La terra delle janare

14 Ottobre 2023

Zi’ Marcello si alza di buon’ora, come ogni mattina, e si reca dalla sua giumenta. La trova coperta di sudore, con la coda intrecciata. Nei giorni successivi si accorge che il fenomeno diventa sempre più frequente. Non riesce a spiegarselo, ma comincia a coltivare dei sospetti. Decide quindi di organizzare un appostamento notturno e di sorvegliare con i propri occhi l’animale. A mezzanotte in punto i suoi dubbi cominciano a chiarirsi. Nel buio intravede una “janara”. Ha un aspetto terrificante e recita una formula: “Sott’acqua e sotto viente, sott’ a noce e Beneviente”. Si rende conto di averla già incontrata in altre occasioni. È la nipote di un prete di Caiazzo (una località del casertano). Accende una lampada per far luce e riesce a catturarla. Ormai resa innocua, la donna perde ogni aggressività e si mostra inaspettatamente docile. Arriva addirittura a mostrare sollievo per essere stata liberata da un incantesimo. Zi’ Marcello decide quindi di riconsegnarla ai suoi genitori. Questi ultimi vorrebbero mostrare riconoscenza al benefattore della loro figlia con un dono, ma l’uomo rifiuta. Lo fa perché riconosce nei suoi interlocutori una condizione sociale simile alla propria: “Vi ringrazio, ma i’ so’ cuntadine comm’a vuie e nun tenghe bisogne ’e niente”.

Al netto delle alterazioni legate all’uso della lingua italiana e di qualche licenza stilistica, queste poche righe ripropongono uno dei numerosi racconti del patrimonio folklorico campano incentrati sulle “janare”, inquietanti creature della notte altrove identificate semplicemente come malefiche o streghe (si veda lo studio dell’antropologo Augusto Ferraiuolo, I racconti meravigliosi. Storie popolari campane di streghe, folletti, fantasmi e lupi mannari, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995). Le janare conoscono l’occulto e i riti magici, sono capaci di cambiare forma per intrufolarsi nelle stalle e nelle case, aggrediscono bestiame ed esseri umani. Hanno un aspetto mostruoso, simile a quello delle arpie. Riescono a bloccare il respiro delle persone aggredite, provocano infertilità nelle donne, si accaniscono sui bambini fino a ucciderli. Si radunano sotto un albero di noce nei pressi di Benevento, sulle sponde del fiume Sabato, per rendere omaggio al demonio, che si presenta ai loro occhi sotto forma di caprone. Il loro nome ha un’etimologia incerta: alcuni lo fanno derivare da Dianira, sacerdotessa della dea Diana, mentre altri lo connettono al latino “ianua”, ovvero “porta”. E proprio sulla porta bisogna concentrarsi per mettere un argine alle loro cattive intenzioni. Quando incontrano una scopa con le setole rivolte all’insù, le janare si fermano a separarle l’una dall’altra. Quando intravedono un sacchetto pieno di sale, si paralizzano per contare i chicchi uno per uno. Così facendo, lasciano trascorrere le ore e perdono il favore delle tenebre. La luce dell’alba ha un effetto letale per loro. Non riescono a sopportarla e sono costrette a fuggire, rinunciando ai loro progetti criminosi. 

Intorno a queste figure mitiche si è costruita una ricca tradizione leggendaria, in grado di fornire ancora oggi indizi importanti sulla concezione del mondo e della vita che caratterizza la cultura campana. Ma per comprenderla a fondo è necessario allargare lo sguardo e sviluppare indagini parallele, basate su altre coordinate spazio-temporali. Esiste infatti una relazione stretta fra il sedimentarsi di una credenza e la codificazione operata dalle élites politico-religiose in periodi e luoghi ben definiti. L’immagine della janara è inscindibile da quella della strega, che ha acquisito fisionomie differenti in molteplici aree del pianeta, conoscendo al contempo evoluzioni significative attraverso i secoli. Nel caso specifico della penisola italiana e del territorio campano, risulta decisivo il ruolo svolto fra XV e XVII secolo dalla Chiesa di Roma, che provò a esercitare un controllo sul meraviglioso, operando distinzioni nette fra il naturale e il sovrannaturale, fra il diabolico e il miracoloso. 

Uno strumento decisivo in questa svolta fu la Congregazione del Sant’Uffizio, istituita dal pontefice Paolo III Farnese nel 1542 per coordinare l’operato degli inquisitori locali (attivi già da lungo tempo), preservare l’integrità della dottrina dalla diffusione del luteranesimo e combattere tutte le forme di dissenso. Negli anni successivi, la struttura della rete repressiva si consolidò e diventò capillare soprattutto sul territorio italiano, dove i giudici aprirono processi contro chi era sospettato di coltivare simpatie protestanti, soffocando di fatto i focolai della nuova fede. Nel Regno di Napoli, tuttavia, il nuovo sistema faticò ad affermarsi: fin dagli inizi del secolo i sudditi si erano opposti con energia all’introduzione dell’Inquisizione spagnola, riconosciuta come “Suprema” (dal nome del Consiglio che la guidava), obbediente alle direttive del monarca, capace di esercitare un notevole potere morale ed economico sull’intera società imperiale, dall’Europa meridionale fino al Nuovo Mondo. Diversi ceti sociali si erano coalizzati per perseguire questo obiettivo. Gli equilibri su cui si reggeva la società del sud Italia erano infatti precari ed era diffuso il timore che l’introduzione di un nuovo soggetto giudiziario potesse essere un'arma troppo forte nelle mani del potere vicereale, limitando i privilegi nobiliari e le autonomie locali. 

In una situazione tanto complessa e ricca di tensioni, anche il potere pontificio ebbe vita difficile nell’imporre una rete organizzata di tribunali come quella che si andava formando in altre parti della penisola italiana, identificata con l’etichetta di “Inquisizione romana”. Si giunse così, nel 1553, a una soluzione di compromesso: la Santa Sede si vide riconosciuto il diritto di nominare un vicario pro tempore delegato al coordinamento dell’attività repressiva sull’intero territorio del Regno di Napoli. La nuova figura si andò ad affiancare, di fatto, a quella dell'arcivescovo della capitale e degli altri ordinari diocesani dell'intero territorio dello Stato, che mantenevano la giurisdizione ordinaria sulle circoscrizioni di loro competenza e, allo stesso tempo, erano chiamati a occuparsi di repressione dell’eresia, dando conto del loro operato al rappresentante della Congregazione del Sant'Uffizio. In altre parole, i vescovi del Regno avevano significativi margini di azione per agire anche come inquisitori.   

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Non c’è quindi da stupirsi se l'azione del Sant’Uffizio si mostrò talvolta zoppicante. I giudici incontrarono molti problemi nel garantire il rispetto dell’ortodossia e nel tenere a bada i comportamenti delle popolazioni. Lo studio dei fascicoli processuali rivela la presenza di un vivace rapporto di incontro/scontro fra la cultura ecclesiastica e quella dei fedeli, talvolta poco inclini a modificare i propri comportamenti anche di fronte alle ammonizioni del tribunale. Molte comunità locali rimasero ancorate alle loro usanze, alle loro feste, al loro modo di vivere le devozioni, senza tener conto delle prescrizioni imposte dall’alto. La stessa città di Napoli – una delle più popolate dell’intero continente in età moderna – riuscì a mantenere intatte le sue consuetudini e trovò diversi espedienti per rendere vane le iniziative di controllo della Santa Sede. 

Ciò che conta sottolineare in questa ricostruzione è l’impatto delle strutture repressive sulla pratica del culto e sulla dimensione quotidiana della vita religiosa. Le evoluzioni più significative si registrarono a partire dagli anni Ottanta e Novanta del Cinquecento, quando molti focolai di eresia erano stati già spenti. A partire da quel periodo, le energie dell'Inquisizione romana furono convogliate verso il controllo di uomini e donne inclini a coltivare e alimentare le superstizioni, talvolta non esplicitamente contrarie alla dottrina ufficiale, ma comunque lesive delle liturgie imposte dalla Chiesa di Roma. Rientravano in questa categoria i rimedi naturali alle malattie, le pozioni, le fatture, i malocchi e le formule propiziatorie, talvolta influenzate da culture arcaiche che pretendevano di mettere i fedeli in contatto diretto con il sovrannaturale, facendo a meno della mediazione sacerdotale. 

I procedimenti giudiziari celebrati a Napoli e nelle altre corti diocesane mostrano tendenze significative, soprattutto nella gestione della pratica religiosa femminile. Le donne che apparivano di fronte ai tribunali frequentavano le messe e recitavano le preghiere seguendo le prescrizioni delle autorità, ma allo stesso tempo invocavano il diavolo per colpire i loro nemici, rubavano reliquie e altri oggetti sacri per organizzare riti propiziatori, si appropriavano dell’olio benedetto spalmandoselo sulle labbra e sugli occhi, nella convinzione che piacesse ai loro amanti. Altre cercavano di indovinare i luoghi in cui si trovavano gli oggetti smarriti o rubati, o confezionavano pozioni da somministrare alle partorienti per proteggere i nascituri. Solo in alcuni casi confessavano di aver partecipato al sabba diabolico, forse perché sfiancate da lunghissimi interrogatori e torture, di fronte a giudici animati da pesanti preconcetti e disposti a tutto pur di completare con successo la loro opera. 

Nel 1586 fu la casertana Ippolita Palomba a cadere nella rete intessuta dai giudici (gli atti del processo sono riportati in G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990). Aveva settant’anni ed era ricoverata nell’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Era stata ritrovata in possesso di immagini sacre, calamite, carte, chiodi e del piede di un feto. Chiamata dal tribunale a dare spiegazioni, confessò non solo di essere capace di fabbricare malie, ma di aver compiuto reati ben più gravi. Ammise di aver stipulato un patto con il diavolo, e di aver imparato da una sua conoscente (Beatrice de Pisciotta) come trasformarsi in una janara (“andare in janarìa”). Non è difficile formulare delle ipotesi sulle ragioni di questa scelta. Il suo autolesionismo era infatti solo apparente: spesso le imputate come lei tendevano a esagerare le loro stesse colpe, per soddisfare le aspettative degli inquisitori, confermare le loro convinzioni, sfuggire ai supplizi e implorare clemenza. 

Ippolita provvide quindi a raccontare i suoi “crimini” con dovizia di particolari. Nello specifico, rivelò di essere stata spogliata, coperta di “un certo unguento” maleodorante fino al “filo delli reni”, al basso ventre e alle “parte pudende davante et dietro”. Era stata trasportata in groppa a un misterioso volatile fino alla “nuce di Benevento”. Lì aveva trovato quaranta persone che ballavano in maniera furiosa e si davano “piacere tra homini et donne”. Tutti giravano intorno al “Prencipe de demonij, il quale stava in una sede alta settato”. Gli rendevano omaggio con un inchino, ma voltandogli le spalle, rivolgendo “la testa verso dietro”. In quello stesso luogo, la donna aveva subito un’incisione al seno. Col sangue ricavato dalla ferita aveva apposto la sua firma su un contratto (“una polisa”): aveva infine allungato la mano su un libro e promesso obbedienza ai comandi del maligno.  

Le parole contenute nella confessione di Ippolita testimoniano l’incontro fra mondi diversi, che si relazionavano l'uno all'altro in maniera articolata e discontinua, andando a disegnare i contorni di un sapere multiforme. Da un lato emergevano le tracce di una "cultura del meraviglioso" fluida, legata agli immaginari e alle tradizioni narrative locali, ancora oggi oggetto di indagine per etnografi e antropologi. Dall’altro lato l’imputata dimostrò di aver recepito una porzione importante delle codificazioni ecclesiastiche relative alla stregoneria, come quelle contenute nei manuali più diffusi di caccia alle streghe, come il celebre Malleus Maleficarum (pubblicato nel 1487 dai domenicani Heinrich Kramer e Jacob Sprenger). In buona sostanza, accettò la disciplina dell’incanto imposta dal Sant’Uffizio e adeguò il suo racconto al patrimonio di conoscenze dei suoi aguzzini. Non cercò di giustificarsi definendosi vittima di un sortilegio (come la ragazza catturata da Zi’ Marcello). Era diventata una janara per scelta consapevole: si era presentata al cospetto del demonio per affrontare un rito di iniziazione e per diventare esecutrice del suo volere.

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