David Bidussa: c'era una volta l'intellettuale
Si racconta che quando i carri armati sovietici entrarono a Budapest nel novembre del ’56 per rovesciare il governo del riformatore Imre Nagy, il grande filosofo György Lukács, Ministro della Cultura di quel governo, compì un gesto altamente simbolico. Non appena l’esercito entra nel palazzo presidenziale intimando di arrendersi e consegnare le armi, l’autore di Storia e coscienza di classe fa un passo avanti lasciando cadere sul tavolo la stilografica. Gesto carico di spessore al tempo stesso politico ed emotivo, significativo di quel che era, e dovrebbe comunque continuare a essere, il compito dell’intellettuale nella società. Da un lato, sembra che Lukács stesse riaffermando il vecchio luogo comune per cui val più la penna che la spada. Dall’altro, a ben vedere, si trattava dell’orgoglioso gesto di disperazione di chi sa bene che non è affatto così, e che di fronte alla forza bruta del potere la penna non serve proprio a nulla. E, paradossalmente proprio per questo, occorre continuare a usarla. Sempre e comunque. Lukács, insomma, stava al contempo consegnando e non consegnando le armi, mantenendo quel che, in fondo, è l’unica irrinunciabile prerogativa dell’intellettuale: tener viva l’inquietudine, passione predominante che, sola, sa e deve opporsi a quel senso comune, a quel non pensiero diffuso che ai potenti fa tanto, tanto comodo. Dinnanzi alla violenta scelleratezza dell’armata rossa, per Lukács, non bisognava essere né pavidamente rassegnati né ingenuamente resistenti ma, appunto, filosofi inquieti che fanno bella mostra di esserlo: nonostante tutto.
A ricordare questa storia è David Bidussa, noto storico sociale delle idee, che, nel suo nuovo libro Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale (Feltrinelli), sembra mimare, se non letteralmente la posa del pensatore ungherese, comunque il suo senso: quello di rendere viva, efficace, necessaria l’inquietudine come impegno di chi usa la cultura come forma di azione pubblica nella e per la storia. Un’inquietudine in qualche modo al quadrato, dato che tale sentimento è al tempo stesso l’oggetto specifico del libro e il modo precipuo per parlarne. A fronte dei tantissimi – d’ogni ordine e grado – che ritengono esaurito il ruolo dell’intellettuale, al punto da considerare ormai superflua la stessa categoria, lo stesso termine, Bidussa non smette, nonostante tutto, di rifletterci su. Compiendo, a sua volta, un gesto intellettuale: “l’impegno – scrive – è una vocazione in cui ciò che è in gioco non è predicare il vero ma sforzarsi di dare forma al giusto”. Roba mica da poco, in un’epoca in cui, vittima dal fuoco incrociato – provocato dalla medesima ideologia regressiva – del disimpegno di massa e della parodia fancazzista, l’intellettuale engagé alla ricerca della giustizia, forse meglio della giustezza, sembra proprio essersi eclissato. O no?
Facile dire che cosa l’intellettuale non sia, non possa più essere: non è una guida o un profeta, un dissacratore o un contestatore, un predicatore o un consolatore, un guastafeste appartenente però a una casta privilegiata. Questa figura sociale non ha più dietro i grandi partiti di massa, dei quali si poneva come organico, né tantomeno si presenta come dissidente impegnato rispetto a essi e alle loro crisi cicliche. La convinzione di Bidussa – discutendo tutta la problematicità insista nelle dichiarazioni di studiosi del calibro di Tzvetan Todorov e Tomás Maldonado – è abbastanza chiara: conservare una funzione critica, attenta al passato e al futuro ma in relazione sospettosa, vigilante, inquieta appunto, rispetto alla società attuale. “Il lavoro intellettuale – scrive – non è una ‘estetica del pensiero’, ma è fatica di pensare. Un corpo a corpo con le cose che si tenta di stringere, che ci si sforza di mettere a giorno, e di proporre alla pubblica discussione. L’impegno è prendere in carico i problemi, misurarsi con le ansie del proprio tempo, provare a dare risposte che replicano a domande. E quelle risposte, per essere proficue e per segnare una crescita, devono provocare nuove domande”. Perciò, con Pavese, stanca.
Il libro di Bidussa è articolato in tre sezioni. Nella prima si delinea il profilo identitario novecentesco dell’intellettuale, la sua postura pubblica. L’intellettuale, sostiene Bidussa citando Umberto Eco, è come un Grillo Parlante che scava nelle ambiguità del presente per portarle alla luce. Per farlo, dribbla i ritmi dei media, schiva le loro tempistiche facendo sentire la propria parola non nel corso degli eventi ma subito prima o subito dopo, in anticipo o in ritardo. In fondo la questione platonica del filosofo-re è sempre stata attiva nei due millenni che ci separano dalla Repubblica, dal momento che questo Grillo Parlante non può non avere, volente o nolente, una funzione pubblica. Niente torri d’avorio, insomma, ma dichiarate forme di resistenza al potere che, come scriveva Kant, “corrompe inevitabilmente la libertà di giudizio della ragione”. Seguendo lo storico Pierre Nora, Bidussa indica il cortocircuito dell’intellettuale che è al tempo stesso dentro e fuori la storia: da un lato è prodotto storico, dall’altro è chi quella storia riesce a dire, a raccontare.
Nella seconda parte del libro si ricostruisce la vicenda del rapporto fra gli intellettuali e i partiti politici di massa, prima come militanti di quei partiti e successivamente come fuoriusciti (come dire ‘traditori’, ‘eretici’) e comunque ascoltati, tenuti in accorta considerazione perché ancor di più engagés. Le figure di dissidenti impegnati convocate, infedeli e insieme ineludibili, sono quelle di Walter Benjamin, Simone Weil e Victor Serge, cui si accostano Hannah Arendt, Albert Camus, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte e Furio Jesi. Così Bidussa dedica parecchie pagine alla rilettura e al ripensamento delle note osservazioni di Benjamin sull’Angelus Novus che ha il futuro alle spalle, mentre le macerie della storia si accumulano ai suoi piedi, mettendole in relazione con l’altrettanto nota vicenda del suicidio a Portbou, dove emerge una combinazione assurda di caso, condizionamento storico e profilo della personalità. Ed è proprio la dimensione dell’assurdo a rendere conto della figura dell’intellettuale primonovecentesco, impersonata da quel Camus che, proprio perché condannato a una situazione senza scampo, si mette a svolgere puntigliosamente il proprio mestiere di scrittore impegnato nel presente. Tragicità che sia Weil sia Serge impersonano in modo altrettanto significativo.
Nella terza parte Bidussa passa a esaminare cosa accade, grosso modo dagli anni Settanta in poi, quando la crisi dei partiti politici di riferimento porta a una ridefinizione del ruolo dell’intellettuale, il quale inizia a rivolgersi a una più generale, non generica, coscienza collettiva, con tutti i rischi del caso: il senso comune difficilmente si trasforma in buon senso. Più che una competenza specifica, adesso l’intellettuale mette in moto la propria sensibilità personale, al fine di mettere in guardia le masse dai rischi del presente che di solito passano al di sotto del livello dell’attenzione. Le figure esemplari di questa nuova tendenza sono Edward Said, Susan Sontag, Tony Judt, Zygmunt Bauman e il già citato Todorov. La radicalità della loro attività non consiste più nel farsi carico in prima persona di un impegno civile e politico, ma di declinare tale impegno nei termini di una ricostruzione differente di fatti e valori, di una modifica dell’ordine del discorso, di una nuova dispositio del sapere e del suo vocabolario. In tal modo, pone questioni che, prima di lui, non venivano nemmeno poste come tali. Si pensi all’orientalismo indicato da Said come categoria pertinente per ridisegnare la cultura moderna e contemporanea, sottoponendola a uno sguardo nuovo, diverso, critico. Inquieto. Uno sguardo che fa sorgere l’idea di un’interculturalità che vada oltre le rigide, preconcette partizioni del multiculturalismo. O si pensi anche alla svolta teorica di Todorov, che da fondatore della narratologia si fa ermeneuta della civiltà, focalizzandosi sull’idea di una memoria collettiva che vada oltre la nozione più tradizionale di memoria storica.
Il passaggio del millennio sembra aver complicato ulteriormente le cose.
Si pensava che dopo la caduta del muro di Berlino arrivasse un’epoca post-ideologica e così non è stato. Di muri se ne sono alzati tanti altri, non solo per rinchiudere ma soprattutto per autoisolarsi, per proteggersi dall’alterità pretesa sconosciuta e terrorizzante. Altro che multiculturalità: è il più becero multiculturalismo a tornare in auge. La crisi dei partiti porta alla crisi della democrazia, o, peggio, alla crisi della fiducia in una democrazia possibile. Tutti a casa, chiusi. All’intellettuale tocca così costringere a pensare quelli della propria comunità di appartenenza, anche se non della propria parte politica. Costringere, forzare a pensare. Cosa difficile, malinconica, ancora una volta inquieta. Un pessimismo programmatico che non esclude però la necessità di sprazzi d’euforia, di pacata serenità. Ce lo dice bene la foto di copertina del libro, che ritrae Albert Camus nel suo ufficio. Ha la mano sul viso, e sembra un gesto di disperazione. Ma, sotto sotto, sembra sorridere. O così ci piace immaginarlo.