Wu Ming 1 nel Delta del Po
Mi è difficile trovare un aggettivo adatto a descrivere Gli uomini pesce, l’ultimo romanzo di Wu Ming 1 uscito per Einaudi da qualche settimana. Ne ho letti tanti su giornali e riviste specializzate – “monumentale”, “maestoso”, “straripante”, travolgente”, “tentacolare” – e, proprio per questa ragione, mi rendo conto di quanto sia alto il rischio di sembrare stucchevole o ridondante. Preferisco quindi raccontare un aneddoto. Dopo aver avvistato i primi spot promozionali del libro sulle pagine social della casa editrice, mi ero riproposto di leggerlo in pochi giorni e di pubblicare un articolo veloce, quasi istantaneo, utile ad aprire un dibattito che si preannunciava ricco di implicazioni. C’erano tantissimi ingredienti a disposizione e si potevano davvero costruire molteplici combinazioni per cucinare piatti gustosi: il Delta del Po, la crisi climatica, la siccità, le alluvioni in Emilia Romagna, le memorie della resistenza, gli attentati degli anni Sessanta e Settanta, la strategia della tensione, il dramma dell’isolamento dovuto al Covid, le grandi tragedie del Novecento che scorrevano come un fiume in piena fino a sfociare nel grande mare del nuovo millennio.
A causa di congiunzioni astrali avverse, e forse anche per il mio essere cronicamente maldestro, non sono riuscito a procurarmi il libro in tempi stretti. Abbandonata l’idea di battere sul tempo la concorrenza, sono tornato alla lettura lenta. Ripensandoci a freddo, credo sia stata una fortuna. Ho avuto la sensazione di precipitare in un universo parallelo, che mi ha trasformato in un prigioniero felice, ben contento di rimanere nel suo luogo di detenzione. Tuttavia credo sia bene mettere in chiaro una questione: leggere Gli uomini pesce è un’esperienza avvincente come poche altre, ma non semplice. Le linee di confine che potrebbero aiutare a rendere decifrabile la “materia narrativa” nella sua interezza risultano essere sfumate, frastagliate, fragili. Più che favorire l’orientamento nei sentieri della trama, le mappe, le genealogie e le raffigurazioni iconografiche presenti fra le pagine fungono da strumenti di amplificazione del perturbante. Ti offrono talvolta l’illusione di aggrapparti a un punto fermo ed evitare la deriva, ma ben presto ti rendi conto di dover accettare il rischio di perderti e trovare il coraggio di lasciarti andare, oscillando fra presente e passato, fra razionalità e immaginazione, fra concretezza e sogno.
Il racconto parte dall’estate del 2022. Ilario Nevi – un partigiano ferrarese, divenuto famoso come regista, artista e intellettuale – muore a 98 anni, lasciando ai suoi familiari un’eredità pesante, composta da beni immobiliari, ma anche da misteri irrisolti. A raccogliere la porzione più controversa di questo patrimonio è la nipote Antonia Nevi, una geografa impegnata a studiare l’estrema porzione orientale del territorio del Po, sopravvissuta a un incidente che le ha provocato gravi traumi sul piano fisico e psicologico, oltre a compromettere il suo rapporto con il compagno Arne, detto Sonic (un musicista e compositore statunitense, specializzato in esplorazioni di “paesaggi sonori”). Pur non avendolo scelto, Antonia si avventura in un’indagine che la conduce negli angoli più remoti dell’universo privato dello zio Ilario, abitato da molte persone reali e da altrettanti fantasmi.
Sono ancora forti gli strascichi della reclusione pandemica e il livello dell’acqua del fiume non è mai stato così basso. Gli imbarazzi degli esseri umani, quasi assuefatti alla solitudine, alla limitazione della mobilità e alla negazione del contatto fisico, sembrano riflettersi nel grande specchio di un paesaggio sofferente, apparentemente predisposto a mettere in scena il suo dolore, nella speranza che qualcuno sia in grado di comprenderlo. In questo scenario, la protagonista prova a rimettere insieme i pezzi di un mosaico talvolta troppo surreale per poter avere un senso compiuto. Si imbatte nelle vicende dei dissidenti dell'epoca fascista, nella lotta dei partigiani, in un luogo di “sottomondi e reticoli nascosti”, fino a risalire pian piano nei sentieri del secondo dopoguerra, alla ricerca di un filo rosso che possa riportarla ai giorni nostri, dandole qualche strumento per affrontare il dolore del presente.
Antonia colleziona con pazienza le tracce utili alla sua indagine, ma finisce per perdersi in un groviglio di segni indecifrabili, fra fughe oniriche e potenziali negazioni del sapere “ufficiale” (quello codificato nei dipartimenti e nelle aule universitarie, dove lei svolge il suo lavoro). Si imbatte nella “leggenda di un essere anfibio” – chiamato “Homo Bracteatus”, con branchie e testa di pesce – che vive nei canali e all’improvviso decide di uscirne per sbranare animali o terrorizzare gli esseri umani. Inciampa nelle testimonianze di “appassionati di misteri”, in un falso diario di Lovecraft incentrato su un viaggio nel Polesine, o in “scontri tra ufologi, cercatori di cacche extraterrestri, falsari, inventori di bufale letterarie”. È incredula di fronte all’ipotesi che Ilario abbia potuto prestare attenzione alle suggestioni formulate in questi ambienti, ma non si perde d’animo, spinta da un’ostinazione che, pur senza negare l’esercizio della razionalità, schiude le porte all’uso dell’intuito o della congettura.
Per entrare nel mondo di Ilario Nevi serve infatti un abbandono fiducioso, simile a quello che Wu Ming 1 chiede alle sue lettrici e a suoi lettori. Muovendosi tra archivi tanto ampi e affascinanti quanto disorganici, Antonia viene in possesso anche delle memorie di Erminio Squarzanti, un caro amico di Ilario, confinato dal regime fascista a Ventotene. Uno studente le aveva raccolte decenni prima con l’obiettivo di imbastire una tesi di laurea, ma si era visto opporre un netto rifiuto dal suo relatore, non disposto a dar credito alle parole di una persona affetta, a suo avviso, da disturbi mentali. Lo stesso Erminio, del resto, si definisce in quelle carte un “narratore inaffidabile”, simile ai “folli di certi racconti di Poe”, incapace di distinguere fra verità e invenzione, smarrito di fronte al solco che separa “i ricordi dai sogni”. E attende qualcuno che sappia rimettere “in ordine” una storia che ai suoi stessi occhi continua a rimanere oscura, se non addirittura priva di senso. Può dire solo come l’ha vissuta, offrendo il suo claudicante punto di vista: nulla più.
Studiare il passato di un territorio significa quindi entrare nei mondi interiori di chi ne ha respirato l’aria, ne ha visto i colori, ne ha avvertito gli sconvolgimenti. Anche i segmenti più reticenti della coscienza individuale possono restituire porzioni rilevanti della realtà sociale, culturale, politica, economica, militare e – credo sia opportuno sottolinearlo – ambientale di un’epoca. Mentre prova a svelare tutti gli incredibili segreti della vita di Ilario (evito di fare cenni espliciti, per non anticipare le sorprese contenute nel libro), Antonia riconosce l’importanza delle creature che hanno popolato le sue mitografie private, tanto inverosimili quanto salutari per salvarlo “dagli esiti peggiori del trauma”. Il partigiano è convinto di aver visto gli “uomini pesce”, ma tiene in considerazione l'ipotesi che sia stato qualche anfratto della sua mente a spingerlo a credere in quegli inquietanti esseri anfibi. Li ha visti afferrare e addentare i soldati tedeschi fino a trascinarli sul fondo del Po. Ha voluto intravedere in quelle aggressioni anche delle opportunità donate ai nemici, utili a prendere coscienza delle atrocità commesse: “Dopo anni di massacri, distruzioni, deportazioni, milioni di lutti, milioni di vite ferite per sempre, solo adesso si accorgevano che la guerra era un incubo d’orrore”.
Il Delta del “Grande fiume” non è solo lo scenario di queste vicende: si propone come personaggio centrale della narrazione, manifestando la sua voglia di lottare per la vita, lanciando i suoi segnali a un’umanità superstite, che appare stordita di fronte alle evidenze della crisi climatica e alla prospettiva sempre più concreta di una catastrofe globale. Il Delta martoriato prova a raccontare la sua versione dei fatti, ma ha bisogno di persone disposte a capire il passato e pronte a disegnare il futuro, evitando che a sopravvivere siano solo gli ecomostri diroccati “avvinghiati da rampicanti”, i parchi acquatici, gli scheletri delle discoteche, i resti abbandonati dei villaggi vacanzieri e delle altre strutture turistiche del litorale. Il Delta tende a far emergere la sua identità geostorica e geoculturale, imponendo la sua temporalità alla fallacia cognitiva degli esseri umani, mettendo a nudo tutti i limiti delle iniziative politiche ed economiche che si sono accumulate in quel preciso contesto spaziale attraverso i decenni.
L’immaginazione romanzesca può essere dunque considerata, con buone ragioni, una forma di resistenza di fronte a un destino apparentemente segnato. Nel tentativo di risolvere i loro drammi privati e collettivi, i personaggi prendono man mano coscienza della necessità di un cambio di paradigma, che metta al centro l’essere umano e le sue modalità di interazione con l’ambiente naturale. Pur avendo una piena autonomia nella sua forma espressiva, dunque, l’opera letteraria si configura come parte di un progetto culturale più ampio, fondato su una presa di responsabilità che agisce su tre livelli diversi: la comprensione di ciò che è già accaduto, la ricerca di una direzione nel mondo d’oggi e la definizione di prospettive per gli anni a venire. In parole più povere, chi si sforza di capire la storia e l’immaginario di un territorio ha la possibilità effettiva di riscrivere il suo futuro, attivando un meccanismo virtuoso di partecipazione che può avere importanti conseguenze politiche. Le soluzioni proposte dai poteri costituiti sono indissolubilmente legate a un’idea di passato statica, per certi versi immutabile, e mirano al perpetuarsi di un percorso di sviluppo monolitico, di un andamento produttivo o speculativo considerato inesorabile, proprio come se non ci fossero alternative praticabili (ebbene sì, il vecchio e consumato “there is no alternative”).
L’unica via per intaccare quel racconto (in altri tempi, lo avremmo definito “egemonico”) è depotenziare le sue parole d’ordine e le sue formule stereotipiche. Per raggiunge questo scopo, Wu Ming 1 fa ricorso a un variegato arsenale di espedienti, trasformando il suo libro in un metamorfico strumento di battaglia: una sorta di creatura anfibia, a sua volta, capace di cambiare faccia a seconda delle occorrenze. L’autore decide ad esempio di evocare connessioni con universi narrativi già esistenti – particolarmente vistosi sono i riferimenti a Ufo 78 e La macchina del vento – e riesce, allo stesso tempo, a sviluppare un universo narrativo inedito che si espande in maniera spontanea, grazie al contributo di una tribù di lettori-fruitori affamati di partecipazione, pronti a diventare parte integrante del processo creativo con l’aggiunta di aneddoti, sottotrame, segnalazioni, commenti, obiezioni. Costruisce suggestioni basate su materiali cinematografici, figurativi o musicali, suggerendo anche una playlist da affiancare al romanzo (ascoltabile su diverse piattaforme e comprendente anche i brani dell’album Lovecraft nel Polesine di Jet Set Roger). Progetta escursioni, sopralluoghi, e incontri di “convergenza culturale” fra i luoghi degli “uomini pesce”. E soprattutto tiene ben in rilievo la dimensione politica della ricerca letteraria, scoprendo piccoli semi di verità che conducono al cuore di una storia rimossa e oscura, costruendo un’operazione di scavo nelle epoche trascorse che non tende alla sola soddisfazione intellettuale, ma ambisce a consegnare al presente un nuovo impulso di cambiamento.