Speciale
Scarabocchi con Altan (4). Cipputi, simbolo eterno
Fra i numerosi personaggi di Altan, Cipputi è certamente il più sfigato: cosa che lo rende, fra l’altro, pericolosamente antipatico. In lui, il cinismo corrosivo che contraddistingue l’immaginario creativo, o se si vuole, l’ideologia politica dell’autore non ispira, come in molti altri casi, tenerezza, affetto o commozione. Ma tutto il contrario: Cipputi fa incazzare, sentimento che si riversa sul mondo intero.
Da che cosa deriva questo inghippo? Lo sappiamo: Cipputi è nato già da subito come un simbolo – “la classe operaia, tradita e rassegnata, in dismissione politica, ma anche sociale, culturale…” – e ben presto è divenuto un’antonomasia – date un’occhiata ai dizionari (che, si badi, non dicono la verità ma registrano usi linguistici diffusi). Capita di sentir dire o di leggere cose come “quel tipo è un Cipputi”, “il Cipputi che è in noi”, “il ritorno dei Cipputi” e simili.
Cipputi è insomma un personaggio che si porta dietro definizioni sociali, lavori idealtipici, collocazioni politiche, concetti. Le storie minimali che lo vedono protagonista, da questo punto di vista, sono al tempo stesso eccezionali e prevedibilissime, dato che il lavoro semiotico che lo contraddistingue (l’unico in cui è realmente impegnato) è quello di spostare sempre in avanti l’asticella del suo (dis)impegno politico e delle passioni che conseguentemente produce nel lettore. La reazione, alla fine, è sempre la stessa: “addirittura!”, “non è possibile!”, “ma guarda un po’ come siamo ridotti!”, “chi l’avrebbe mai detto!”. Come dire, il colmo del metalmeccanico è sempre in azione.
Si finisce così per essere attratti dal caso pietoso – generalissimo nella sua unicità più tipica (Lukács for ever) – e per discettare sino allo sfinimento sui destini non proprio gloriosi del sindacato di fabbrica, sulle condizioni materiali della classe operaia, sui flussi elettorali che essa non sposta più come una volta, sul disfacimento della forma-partito, sulle cellule di zona ridotte a stanzette da equivoco dopolavoro e – ottimismo della volontà – sul potenziale forse ancora non del tutto dissolto del proletariato metropolitano d’oggi.
Spuntano inevitabili forme di paragone: Cipputi farebbe parte nel corteo di operai che esce della fabbrica ripreso euforicamente dai Lumière? Verrebbe risucchiato dai meccanismi della catena di montaggio come il Chaplin di Tempi moderni? E come si troverebbe accanto al Tino Faussone della Chiave a stella? Avrebbe posto nel Vogliamo tutto di Balestrini? C’è anche un cortometraggio di Tatti Sanguineti del 2006 – introvabile in rete – dove Altan, apprendiamo, “si confessa” e racconta le origini del personaggio: ma poi, dai resoconti che troviamo, la conversazione vira tutta sulla politica.
Ecco realizzata con Cipputi la tradizionale sorte dei simboli: quella di divenire tutto concetto e niente figura, d’essere cioè travalicati dal loro senso, da un significato trasbordante che eccede il suo servizievole significante, usandolo surrettiziamente sino allo sfinimento per poi abbandonarlo a se stesso.
Di che cosa si tratta? Vale la pena di riprenderlo nel dettaglio, quest’insieme di tratti espressivi che, a vari livelli ben incastrati fra loro, costituisce e regge il Cipputi-simbolo, come a dire il Cipputi-Cipputi, la sua essenza politica ed esistenza discorsiva. Descriverlo aprirà, con ogni probabilità, ulteriori spazi interpretativi. (Per evitare di disperdersi nei mille rivoli dei media che dicono di tutto e di più, parlando di se stessi e del mondo, e dei continui rilanci nella rete e sui social, userò come riferimento unicamente il volume L’Italia di Cipputi, a cura di Edmondo Berselli, Mondadori 2005 e tutt’ora in commercio).
Va detto innanzitutto che Cipputi, per fisionomia e carattere, assomiglia a tanti altri personaggi di Altan, a volte si confonde fisicamente con essi, vaga tra figure differenti del medesimo vignettista, talvolta risucchiando entro la propria semiosfera storie e emblemi – si pensi al caso dell’ombrello sodomizzante – che non dovrebbero a rigore riguardarlo. C’è come un cipputismo diffuso, dentro ma anche fuori l’universo immaginario di Altan, i cui confini – aspetto anch’esso caratteristico di ogni simbolismo – risultano essere sfrangiati, irriconoscibili, dissolti. Siamo tutti dei Cipputi, appunto, anche a rischio di non voler dire più nulla di preciso, di autenticamente cipputesco.
Ma a ben vedere Cipputi possiede una serie di peculiari caratteristiche innanzitutto visive, poi anche caratteriali, conversazionali, testuali, narrative, che permettono di identificarlo con certezza, differenziandolo dai molteplici avatar. La prima di esse è sicuramente il naso, assai prominente ma rigorosamente longilineo, le cui fattezze, diciamo così, classiche spiccano rispetto ai profili massacrati, a proboscide, se si vuole barocchi, dei suoi vari interlocutori. Più Cyrano de Bergerac che non il vecchio signore ritratto dal Ghirlandaio e adesso al Louvre.
Cipputi ha un fisico non proprio da statua greca: tutt’altro che seducente, avanti negli anni, abbastanza pienotto, come sottolinea impietosamente l’immancabile cinturino – sulla divisa o sul giaccone – che gli marca la pancetta. La tuta da metalmeccanico (che abbandona assai di rado) è ovviamente il segno identificante più forte, anch’essa rimarcata da un distintivo aziendale sul petto e sulla schiena (tutto giallo però, a cancellare il contrassegno e il nome di fabbrica). Per contrasto con i colleghi, che indossano rigorosamente l’uniforme fornita dai superiori, Cipputi porta il cappellino al contrario, con la visiera sul retro, come i ragazzini di provincia o certi mulatti che frequentano i peggiori bar di Caracas: cosa che segnala, più ancora che patetico giovanilismo, sbeffeggiamento nei confronti dei padroni che vorrebbero, appunto, uniformarlo. Cipputi è simmelianamente blasé.
Un altro segno dissacrante l’origine comunista del personaggio è il fazzoletto rosso che non sta al collo ma fuoriesce alla rinfusa dal taschino: non viene più sventolato nei cortei ma tristemente usato, alla bisogna, per pulirsi le mani dal grasso delle macchine. Infine, non least, gli occhiali: rotondi, come quelli di Trotzki o di Gramsci, ma spessi al punto da nascondere gli occhi, lenti tipiche del topo da biblioteca che ha perduto la vista a causa delle lunghe letture notturne. Cipputi è uno che la sa, s’è informato, ha studiato, ha perfino capito: durante i weekend e le ferie ha passato il tempo decifrando il Capitale e forse perfino i Grundrisse, conosce a memoria il Manifesto e Che fare?, i Quaderni del Carcere e gli scritti postumi di Rosa Luxemburg. Ne valeva la pena? A cosa è servito rinunciare alle nuotate in spiaggia, alle passeggiate in centro città, al corteggiamento delle ragazze in balera? La miopia, quale che ne sia stata la causa, sembra essere, adesso, puro desiderio di tenere il mondo a distanza.
Ecco insomma un simbolo formato dall’intreccio di tanti simboli più piccoli, estremamente significativi e performanti: da un lato gli emblemi dell’operaio marxista impegnato, dall’altro il loro sistematico afflosciarsi, la loro perfida denegazione.
Ma la caratteristica più importante di Cipputi, che avvera – e al tempo stesso contrasta con – la sua immagine, è la parola: Cipputi è in primo luogo uno che parla, che dice, che sentenzia, che sproloquia forse, senza mai negarsi il gusto della battuta salace, della verità scomoda, del paradosso tanto prevedibile quanto inutilmente dissimulato dai più.
In questo modo, il suo pensiero è al tempo stesso metodicamente inattuale (perché fuori dal coro) ma per altri versi attualissimo: rileggendo certe sue sparate di decenni fa, sembrano dette ieri, anzi oggi e domani. Sentiamone alcune: “– Però la maggioranza si mantiene compatta. – Finché non scoppiano le tensioni tribali”, “– Dice che la sinistra non capisce il nuovo. – Vedi che quando occorre, esiste ancora la famosa sinistra”, “Solita solfa. Chi lavora paga tutto, gli altri niente. – Il paese ha scelto la stabilità, Bundazzi”, “– Il lavoro nobilita Cipputi. – È incredibile come quei cafoni dei disoccupati non riescano a capire un concetto così ovvio”.
In questo suo dire, sarà chiaro, Cipputi non è mai solo. Il suo carico di ambivalente simbolicità, nel fisico come nel linguaggio, spicca, e dunque funziona a pieno perché il suo non è un parlare ma un interloquire, un rispondere a domande infelici, un frapporsi a luoghi comuni che non condivide, un mettere continuamente – e puntigliosamente – il puntino sulle i. Ogni sua enunciazione non è mai frutto di una sua riflessione individuale, monadica, autonoma, ma è l’esito di una specie di riflesso condizionato al chiarimento, alla risposta inevitabile, all’interlocuzione appunto.
Che si chiami Bundazzi, Guizzis, Zighelli, Otellis, Filètti o chissà come (a volte appare un tizio in camice bianco addetto ai controlli, altre volte il padrone in giacca e gilet, altre volte ancora una bambina, immaginiamo la figlia), la funzione di costoro – tutti con la piccola proboscide d’ordinanza – è soltanto quella di riempire uno sfondo conversazionale a partire da cui Cipputi, squarciandolo, dice la sua. Cipputi, isolatissimo quanto a idee, è sempre e soltanto il frutto di un’intersoggettività pregressa. È un essere sociale suo malgrado. Ribaltando Achille Campanile, potremmo dire che le vignette di Altan che lo riguardano sono commedie in due battute. Fanno ridere? Sì, ma con difficoltà, e tanta afflizione.
Un’altra cosa da notare è lo sfondo, il contesto, l’ambiente, che non è mai semplice circostante, milieu qualsivoglia, ma significativa presenza di personaggi terzi, meglio dire di altri attori, anche perché rigorosamente non umani: umanissimi nel fare, inumani nelle fattezze esteriori. La maggior parte di essi sono macchinari industriali e attrezzi da lavoro. Se questi ultimi sono grosso modo ripetitivi e prevedibili (cacciavite, chiavi inglesi, trapani, seghetti, saldatori), i primi, visti di sghembo e mai per intero, sono sempre diversi, fatti di leve, rotelle, pulsanti, cinghie rotanti, punzoni, indicatori di pressione, strani macinini e chissà quant’altro di cui il lettore non esperto in metalmeccanica deve ignorare, per principio poetico, la denominazione specifica.
Non c’è mai una teoria di macchine, una catena di montaggio, un armamentario in atto, ma oggetti parziali, anonimi pezzi di lamiera, cose che fanno cose non meglio identificate, nei cui confronti il povero Cipputi intraprende un continuo corpo a corpo. Ecco, compito di questi mille e mille macchinari è quello di innescare una lotta senza quartiere contro Cipputi, di affaticarsi e affaticare. E viceversa dal punto di vista dell’operaio. Ma questo riproporsi di azioni e di passioni reciproche, questo esserci e faticare, dell’uomo e della macchina, viene regolarmente sospeso dall’inaspettata interlocuzione, dall’emergere della domanda e della risposta, dello stereotipo e della sua negazione. Da un lato Cipputi, dall’altro la macchina, dall’altro ancora il suo interlocutore. Sulla scena si è sempre in tre. L’intersoggettività è anche interoggettività.
Certo, talvolta c’è dell’altro: un tavolino da bar con due bicchierini smezzati, la mensa aziendale, una panchina al giardinetto, una poltrona casalinga, perfino un biliardo. Ma tutto ha l’aria d’essere già vissuto, usurato, consunto. Nulla è al suo posto, mai in ordine, nel verso giusto, perché ogni cosa ha già fatto il fattibile, e sta lì, adesso, in un clima generale da day after. Tutto è già stato provato, lottato, discusso. Resta la delusione, degli uomini e delle cose, da soli e tutti insieme, nei confronti di valori di cui s’è persa, con l’orizzonte di riferimento, ogni possibile fisionomia.
Più che di delusione, però, forse, occorrerà parlare, per Cipputi, di disillusione, che è passione doppia, temporalmente scindibile in due momenti diversi: prima l’illusione, poi la delusione di quell’illusione. E per fortuna il tempo, soprattutto nella dimensione affettiva, può sempre tornare indietro. Unica speranza del povero metalmeccanico Cipputi. E del Cipputi che è in tutti noi.