Schiller sulla Guerra dei Trent’anni, Il campo di Wallenstein (1798).
Il contratto stipulato con il Teatro Imperiale era sontuoso: 60.000 franchi oro, quasi il doppio di quanto Verdi avrebbe ricevuto qualche anno più tardi dall’Opéra di Parigi per Don Carlos. Di che realizzare senza problemi le complesse e costose migliorie personalmente studiate per la sua tenuta di Sant’Agata.
Ai primi di dicembre del 1861, il musicista e la moglie arrivarono a San Pietroburgo, ma il debutto dovette essere rinviato alla stagione successiva perché la primadonna della produzione si era ammalata. La coppia ripartì per l’Italia nel febbraio del 1762 e fece ritorno nella capitale dell’Impero russo nel settembre successivo. La forza del destino andò in scena il 10 novembre 1862.
Negli anni seguenti l’opera ebbe una discreta circolazione sia in Italia che all’estero, Madrid compresa. Ben presto, però, Verdi cominciò a riflettere sull’opportunità di modificare il finale, che aderiva al dramma originale facendo morire tutti i protagonisti principali della storia: Leonora era trafitta dal fratello Don Carlos, già morente dopo l’ennesimo duello con Don Alvaro, infelice innamorato di lei. Quest’ultimo, infine, si toglieva la vita gettandosi da una rupe. La mattanza non piaceva al musicista, che a lungo pensò a un’alternativa, cercando consiglio nella cerchia degli amici e dei collaboratori. La soluzione fu trovata in vista dell’allestimento voluto dall’editore Giulio Ricordi per la Scala e un ruolo decisivo ebbe lo scrittore e poeta Antonio Ghislanzoni, che di lì a poco avrebbe consegnato al compositore il libretto di Aida: Alvaro non muore, ma si ritira definitivamente nel convento dove già aveva trovato rifugio, facendo professione di cristiana rassegnazione di fronte ai colpi tremendi del destino.
Oltre a questo nuovo finale, venne ampiamente rimodellato anche il terzo atto, ora concluso dalla scena di massa al campo militare e dal celebre Rataplan intonato dalla zingara Preziosilla, pagina capace di suscitare entusiasmo e riprovazione in pari misura (“orrido” per il critico musicale Enrico Girardi; una prova dell’influenza su Verdi di Meyerbeer, in questo caso quello degli Huguenots, secondo Massimo Mila). La precedente conclusione, con uno dei duelli fra Don Carlos e Alvaro, era spostata al centro dell’atto e modificata.
Infine, il Preludio scritto per San Pietroburgo fu sostituto dalla “beethoveniana Sinfonia” (ancora Mila) che ben presto si è guadagnata vita autonoma nei concerti sinfonici ed è nel repertorio di tutte le grandi orchestre, pezzo favorito specialmente come bis. Il brano è caratterizzato, anzi dominato dal “tema del destino” (le frementi “volatine” ascendenti degli archi) ed elaborato con la presenza di numerosi altri motivi caratteristici dell’opera, specie le melodie di Leonora; la scrittura strumentale è sapientemente drammatica e riecheggia il ruolo che nella partitura Verdi affida a vari strumenti a fiato, fra ottoni e legni (in prima linea il clarinetto).
In questa nuova veste, La forza del destino debuttò alla Scala il 27 febbraio 1869, con il soprano Teresa Stolz nel ruolo di Leonora e la direzione di Angelo Mariani. Era il gran ritorno di Verdi nel teatro milanese, conclusione di una polemica assenza che durava da 24 anni, dalla inadeguata rappresentazione di Giovanna d’Arco nel 1845. In seguito, e fino alla morte, la scena dove aveva iniziato la sua carriera operistica sarebbe diventata nuovamente il centro della sua attività.
La storia è principalmente quella di una lunga, feroce, assurda caccia all’uomo. E alla donna. Il vecchio marchese di Calatrava scopre che sua figlia Leonora è innamorata di Don Alvaro, un misterioso cavaliere che ritiene socialmente inferiore, con l’aggravante di essere un “sangue misto”, figlio di uno spagnolo e di una donna inca, in realtà entrambi di nobile lignaggio ma vittime in Perù di persecuzioni politiche. Il marchese sorprende i due giovani mentre stanno fuggendo insieme e il confronto con Alvaro si trasforma rapidamente in tragedia. Il giovane decide di arrendersi, ma dalla sua pistola gettata a terra parte accidentalmente un colpo, che ferisce mortalmente l’anziano nobiluomo. L’omicidio è casuale e involontario, ma è l’origine di un meccanismo che alla fine stritolerà tutti i protagonisti della vicenda.
Indifferenti all’unità di tempo e di luogo, le successive vicende si dipanano in epoche diverse (nell’arco di svariati anni) e in disparati luoghi, fra Siviglia, il villaggio andaluso di Hornachuelos, il convento che sorge nelle vicinanze, la campagna di Velletri dove si svolge una battaglia della Guerra di Successione Austriaca. L’epoca è infatti la metà del XVIII secolo. In tutti questi scenari, spesso sotto falso nome (o travestiti) compaiono Leonora, il figlio del marchese, Don Carlos di Vargas, che vive solo per vendicarsi sia di Don Alvaro, considerato l’assassino del padre, che della sorella, ritenuta responsabile di avere tradito il buon nome della casata. Camuffamenti e scambi di persona si susseguono. I due uomini – nel contesto militare del conflitto a cui partecipano da commilitoni – diventano quasi amici, essendo entrambi sotto mentite spoglie, ma poi si scoprono reciprocamente. E i duelli continuano, mai davvero risolutivi se non alla fine.
Intarsiate su questo melodrammatico e un po’ stucchevole plot (che beninteso consente a Verdi di confezionare Romanze di notevole impatto melodico e una serie di duetti capaci di sfuggire, nei casi migliori, alla tirannia della cabaletta), sono rilevanti e molto caratteristiche drammaturgicamente e musicalmente alcune scene popolari di massa. Esse sono collocate in ciascuno dei tre atti dopo il primo, hanno come luogo, di volta in volta, una taverna, un campo militare, gli esterni di un convento e vedono emergere – insieme alla fondamentale presenza del coro – tre personaggi che non si può non definire secondari, ma che risultano fondamentali nell’inedito schema drammaturgico dell’opera. Sono la zingara e vivandiera Preziosilla, arruolatrice di soldati ed esaltatrice della guerra; il popolano Trabuco, prima mulattiere e poi rivendugliolo che campa vendendo minutaglia alle truppe; il monaco Melitone, carattere irruente e orientato al grottesco e quindi al comico, che a molti critici sembra preannunciare Falstaff ma che è anche innegabilmente proveniente dalla tradizione rossiniana del basso buffo.
Tutti sono protagonisti di storie minime, secondarie e parallele a quella principale, ma insieme alle piccole folle dalle quali sono circondati incarnano – com’è stato giustamente annotato – la concezione verdiana del Quarto Stato. E offrono, con efficacia mai così limpida altrove nella sua produzione, una prospettiva popolare che musicalmente si vale di un linguaggio armonicamente mutevole, franto e per questo accattivante. Nulla di davvero “etnico” (a Piave che si offriva di portargli alcune canzoni popolari spagnole, Verdi rispose, brusco come suo solito: “Io non ho l’abitudine di studiare musica”). Ma abbastanza caratteristico nella sua “invenzione del vero” perché in terra di Russia questi “trattamenti” suscitassero una notevole impressione nei compositori del cosiddetto Gruppo dei Cinque, Musorgskij in testa, che l’opera l’avevano peraltro contestata al suo primo apparire a San Pietroburgo. Per dirla con Mila: «Se fucilarono Verdi, bisogna dire che prima gli frugarono ben bene le tasche».
E quindi resta importante l’intuizione critica di Gabriele Baldini (Abitare la battaglia: la storia di Giuseppe Verdi, Garzanti 1970, poi Carocci 2001), secondo il quale La forza del destino è la prima grande opera russa nella storia della musica. Perché il legame esistente fra i personaggi del popolo in Boris Godunov e quelli che agiscono qui è evidente. Anche se bisogna annotare che nell’opera dell’italiano manca completamente, se non come sfondo “inerte”, il contesto storico che invece è fondamentale nel capolavoro di Musorgskij.
Piuttosto, questo melodramma può legittimamente ambire al titolo di opera più manzoniana di Verdi, che notoriamente aveva nei confronti dell’autore dei Promessi Sposi una vera e propria venerazione. Uno dei maggiori studiosi del bussetano, Julian Budden, sottolinea quanto nella versione definitiva il Padre Guardiano dell’opera abbia molto del cardinale Borromeo, Don Alvaro ricordi Fra Cristoforo e Melitone riecheggi Don Abbondio. Di certo, il compositore coglieva e anzi trovava fondamentale il carattere romanzesco del fosco dramma che aveva messo in musica, e le sue progressive “rifiniture” lo sottolineano, fino all’edificante conclusione spirituale.
«Non imprecare; umiliati
A Lui ch’è giusto e santo…
Che adduce a eterni gaudii
Per una via di pianto»
canta il Padre Guardiano nel mirabile terzetto che conclude la versione scritta per la Scala. E le parole di Ghislanzoni hanno risonanze manzoniane inequivocabili, esaltate dalla tinta della musica, con la sua introspezione dentro al discorso di fede. Di lì a pochi anni, da questa disposizione spirituale nascerà la meditazione delle pagine più ispirate della Messa da Requiem, l’epicedio verdiano in memoria dello scrittore.
In copertina, Il soprano Anna Netrebko nella parte di Leonora, Photo Brescia e Amisano - Teatro alla Scala.