Speciale
La pasta, questa conosciuta
Sembra che oggi tutto sia iconico. In epoca di iperboli ininterrotte, non appena qualcosa è anche solo un po’ interessante, significativo, non banale, ecco che diviene iconico. Quest’aggettivo è assai diffuso, e ha preso il posto di certi suoi parasinonimi – straordinario, leggendario, mitico – che andavano a ruba alcuni anni fa, con analogo senso e funzione. Fra l’altro, il destino delle robe iconiche, come già di quelle mitiche o straordinarie, è di diventare intoccabili, indistruttibili, monodose, non divisibili in parti diverse magari articolate fra di loro. Appena dici, poniamo, che un’attrice è iconica, o un’automobile, uno champagne, una maglietta, ecco che divengono tutte d’un pezzo. Idolatrando, si perde in conoscenza e comprensione.
Prendete il caso della pasta, piatto iconico italiano, dunque non parlabile (fior di storici ci ha ben edotto in merito). Oppure di certe scene cinematografiche che la raccontano: iconiche anch’esse, perciò chiuse, indiscernibili nella loro evidenza. Penso a due di esse in particolare, talmente note che sono diventate insignificanti, acqua fresca, buone al massimo per una proiezione della domenica in oratorio, e forse neanche per quella. Vale allora la pena di tornarci su, rivederle, pensarci e parlarne. Forse, grazie a loro, capiremo qualcosa in più della pasta, quale simbolo e quale corroborante. Mi riferisco, come avrete indovinato, alla scena degli spaghetti in Miseria e nobiltà e in quella dei maccheroni in Un americano a Roma (entrambe su Youtube). Totò che fa Felice Sciosciammocca. Alberto Sordi che fa Nando Mericoni. Entrambi litigano, per così dire, con la pasta lunga, indicandone implicitamente le qualità materiali più recondite e i significati identitari più forti. Fanno ridere proprio per questo, di modo che l’inversione comica indica il senso profondo di ciò che sta schernendo. Sono entrambe del 1954, annus tutt’altro che terribilis sia per la cucina sia per il cinema italiani. Montava l’industria alimentare e le sue omologazioni del gusto, ed ecco già la lacrimuccia per i cibi d’una volta…: genuini, sinceri, originari, veri…. Iconici?
Totò e le due famiglie con cui condivide l’appartamento sono poverissimi, e affamatissimi. Deboli da morire, stanno stravaccati senza far nulla e quasi, come Pinocchio, sbadigliano dalla fame. Per una congiuntura della trama, qui non importante, arrivano inaspettatamente a casa loro tre tizi con dei viveri, fra cui una zuppiera colma di spaghetti al pomodoro golosamente fumanti. Dopo un primo momento di incredulità (“miraggio?”), il gruppo si accosta poco a poco alla tavola imbandita di tutto punto, con finto disinteresse ma con palese circospezione: che nessun estraneo assista al bramato banchetto. Poi si gettano a capofitto sugli spaghetti, acchiappandoli con le mani e, seguendo l’immagine tradizionale del mangiamaccheroni napoletano, portandoli scompostamente alla bocca. Quando per un attimo entra il padrone di casa, cogliendoli in flagrante, fanno finta di ballare la tarantella, trasformando per un attimo la pasta in cotillon. Senonché Totò, più furbo di tutti, inizia a riempirsi le tasche di quegli spaghetti, portandoli un po’ alla bocca un po’ alla giacca, da cui però fuoriescono maldestramente. Gli spaghetti goffamente in tasca: ecco la gag.
Per quale motivo? Perché vengono, come dire, adoperati male, come se fossero una derrata alimentare fra le altre – come la farina da cui pure provengono, o come il pane di cui sono parenti – da poter conservare per i tempi di magra. Gli spaghetti non possono stare in tasca, come se fossero noccioline o caramelle. C’è qualcosa nella loro stessa fattura che lo impedisce: per esser veramente buoni, si sa, devono essere cotti al momento (“espressi”, li chiama qualche dotto signore) e vanno mangiati caldi (infatti sono fumanti nella zuppiera). Già poche ore dopo sono immangiabili. Cosa che Totò sa benissimo, naturalmente, ma prova a conservarli ugualmente, data la miseria e la fame che lo contraddistinguono. Ribaltando per disperazione l’esperienza comune, il comico sapientemente la riafferma. Indicando il senso e il valore della pasta, quest’alimento insieme semplice e ricercato, comodo e gustoso, popolare e condiviso: dinnanzi a esso, miseria e nobiltà si prostrano insieme. Del resto, la pasta è un prodotto che va trattato con cura, esige attenzione, delicatezza: la fame epica dice dell’essenza degli spaghetti, che pure piacciono sino, appunto, all’inverosimile.

Di Nando Mericoni sappiamo tutto, è uno che vo’ fà l’americano a Roma, un giovane borgataro alquanto sciocco, invasato dal mito cinematografico dell’America (“gli mericani so’ forti”) che cazzeggia tutto il giorno vaneggiando in un inglese totalmente inventato e facendo a ogni momento il gesto delle pistole dei cowboy. La scena di Sordi in cui mangia i maccheroni è arcinota: Nando torna a casa dopo un’ennesima serata inutile e trova in cucina un piatto di spaghetti già pronti ricoperto da un altro piatto che avrebbe dovuto conservarne il calore, di fatto rendendoli collosi e tutti d’un pezzo: come sempre quando la pasta cucinata si conserva più di tanto. Segno che è passato parecchio tempo tra quando la mamma li ha preparati (ora di cena) e quando Nando dovrebbe mangiarli (tarda notte). La tavola è apparecchiata di tutto punto, con posate, tovagliolo e un fiasco di vino rosso. L’affetto dei genitori… nonostante tutto (il povero padre, che ascolterà tutta la scena, si agita nervosamente nel letto; la sveglia sul comodino segna l’1 di notte).
Ma Nando scansa tutto, il vino e soprattutto la pasta (“aaah, macheroni! Io non magno ‘ste schifezze, cibo da carettieri”), preparando invece una fetta di pane condita con marmellata, yogurt, mostarda, sale, pepe e uno spruzzo di latte. Così facendo, ogni tanto getta lo sguardo sui maccheroni inveendo contro di loro: “io ve distruggo!”; e continua “che me guardi, con quella faccia di cretino? Me sembri un verme, macherone!”. Gli spaghetti divengono così il suo interlocutore immaginario (l’altro, reale, è il padre che freme nel letto ascoltando tutte queste scemenze), al quale illustra la bontà del cibo americano: la mostarda, il latte… Nando interloquisce coi maccheroni che, dal canto loro, stanno lì, sul tavolo, come ad ascoltarlo silenziosamente. Un dialogo tra soggetti diversi: un americano fasullo che non capisce un’acca di se stesso (marmellata, latte e mostarda insieme?), un italiano vero che tace, guardandolo e, implicitamente, giudicandolo (“è matto!”, sembra pensare il maccherone); un terzo soggetto, Nando, che sta in mezzo fra la figura ideale che cerca di rappresentare e il simbolo dell’Italia, il piatto di maccheroni, che sta lì come ad aspettare l’acme della crisi prossima futura. Nando è insomma scisso in due, lo si percepisce anche dall’inflessione della voce, tutt’altro che sicura e sincera.
E la crisi arriva subito. Messo in bocca il primo morso di pane, lo sputa via immediatamente (“mazza che zozzeria!”). Così scosta il piatto col pane e riprende quello con gli spaghetti, che inizia a mangiare con avidità mentre pronuncia la celebre frase: “macherone, m’hai provocato, e io te distruggo! Io me te magno!”. Ma quegli spaghetti, o maccheroni che siano, sono ormai tutti incollati fra loro, un unico pezzo di pasta appiccicaticcia, al limite del disgusto: tali comunque da essere mangiati voracemente. Nando, in fondo, è un mangiamaccheroni: l’identità napoletana è sbarcata a Roma; altro che americani!

Prima osservazione da fare: c’è un paragone del tutto esplicito fra una pietanza americana, o meglio quel che si crede sia un piatto americano, e un piatto italiano, o meglio quel che è diventato questo piatto dopo le ore trascorse dal momento della sua preparazione. Ciò che per Totò è il futuro (che cosa diventeranno gli spaghetti stando in tasca), per Sordi è il passato (come sono diventati i maccheroni dall’ora di cena ad adesso). L’identità dei due Paesi, grazie ai rispettivi piatti presunti tipici, viene quanto meno degradata; e anche qui la comicità, ribaltando l’esperienza comune, finisce per confermarla. Seconda questione: il maccherone, dice Nando, lo ha provocato; è dunque un soggetto attivo, una cosa animata che fa e fa fare, o almeno così viene vissuta dal ragazzone. Gli spaghetti, la pasta, non sono banali oggetti di consumo ma segni identitari talmente forti da provocare chi cerca di scansarli, lanciando una vera e propria sfida a chi, un po’ scemo, mima in continuazione il gesto del pistolero. Potenza dei simboli. Terza cosa: Nando risponde alla sfida lanciata dal maccherone col solito ritornello: “ve distruggo”. Senonché, a ben pensarci, questa frase, pronunciata in momenti diversi dalla scena, non significa per nulla la stessa cosa: nel primo caso, quando orgogliosamente prepara la fetta di pane scrutando di sbieco gli spaghetti al bordo della tavola, “ve distruggo” significa “non vi mangio, vi scarto dalla mia dieta”; nel secondo caso vuol dire esattamente l’opposto: “vi mangio con voracità, vi faccio miei”. Ma se l’uomo è ciò che mangia, come dice il saggio, è lui in effetti che diventa il maccherone che sta ingerendo (ecco forse il senso di “io me te magno”).
Potremmo continuare. Ma fermiamoci qua. Dovremmo aver già compreso come certe volte si edifichi la cosiddetta iconicità, i suoi sistemi di funzionamento interni ed esterni. E abbiamo ricevuto l’ennesima conferma, da entrambe le scene, che, alla fin fine, mangiamo segni. Ci appesantiscono, certo: sono sostanze che, appunto, costituiscono la nostra fisicità, il nostro corpo. E allo stesso tempo ci forniscono un senso e un valore, una ragione di vita. L’epica degli spaghetti dice della dignità – del povero e dello sciocco – con cui devono esser consumati. Una dignità che solo la vis comica può infrangere.
Lasciamo allora la parola ad Aldo Fabrizi, che se ne intendeva, e che sapeva sdrammatizzare (in barba a Marinetti e Fillìa):
Si se magnasse solo pastasciutta,
sarebbe veramente ‘na bellezza:
la vita costerebbe ‘na sciocchezza
l’umanità se sfamerebbe tutta.
La Pasta nun cià gnente che se butta,
nun provoca diarrea né stitichezza,
è come un fiore, ‘na delicatezza
che fa scordà qualunque cosa brutta.
E si, presempio, in ore differenti
ognuno se magnasse 'na scodella,
sarebbe pure un freno all'incidenti.
Perché si tutti doppo avè magnato
facessero la brava pennichella,
er traffico sarebbe limitato.
(A quando la ripubblicazione del suo libro di ricette in versi?)
In copertina, fotografia di ©Piero Percoco.
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