I bambini si rompono facilmente

27 Giugno 2023

Alcuni giorni fa ha fatto il giro del mondo la notizia dei quattro fratelli, di tredici, nove, quattro e un anno, smarriti nella foresta amazzonica e ritrovati vivi, dopo quaranta giorni. I bambini, appartenenti all’etnia huitoto, affermano i media, si sono salvati grazie alla conoscenza dell’ambiente ostile in cui si erano smarriti. Secondo le ultime notizie, legate allo scontro fra i parenti per l’affidamento (il padre è accusato di maltrattamenti verso la madre), si nascondevano nella foresta quando scoppiavano liti tra i genitori. Quel che i giornali hanno scritto traccia, comunque, i contorni di una vicenda che sarebbe straordinaria, se non fosse, invece, esemplare. Sopravvissuti alla sciagura aerea che ha ucciso gli adulti che viaggiavano con loro, hanno vegliato la madre, morta dopo quattro giorni di agonia. Sono rimasti uniti, hanno costruito capanne per ripararsi dalla pioggia, si sono sfamati con frutti e con alcuni cibi recuperati dai kit di sopravvivenza lanciati dai mezzi in sorvolo inviati a cercarli. Spaventati dalle voci degli uomini dei soccorsi, si sono dati alla fuga attraverso la giungla. È stata la voce della nonna a convincerli a fidarsi di loro. Infine, feriti, esausti, smagriti, sono stati tratti in salvo. Il filmato di una rete tv colombiana che testimonia il momento del ritrovamento ha qualcosa di surreale. L’enormità della prova che i bambini hanno superato non ha relazione con le immagini dei corpi adulti dei salvatori. Il contrasto fra l’inerme presenza dell’infanzia e la sicurezza dei gesti dei militari, definisce la distanza fra l’esperienza propria alle due età.

n

“Stare accanto ai bambini è stare accanto a un mistero” scrive Silvia Vecchini, poeta e scrittrice, nel prologo alla sua raccolta di racconti appena uscita per Bompiani I bambini si rompono facilmente, la cui citazione in esergo è tratta da Gli anni in tasca di François Truffaut: “I bambini sono resistenti, sbattono dappertutto, contro la vita, ma hanno un angelo custode. E poi hanno la pelle dura”. Si tratta del commento di Lydia Richet a un incidente occorso a un bambino piccolissimo, caduto dalla finestra all’inseguimento di un gatto e salvatosi ‘miracolosamente’. 

Della presenza di questo angelo scrive Vecchini introducendo i venti racconti della raccolta, ognuno dedicato a un bambino o una bambina di cui ha conosciuto la storia: la bambina contaminuti, quella sirena, quella dell’aurora o del falò; il bambino centauro, quello mutaforma, quello bucato, quello lievitato… L’angelo, spiega Vecchini, passa in rassegna ogni cosa intorno a loro: “L’intento è sradicare il male, correggere torti, farli cessare. … L’angelo usa i suoi mezzi per avvertire di non toccare, non spegnere, non rompere la luce dei bambini. Altre volte nemmeno un angelo è capace di portare a termine il suo compito e infinite luci si spengono. Ma di queste volte non ho scritto.”

n

Chi pratica la letteratura per l’infanzia, riconosce nell’incredibile avventura amazzonica i topoi di un vero e proprio percorso iniziatico che, per questo, si può considerare esemplare. Prove terribili, quali la fame, la paura, la solitudine, la morte della madre, la foresta divoratrice e le sue costanti minacce. Leggendo queste notizie, vengono in mente smarrimenti famosi, come quelli di Hansel e Gretel o di Pollicino e dei suoi fratelli. Ho pensato anche a La bambina che amava Tom Gordon, di Stephen King, storia di Trisha McFarland che, durante una gita sull’Appalachian Trail, allontanatasi dai litigi incessanti fra la madre e il fratello, si perde nella foresta. Braccata dal Dio dei Perduti, personificazione di una natura impietosa e terribile, dopo alcuni giorni, ormai data per dispersa, riesce a scampare alla morte grazie a quel che lei chiama il Dio di Tom Gordon, il suo giocatore preferito dei Boston Red Sox, spirito della salvezza, richiamo trascendente alla capacità di adattamento e di resistenza di Trisha.

«Il mondo aveva i denti e con quei denti poteva morsicarti in qualsiasi momento. Ormai lo aveva imparato. Aveva solo nove anni, ma lo sapeva, e pensava di poterlo accettare. Ne aveva quasi dieci, del resto. Ed era grande per la sua età» scrive King. Il terzo dio che Trisha menziona durante il suo calvario è l’Inaudibile che suo padre descrive così: “Sì, qualcosa. Una misteriosa forza insensata e rivolta al bene. Sai cosa vuol dire insensato? … C’è qualcosa che ci impedisce di mollare anche quando vorremmo. Anche quando rinunciare avrebbe molto più senso che insistere. … Non un dio perfetto, misericordioso e onnivedente, non credo ci siano prove a sostegno di questa tesi, ma una forza, sì.” Mentre Trisha ricorda le parole del padre – un uomo decisamente molto rotto, molto ammaccato – pensa: “In quel momento le era sembrato vecchio. Un po’ confuso. Un po’ spaventato. (Un po’ perso nel bosco, pensò ora, seduta sul ceppo caduto con lo zaino tra le scarpe).”

n

Oltre che di bambini, i racconti di Silvia Vecchini trattano anche di adulti persi nel bosco, smarriti in quella che si direbbe un’assenza radicale, una incapacità di stare nella vita, nel rischio che comporta, disposti a perdere tutto in cambio di una qualunque promessa di sicurezza, persi nel lavoro, nella depressione, nell’ossessione religiosa, erotica, nell’efferatezza del dolore, nell’ansia di perfezione, in un pragmatismo ipocrita, in un vacuo egocentrismo, nel rancore per un benessere che non ha mantenuto le sue promesse, in una arrogante ottusità. 

Sono racconti perfetti, una perfezione che è il risultato di una cautela dovuta alla distanza di rispetto dal territorio che esplorano, quello del mistero dell’infanzia, in cui ogni parola determina la misura adatta a restituirne la profondità e l’ampiezza, indicibili. “Ho provato a usare la scrittura breve”, dice Vecchini, “come un’antenna capace di intercettare una frequenza che non sentiamo. Il discorso sotterraneo dei bambini, il loro ammaestramento.” 

Tutti i venti racconti, terminano in un non detto che somiglia al delta di un fiume, a un sistema venoso, arboreo e nella scrittura prende forma di un testo in versi: “Alla fine di ogni racconto, la parola si condensa e precipita nei versi. È l’impronta leggera dei bambini che passa accanto alla cieca distrazione degli adulti, è la traccia del loro indirizzarsi al bene quando non si vede, la fedeltà alla vita anche se ferisce, il credere e il capire, i loro giuramenti, il fitto colloquio con anime e animali…” L’ammaestramento dei bambini parla attraverso le molte lingue del silenzio in un mondo in cui il rumore non fa che crescere. L’invisibilità è il suo segno primo. Per riconoscerlo ci vogliono occhi buoni.

m

In Come un bambino. Saggio sulla vita piccola (Morcelliana, 2013), Gabriella Caramore, all’inizio del libro, ricorda alcuni versetti del capitolo 10 del Vangelo di Marco: “Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s'indignò e disse loro: "Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso". Scrive Caramore che i discepoli, i più vicini a Gesù, agiscono così perché “maldestramente, … lo vogliono proteggere. Credono di poterlo preservare dalla fatica allontanando da lui almeno i più piccoli, quelli che certamente non arrivano a capire, quelli che non sanno niente, che non contano nulla.” Gesù, però, li vede e li benedice. Dell’infanzia e della sua nudità, lui che, appena venuto alla luce, è diventato l’emblema, sa tutta la potenza e il carisma. Spiega Vecchini che i cuccioli della specie umana sono “quelli a cui nessuna spada ha reciso la radice piantata in Eden e che come un fiume luminescente li segue ma non è vista. Una lunga spina dorsale che li attacca ancora all’origine e da quella trae forza e splendore.” 

La disattenzione cieca verso i bambini è, dunque, storia antichissima e ininterrotta che tocca tutti, anche coloro che si potrebbero considerare i più pii fra gli uomini. È su questo abisso che inghiotte che fanno luce i racconti di Vecchini che nominano con esattezza i luoghi e gli oggetti trappola intorno a cui i bambini devono esercitare tutta la propria pazienza e la propria onestà, tutto il proprio coraggio per uscirne non solo vivi, ma integri, nonostante le ferite: appartamenti, aule di scuola, cucine, ristoranti, giardini, orti, spiagge, lavatrici, tavole, regali e feste di Natale, camerette, cibo, chiese, giocattoli, saponi… Nel tempo quotidiano dall’apparenza solida e familiare, sono loro, i bambini che si imbattono faccia a faccia con la verità, chiamati a farci i conti per tutto quello che non è stato fatto contro il male su cui si pretende di chiudere gli occhi. Se i bambini di queste storie si rompono facilmente, riescono, però, a uscire integri, come, per miracolo, i quattro fratelli sono usciti da quaranta giorni nella foresta amazzonica, anche quando la fiducia di un adulto latiterebbe, travolti da quella che parrebbe una sofferenza senza scampo. E ogni volta è dall’inizio a cui dà luogo la riparazione di cui si fanno carico, che nasce la salvezza.

Le illustrazioni a corredo dell’articolo e presenti nel volume sono di Sualzo.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO