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Scarabocchi con Altan (3): Pimpa o dell’infanzia
«Perché tutto quello che incontra la Pimpa parla?» ha chiesto un bambino ad Altan nel corso di un incontro al Teatro Massimo di Torino, nel 2016.
«Perché la Pimpa è molto attenta. E si accorge di quando un oggetto che apparentemente non parlerebbe, ha voglia di farlo. E allora lei gli rivolge la domanda, l’oggetto le risponde, e da questo scambio nasce una nuova amicizia», è stata la risposta di Altan.
Questo scambio di battute si trova nel catalogo dedicato all’opera di Francesco Tullio Altan in occasione della mostra del 2019 presso il MAXXI di Roma, a cura Anna Palopoli e Luca Raffaelli (Panini 2019), ed è una delle interviste qui pubblicate che Raffaelli ha condotto con Altan nel corso di festival ed eventi pubblici. A queste interviste hanno assistito anche bambini. Giustamente, perché Altan ha creato quello che in Italia è senza dubbio il personaggio più celebre rivolto ai lettori piccoli, la mirabolante Pimpa, che suscita una quantità di domande che i bambini formulano con la stessa precisione e innocenza della loro beniamina.
Un adulto probabilmente si riferirebbe con il termine animismo al potere di Pimpa di far parlare ciò che la circonda, ovvero quell’attitudine infantile e primitiva descritta da antropologi e psicologi, che attribuisce proprietà spirituali a realtà puramente fisiche, grazie a un processo per cui, per analogia, in ogni fenomeno universale viene proiettato il proprio spirito vitale, animandolo.
Per un bambino, come per la Pimpa, si tratta, invece, di un’esperienza quotidiana di incontro con le cose e gli altri esseri viventi. Nella risposta di Altan questo salta subito all’occhio: chi è attento non solo si accorge di quello che ha intorno, ma anche di quello che non si vede eppure si muove nelle cose, chiuso, misterioso, inespresso, ma radioso, raggiante. Richiamata da questa vita dentro le cose, Pimpa pone domande e ciò che fino a quel momento era chiuso in una silenziosa identità, improvvisamente acquista parola e comincia a parlare. La lingua in cui ciò avviene è quella di tutte le cose, che poi è la stessa che parla Pimpa, una pre-lingua madre che sgorga dalla semplice verità di essere tutti fatti della stessa materia del mondo.
Il lettore adulto scopre così che, se ben li si ascolta, possono mettersi a parlare sveglie e campanili, locomotive e tostapane, frigoriferi e nuvole, poltrone, letti, lampade, divani, computer, navi, stivali da pioggia e barche, maglioni e sciarpe, libri e temporali, aquiloni e montagne, aeroplani, onde, case…
Parlano anche i pois rossi della Pimpa che ogni tanto si prendono una vacanza e tutti insieme migrano, lasciando la loro proprietaria bianca come la neve e quasi irriconoscibile.
Naturalmente parlano anche tutti gli animali, dai pinguini alle formiche, dagli ippopotami alle cicogne, dai millepiedi agli orsi, ma questo oggi sappiamo che capita, se, come racconta la filosofa Eva Meijer in Linguaggi animali. Le conversazioni segrete del mondo vivente (Nottetempo 2021), i suricati e molte altre specie come loro, si esprimono in una lingua che ha verbi, nomi, aggettivi e perfino avverbi.
Parlano, poi, piante, fiori e alberi, bulbi e radici, e a breve scopriremo che, in effetti, eravamo noi esseri umani i soli rimasti a non saperlo. Parlano i frutti, le mele e le albicocche ed è tutto un gran traslocare da un albero all’altro, in uno stupefacente giro vegetale di visite e controvisite.
Parlano il Sole e la Luna, presenze fondamentali nelle storie della Pimpa, che, il più delle volte, si svolgono nell’arco di una giornata, al sorgere e al calare dell’uno e dell’altra. Perché quello di Pimpa è, sì, un universo straordinariamente variegato e in perenne mutamento dove accadono cose talmente improbabili che sono i soli bambini a pensare e a sapere, ma anche ordinato, regolare e pieno di buon senso. Se qualcuno ha freddo, lo si riscalda; se ha fame, lo si nutre; se ha sonno gli si prepara un letto; se ha voglia di parlare, lo si ascolta; se vuol compagnia, lo si accompagna; se ha paura, lo si conforta. È un universo gentile, dove le cose si prendono cura le une delle altre e che funziona grazie a questa intima e diffusa intelligenza che lega tutte le cose fra loro in mirabile equilibrio.
Di un mondo siffatto, Pimpa è campionessa assoluta. Come anche l’Armando, il suo proprietario, papà e amico che, dietro una svagatezza e pigrizia d’altri tempi, lascia che il gran teatro di questo mondo misterioso e parlante si svolga indisturbato, limitandosi ad aprire e a chiudere le avventure della sua cagnetta con minime e affettuose domande. Perché Pimpa, come ogni bambino o bambina che si rispetti, prima di andare a dormire vuole raccontare la propria quotidiana avventura e, con le sue scoperte, stupire chi la ascolta.
In una delle numerose altre interviste contenute nel catalogo, Altan spiega: «Armando è nato insieme alla Pimpa […] e si comporta, secondo me, come un genitore dovrebbe comportarsi sempre: far fare tutto quello che la Pimpa vuole, sorvegliandola da lontano senza intromettersi, e poi facendo finta di credere alle cose che lei gli racconta. Che, però, forse, sono anche vere.»
Armando, infatti, sembra essere al mondo al solo scopo di stupirsi davanti ai meravigliosi scarti logici del pensiero di Pimpa che, come quello dei bambini, va in tutt’altro modo da quanto ci si potrebbe aspettare, beffandosi con naturalezza di sicurezze e aspettative. Trovo congeniale, a questo proposito, il titolo del catalogo del MAXXI: Pimpa, Cipputi e altri pensatori. Pimpa è davvero una pensatrice sopraffina, capace di una filosofia della gioia limpida, profonda e convincente come poche altre.
In una riflessione su di lei presente nel catalogo, il filosofo e matematico Douglas R. Hofstadter, centra in pieno questo aspetto, sottolineando: «C’è qui una fantastica logica infantile che sfugge agli adulti, ma proprio per questo li incanta.» E aggiunge: «A dire il vero, io, anche ora, ventisei anni dopo avere scoperto la Pimpa e Armando, torno spesso alle nostre raccolte e rileggo le storie con una delizia indescrivibile.»
È questa filosofia della gioia ciò che realizza il secondo grande prodigio di Pimpa: risvegliare le cose dal loro sonno, inducendole, al suo semplice passaggio e per segreto soprassalto vitale, ad aprire gli occhi su quel mondo dove fino a quel momento si sono limitate a essere familiari e invisibili presenze. Nelle storie di Pimpa tutto è risveglio, accensione dello spirito che dorme in ogni cosa, prendere vita rivelando che tutto è provvisto di occhi pronti ad affacciarsi sul mondo, schiudersi e guardare.
Altan ottiene questo effetto con disarmante semplicità, come è nel suo stile (e come accade nei disegni dei bambini), ovvero aprendo un paio di occhietti vispi su quelli che poi, improvvisamente, noi lettori leggiamo come i volti amichevoli di oggetti e fenomeni, mezzi di trasporto ed edifici, piante, corpi celesti e paesaggi.
La Pimpa provoca risvegli attraverso lo sguardo e la parola. E attraverso questi risvegli libera le cose e gli esseri viventi dalla invisibilità a cui sono confinati.
Questa attribuzione di caratteri umani alla materia inanimata o animata ha un nome, antropomorfismo, atteggiamento che secondo gli studiosi caratterizza le culture primitive e antiche, vero e proprio spauracchio per il pensiero scientifico, da stigmatizzare ed evitare a tutti i costi.
Ricordo, tuttavia, la mia sorpresa nel leggere nel bellissimo Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? (Cortina 2017), alcune riflessioni di Frans de Wall sull’antropomorfismo che, a sorpresa, capovolgevano l’argomento, riflettendo che uno degli ostacoli principali al riconoscimento dell’intelligenza degli animali da parte del mondo scientifico è stato proprio il travisamento della sua origine. E se la scienza avesse sbagliato a considerare la tendenza antropomorfizzante dei primitivi e dei bambini, leggendola, limitatamente, come proiezione fantastica della propria natura su ciò che non è umano? E se invece, la nostra tendenza ad antropomorfizzare, ovvero del nostro leggere sentimenti e pensieri in altri da noi, fosse frutto di un istintivo riconoscimento della naturale affinità che ci lega a tutto il vivente? Della nostra capacità di leggere ciò che realmente ci somiglia per il semplice fatto di appartenere alla stessa materia e di essere regolati e soggetti alle medesime leggi? Se l’antropomorfismo fosse il modo in cui il nostro cervello trasforma in comprensione la presenza nei nostri corpi millenari di tutte le specie animali e perfino vegetali e minerali che l’evoluzione ci ha fatto attraversare per arrivare fino a ciò che oggi siamo? Insomma, antropomorfizziamo non perché pensiamo di essere la misura di tutte le cose, ma perché, al contrario, comprendiamo intuitivamente che sono tutte le cose la nostra misura.
Come Altan ha spiegato a quel bambino di cui dicevo all’inizio: dagli sguardi e dalle parole fra Pimpa e le cose che la circondano nasce uno scambio e, da questo, una nuova amicizia. È una filosofia naturale semplicissima che pone nella relazione fra le diverse entità, che siano animate o inanimate, il senso più autentico della vita, la sua possibilità di essere; una filosofia dalle implicazioni straordinarie che, oggi biologi, fisici e astronomi ci dicono non essere poi così lontana dalla verità. Una filosofia che, di questi tempi, ha una preziosissima e inascoltata virtù: essere fonte di saggezza e di indescrivibile delizia. Ne abbiamo una necessità disperata.
Tutte le immagini di questo articolo sono tratte da “50 storie a fumetti della Pimpa” e “Altre 50 storie a fumetti della Pimpa”, edite da Franco Cosimo Panini 2012 e 2013. L’ultima immagine è tratta da “Ciao! Sono la Pimpa”, Rizzoli 1978.