Roberto Baggio e l'epica imperfetta

La memoria collettiva del nostro paese torna spesso sul dischetto del Rose Bowl di Pasadena. Sembra quasi incredibile che siano trascorsi 30 anni esatti. Era il 17 luglio del 1994. In quel giorno si giocò la finale della Coppa del Mondo di calcio. Gli azzurri si erano presentati negli Stati Uniti col favore del pronostico. Avevano tutte le carte in regola per arrivare fino in fondo. In panchina c’era Arrigo Sacchi, un allenatore vincente, ideatore di stupefacenti geometrie, artefice dei trionfi del Milan nella prima era berlusconiana. La maglia numero 10 era invece sulle spalle di Roberto Baggio, una stella assoluta, fresco vincitore del pallone d’oro, capace di produrre magie sul rettangolo verde che erano riuscite solo a pochi altri. 

Tuttavia il torneo era iniziato molto male per gli azzurri. Nella prima partita del girone eliminatorio erano stati battuti dall’Irlanda. Nel secondo appuntamento con la Norvegia si rischiava già l’eliminazione e, dopo soli 21 minuti, il portiere Pagliuca fu espulso per aver toccato la palla con le mani fuori area. Per far entrare il sostituto Luca Marchegiani fra i pali, bisognava quindi togliere un altro calciatore dal campo. Il “commissario tecnico” decise di far uscire proprio lui: Baggio. Le telecamere lo inquadrarono in volto e tutte le persone davanti alla tv riuscirono a leggere senza troppi sforzi le parole che si stamparono sulle sue labbra: “Questo è impazzito”. La squadra passò il turno, dopo indicibili sofferenze, superando avversari non irresistibili.   

La storia del mondiale del “divin codino” cambiò negli ottavi di finale. Svegliandosi dal torpore nel quale era caduto, Baggio realizzò due reti contro la Nigeria e mise a segno il goal decisivo per battere anche la Spagna. Trascinò i suoi compagni alla vittoria nel confronto successivo con la Bulgaria, che si giocò nel Giants Stadium di New York: in pochi minuti riuscì a mettere all’angolo gli avversari con capolavori balistici di rara bellezza, ma fu costretto a uscire dal campo per un infortunio. Nei giorni che precedettero l’ultimo atto del torneo, la sua presenza fu in forte dubbio. Solo nelle ultime ore, Sacchi rivelò che l’attaccante avrebbe stretto i denti per non mancare all’appuntamento più importante.   

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Ad attendere gli azzurri c’era il Brasile di Romario, Bebeto e Dunga. Il calcio di inizio fu dato alle 12 e 30, in pieno giorno, sotto la luce accecante della California del Sud, di fronte a 95.000 spettatori. La partita si allungò fino ai tempi supplementari, con rarissime emozioni e senza reti. Per la prima volta una finale della Coppa del Mondo finì ai calci di rigore. E l’ultimo tiro, quello decisivo, toccò a lui. Sappiamo tutti cosa accadde: il pallone finì alto, altissimo, senza nemmeno sfiorare la traversa della porta difesa dal portiere carioca. Baggio rimase immobile, per molti secondi. I fotogrammi della sua lunga paralisi, del suo volto incredulo, della sua testa bassa si sono conquistati un posto indelebile nelle nostre menti. Ci riguardano, sono parte delle nostre vite, e non importa se allora eravamo bambini, adolescenti, adulti. In quanto italiani, abbiamo ancorato la nostra memoria collettiva al racconto di una sconfitta. 

È difficile spiegare la forza persistente di questo legame emotivo, a distanza di 30 anni. Baggio non piaceva agli allenatori, agli “esperti” del gioco. Rompeva gli schemi, le geometrie e le logiche del profitto. Era fragile, aveva ginocchia di cristallo, scarsa resistenza. Rimaneva spesso in panchina, in attesa di entrare nei momenti decisivi delle partite, quando gli avversari o i compagni di squadra, quelli forti e affidabili, erano più stanchi. Era un campione, ma anche chi era abituato a stare ai margini poteva identificarsi con la sua immagine sofferente. Il momento più significativo dell'avventura sportiva di Baggio – o quanto meno il più ricordato – è stato un errore: un errore pesante, uno di quegli errori che cambiano il tuo modo di guardare il mondo, lasciandoti la sensazione di essere sempre dalla parte sbagliata della storia.

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Dal quel 17 luglio fino a oggi, innumerevoli racconti, poesie e canzoni hanno fermato l’attenzione su questo momento iconico degli anni Novanta. Nei primi anni Duemila, Lucio Dalla e Cesare Cremonini composero brani per l’eroe solitario che allietava le domeniche con i suoi colpi di genio. In tempi più recenti, Diodato si è interrogato sull’amore e la popolarità che hanno circondato questo calciatore, tornando sempre sul fatidico errore del dischetto. E i Pinguini Tattici Nucleari hanno ricordato in un fortunatissimo tormentone estivo (Scrivile scemo, 2020) che “ci vuole coraggio nel ’94 ad essere Baggio”. Scorrendo le biografie dei membri della band bergamasca, scopriamo che molti di loro sono nati proprio nell’anno dei mondiali di calcio disputati negli Stati Uniti. Difficilmente possono aver accompagnato con gli occhi il pallone calciato da Roberto nella curva del Rose Bowl di Pasadena, ma quel momento è presente nel loro immaginario, ormai allineato con quello di tantissime altre persone. 

La grande occasione mancata degli anni Novanta è rievocata anche da chi non ha potuto viverla in prima persona. Si ripresenta sotto forma di memoria collettiva, sfruttando i meccanismi di un ecosistema mediatico che ripropone in maniera incessante parole, suoni, immagini ed emozioni del passato. Avvolge in un alone mitico un intero decennio, che sembra rimanere in un cono d'ombra, riluttante a qualsiasi etichetta o forma di catalogazione. Forse non è un caso che molte scrittrici e scrittori comincino a definirlo “perduto" (lo ha fatto, ad esempio, Eleonora Caruso nel romanzo Doveva essere il nostro momento) per un'intera generazione che era chiamata a gestire una transizione epocale e che si è trovata invece a essere messa da parte nel vortice del nuovo millennio, troppo giovane per poter prendere decisioni importanti e già troppo vecchia per poter scrivere l’agenda del cambiamento. 

Rispetto a tanti altri grandi campioni e celebrità di quegli anni, Roberto Baggio assorbe su di sé lo spirito di un periodo storico che avrebbe potuto e invece no, è rimasto incompiuto nel suo potenziale. Come ha osservato Emanuele Atturo, caporedattore di “Ultimo uomo”, gli italiani sono tradizionalmente affascinati dai percorsi che conducono alla glorificazione attraverso la sofferenza, ma anche i fallimenti o le occasioni mancate. Pur avendo ottenuto importanti risultati a livello nazionale, Roberto Baggio ha partecipato a tre mondiali senza riuscire a vincerne nessuno. A una Storia che non gli ha fatto giustizia, noi abbiamo risposto trasformandolo in icona, facendo sì che la sua parabola raccontasse un po’ anche la nostra, quella della generazione nata tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, la prima a crescere con confidenza nella rete e che tuttavia si è trovata esclusa dalla piena realizzazione personale per colpa di due grandi crisi economiche, nel 2008 e nel 2011. Col senno di poi, Baggio ha anticipato la narrazione di quello che sarebbe accaduto a molti ragazzi che lo guardavano giocare. 

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La nostalgia che abbiamo per gli anni Novanta ha investito inevitabilmente anche il nostro rapporto con il campione rendendolo eterno nel momento sospeso della sconfitta, dell’errore, un attimo prima del tracollo. Si tratta di una forma di sopravvivenza che trasforma il tragico in romantico per alleviare il peso del disincanto. Chi è oggi Roberto Baggio? Il suo dopo carriera è un racconto poco appassionante. Non si è reimmaginato allenatore, né imprenditore. La sua vita resta fuori dai riflettori, quello che sappiamo di lui si riferisce a quello che è stato e non a quello che è oggi. Quando qualche tempo fa la notizia della rapina in casa del calciatore con conseguente sequestro ha raggiunto i giornali, la nostra indignazione è stata mossa dalla percezione che qualcosa di sacro fosse stato toccato, e che la punizione che ne sarebbe conseguita avrebbe dovuto essere anch’essa eccezionale, amplificata ben oltre il contesto specifico dell’atto criminale in sé. 

Sulla pagina Instagram di “Serie A Operazione Nostalgia”, tra gli ultimi post si trovano le foto di un recente raduno in cui compare proprio Roberto Baggio, col codino imbiancato, i jeans e la maglietta dell’evento, una partita che avrebbe riportato insieme una serie di campioni storici del decennio Novanta. Baggio passeggia sul campo tra i tifosi e si commuove, i tifosi si commuovono, tutti si abbracciano e allungano le mani per afferrare quella del calciatore come in cerca di una benedizione. Andrea Bini, co-fondatore della manifestazione, lo bacia sulla testa. “È stato un bacio che ti manda tutta Italia” scrive nel testo del post, “perché tu ancora non hai capito cosa hai fatto per noi, per la nostra generazione. Tu ci hai fatto innamorare di questo sport e noi ti ringrazieremo per sempre.”

L’affetto dimostrato a Roberto Baggio in quell’occasione, si concretizza in un abbraccio e in un bacio un po’ paternalistico dato sulla testa, come si farebbe con un bambino. Si tratta in effetti, quest’ultimo, di un gesto che tradisce, che racconta molto di noi oggi. Buona parte dell’affetto che nutriamo verso Baggio, in realtà nasconde un sentimento di tenerezza verso noi stessi bambini. Noi, ragazzini impegnati a sognare all’inizio di un decennio che ancora non era precipitato nel mondo da cui saremmo rimasti esclusi. L’abbraccio, il bacio, sono in effetti non tanto per il campione, quanto per noi. Per la nostra vulnerabilità di individui impreparati, sprovvisti e sprovveduti nei confronti del futuro che ci saremmo trovati ad affrontare, troppo spesso senza successo.

La memoria del mondiale del 1994 serve in fondo anche a questo: proiettare sullo schermo di una memoria nostalgica le ansie del nostro presente, cercando un orientamento che ci aiuti a muoverci nel caos in cui siamo immersi. Roberto Baggio è il protagonista di un'epica imperfetta, ormai trasformata in romanzo. È sceso dallo scranno degli eroi per tornare a camminare con passo incerto fra gli uomini. Ha lavorato tantissimo, prodotto una quantità enorme di sacrifici, provato a sfruttare fino in fondo il suo enorme talento, per ritrovarsi solo un pugno di mosche fra le mani. Oggi vive “di cose semplici” – riprendiamo le sue parole da una recente intervista – lontano dal calcio, alla ricerca di “piccole gioie quotidiane". Ha fatto, come tante altre e tanti altri, un passo indietro dalle sue stesse passioni. Ma ripensa ancora, ogni tanto, a quel pallone che vola via, portando con sé il sogno di una vita. 

 

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