Un dolce Sanremo totalitario
Meglio chiarirlo fin da subito: non seguo il Festival di Sanremo “solo per capire”, “per farmi un’idea”. Non sento il bisogno di mettere a punto raffinate teorie sui linguaggi televisivi del XXI secolo o sulla “società dello spettacolo”. Non cerco acrobatiche giustificazioni per dare un tono intellettuale alla mia entusiasta adesione a questo grande rito nazionalpopolare. Lo guardo e lo ascolto per puro piacere. Volendo essere più esplicito, parlerei anche di amore, o quanto meno di un’infatuazione di lunga durata. Non so per quanto tempo continuerà questo legame fatale, ma di certo sembra essere il frutto (avvelenato?) di un’abitudine dura a morire, come il cenone del 24 dicembre o la pasquetta fuori porta.
Il successo della rassegna gli ultimi anni ha assunto contorni surreali per la sua ampiezza, bisogna ammetterlo. Basta guardarci intorno con sguardo smaliziato per riconoscere l’evidenza: pur non essendo di primo pelo (la prima edizione risale al 1951), il Festival è più vitale che mai. Si è conquistato un posto privilegiato nel cuore di milioni di persone, senza distinzioni di età, professione o titolo di studio. È considerato “cool”, e non più un affare riservato a teledipendenti, emarginati e sociopatici. Persino noi patiti cronici, “sanremologi” di vecchia data, osserviamo questo nuovo diluvio di papaveri e papere con un pizzico di incredulità. Possiamo finalmente seguire il Festival senza vergognarci come ladri, mettendo in piazza i nostri sentimenti, condividendo le nostre impressioni sulle chat di WhatsApp o sui canali social. Trasformiamo in un vanto la nostra lunga militanza canzonettistica, sfoggiando conoscenze enciclopediche sulle edizioni degli anni più bui. Riveliamo con orgoglio che “noi c’eravamo” quando Albano e Romina lanciavano il loro inno ecologista (“Come va? Come va? Tutto ok! Tutto ok!”), quando Cavallo Pazzo invadeva il palco dell’Ariston annunciando all’Italia intera che la gara era truccata, quando Pippo Baudo si travestiva da supereroe per salvare la vita a un aspirante suicida, quando i Jalisse si consegnavano alla storia come quintessenza dell’effimero, quando in cima al podio salivano Alexia (“A me che disperdo nel blu l’inquietudine”), Povia (“Più o meno come fa il piccione”), Marco Carta (“Il fuoco e la goccia dove io mi tufferò”), Valerio Scanu (“In tutti i luoghi e in tutti i laghi”) e – sì, lo sto scrivendo davvero – Giò di Tonno e Lola Ponce (“Che Dio mi fulmini!”).
Proprio l’analisi storico-erudita del fenomeno sviluppata su base pluridecennale, tuttavia, suggerisce di usare prudenza, nella consapevolezza che i periodi di crescita sono destinati a interrompersi, prima o poi. Ci pare quindi opportuno provare a rispondere ad alcune domande. Quali ragioni hanno reso possibile questo trionfo? Quanto durerà questa epoca aurea? Quanto è cronica la “sanremite” che ha colpito gli italiani? La settantacinquesima edizione condotta da Carlo Conti è riuscita a smentire molti addetti ai lavori, pronti a pronosticare un calo di interesse e a disegnare un futuro a tinte fosche per la rassegna, dopo le cifre da capogiro del quinquennio di Amadeus. Sanremo 2025 ha frantumato diversi record di ascolto, riuscendo a rivaleggiare anche con la mitica edizione del 1987. I numeri li abbiamo letti ovunque e qualsiasi riepilogo sarebbe ridondante. L’ampiezza dell’evento – credo sia il caso di riconoscerlo – va ben oltre i confini di ciò che possiamo misurare con strumenti matematici. Dobbiamo sforzarci di entrare in un cambiamento culturale profondo, accettando il pericolo di sembrare impressionistici o rapsodici. Il nuovo Sanremo ha acquisito le sembianze di un Natale laico, un po’ come il Super Bowl americano, preceduto da settimane di organizzazioni e inviti, capace di coinvolgere amici, parenti e colleghi di lavoro, festeggiato nella serata finale con affollate riunioni domestiche e cene sontuose.
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È difficile comprendere perché tutto questo sia accaduto. I tentativi di analisi non mancano e colgono diverse sfumature di una questione complessa. Il Festival degli anni Venti del XXI secolo ha superato i limiti strutturali del mezzo televisivo, invadendo tutti gli spazi disponibili nel paesaggio mediatico e offrendo una preziosa occasione di interazione a un pubblico eterogeneo. Queste evoluzioni hanno prodotto impatti significativi sul corpo sociale, soprattutto se consideriamo la crescente polverizzazione dei consumi culturali: gli algoritmi costruiscono recinti intorno ai nostri desideri e ai nostri gusti, guidandoci nella scelta di libri, film, serie televisive, canzoni e podcast. Troviamo rifugio all’interno delle nostre bolle, perdendo la possibilità di connetterci alle persone che ci circondano attraverso la condivisione di opinioni, giudizi e preferenze. Le occasioni per sviluppare discussioni collettive nel segno dello svago – soprattutto le grandi competizioni sportive – sono sempre più rare. Volendo usare un concetto caro agli studiosi della comunicazione, abbiamo perso i privilegi della fruizione sincronica del prodotto mediale. In sostanza, non parliamo di ciò che stiamo seguendo in tv, in radio, al cinema o sui giornali, semplicemente perché catturati da contenuti dotati di un alto grado di specificità, talvolta atomizzati, tutti calibrati sulla definizione dei nostri profili di individui-consumatori.
La televisione subisce in maniera corposa le conseguenze di questa trasformazione. Le trasmissioni sono ormai separate dal momento della messa in onda. I vecchi palinsesti hanno lasciato spazio ai cataloghi delle piattaforme digitali, che danno agli spettatori la possibilità di comporre scalette personali. A un primo sguardo, questo nuovo scenario potrebbe apparire quanto mai ostile per il trasversalismo agognato dal Festival di Sanremo. Ma gli sviluppi degli ultimi anni hanno mandato all’aria qualsiasi previsione. La rassegna canora ha consolidato il suo carattere di “cerimonia pubblica” tentacolare, creando un gigantesco spazio virtuale e temporaneo di partecipazione, che ci consente di uscire dalle nostre microcapsule culturali, stimolandoci a convergere con i nostri dispositivi tascabili e i nostri profili social su un unico spettacolo. Ci riporta – con un salto all’indietro di sapore nostalgico – dentro la sincronia del vecchio tubo catodico, dandoci la possibilità di rientrare in una sfera di discussione allargata, nella quale affrontare un interesse comune con un linguaggio comune. Ci offre, in casi estremi, anche la possibilità di forzare le nostre gabbie algoritmiche di solitudine.
Persino il desiderio di giocare insieme ha contribuito a questo successo. Il Fantasanremo è diventato parte integrante dell’ingranaggio festivaliero, coinvolgendo milioni di persone. Le origini di questo ingegnoso passatempo sono avvolte nella leggenda e affidate al racconto degli ideatori. La Gialappa’s Band ne rivendica la paternità, forse con buone ragioni (nel 2003 convinse molti cantanti a pronunciare la parola “Situation”, senza un motivo preciso), ma la versione odierna del “fantasy game” nasce dall’iniziativa recente di pochi amici che si riuniscono nel bar “Papalina” di Porto Sant’Elpidio (provincia di Fermo) per seguire la trasmissione, arricchendo la loro esperienza con rudimentali pagelle cartacee per valutare artisti e canzoni. La svolta arriva con la reclusione forzata imposta dal Covid. Nel 2021 il gioco si trasferisce on line, arrivando ad appassionare 47.000 persone. Nell’edizione successiva gli iscritti sono più di 4 milioni e i numeri raggiunti sono più che sufficienti per aprire la strada alla mastodontica macchina dei giorni nostri, che coinvolge grandi industrie e interessi finanziari, arrivando a condizionare quello che accade sul palco dell’Ariston.
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Sembra superfluo sottolinearlo, ma i rischi di una deriva sono tutt’altro che secondari. L’invadenza dei messaggi pubblicitari contamina la volontà di giocare per il solo gusto di farlo, fino a legittimare il sospetto che il sistema economico si stia appropriando per l’ennesima volta di un patrimonio collettivo, facendo prevalere i suoi scopi sui bisogni dei singoli partecipanti. Gli stessi gesti degli artisti durante la gara non appaiono più sorprendenti e diventano prevedibili, forzati, togliendo alla trasmissione televisiva una porzione importante della sua autonomia. Lo ha esplicitato meglio di chiunque altro Antonella Clerici durante la prima serata dell’edizione 2025, fronteggiando l’ennesimo tentativo di abbraccio da parte di un cantante: “Volentieri, ma vorrei sapere quanti punti vale”.
In effetti i meccanismi avvolgenti del Festival odierno spazzano via qualsiasi forma di pensiero divergente. Il “bisogno profondo di aggregazione e di comunità” – per usare le parole di Luca Barra, più che mai valide di fronte ai trionfali dati auditel di Carlo Conti – convive con il trionfo della medietà generalista, cancellando le asimmetrie della realtà politica, economica e culturale, mettendo in secondo piano divisioni e conflitti. Sul piano più strettamente musicale, poi, è lecito chiedersi quale spazio abbia l’espressione artistica in un contesto dominato da un numero esiguo di menti creative, se è vero che 20 canzoni in gara su 29 sono state scritte dalle stesse undici persone. Il primato spetta a Federica Abbate, che ha firmato ben sei brani (quelli interpretati da Serena Brancale, Sarah Toscano, Fedez, Clara, Rose Villain, Joan Thiele), seguita a ruota da Davide Simonetta (cinque), Davide Petrella e Jacopo Ettorre (quattro ciascuno).
Tutti gli ingredienti della rassegna sembrano obbedire a una forma caricaturale di ecumenismo, nella pretesa – utopica, almeno in teoria – di accontentare gusti contrapposti o di solleticare pulsioni molteplici. La platea di co-conduttrici e co-conduttori è talmente nutrita da rendere arduo qualsiasi tentativo di sintesi (quale sarà mai il filo invisibile che connette Geppi Cucciari a Gerry Scotti?). Per spiegare il sistema di voto servirebbe un dottorato in scienze statistiche o in calcolo combinatorio, fra sala stampa, web e tv, giurie radiofoniche e telefonate da casa. La stessa classifica finale sembra ambire alla ricerca di un equilibrio interculturale, interclassista, intergenerazionale e chi più ne ha più ne metta, ma alla fine è dominata da soli uomini. C’è il predicatore che si fregia dell’etichetta di poeta (Cristicchi), c’è l’ex marito della (ex) influencer più famosa del paese (Fedez), ci sono i cantautori per palati fini e desiderosi di arrivare al grande pubblico (Brunori Sas e Lucio Corsi, fra i miei preferiti, ammesso che a qualcuno interessi), c’è l’idolo della Generazione Z che brandisce il vessillo del vascorossismo (Olly).
C’è quanto basta, in definitiva, per rendere innocui i critici o gli scettici. Sanremo trionfa sotto numerosi punti di vista, oscillando fra tendenze totalizzanti e tentazioni totalitarie, entrando nelle pieghe della nostra socialità virtuale, cogliendone gli aspetti più problematici, interpretandone le contraddizioni e offrendo l’illusione di una cura. Poco importa che la soluzione sia temporanea, fragile, ingannevole: l’essenza profonda del nostro sollievo risiede nel sentirci presenti, per noi stessi e per gli altri, pronti ad affrontare la discussione e ad essere parte del grande gioco, costi quel che costi. Forse un giorno torneremo a sentir parlare di contrapposizioni ideologiche, parole ribelli, iniziative indipendenti e controculture. Forse un giorno torneremo ad ascoltare voci e suoni fuori dal coro, anche sul palco dell’Ariston. E Sanremo tornerà a essere – per il suo stesso bene – solo un segmento del mondo musicale e televisivo italiano, abbracciando dinamiche trasformative, allontanandosi dall’inquietante dimensione del “tutto”. Ciò nonostante, siamo costretti ad ammettere che, per il momento, quel giorno sembra lontano.
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