Speciale
Dal tagliere alla città
In Taglieristan si è spesso stipati, pigiati stretti stretti, struscianti e vocianti, arrampicati negli sgabelloni a schivare le lavagne dei menu scritti a mano o, se fortunati, accomodati nei tavoli delle decine di dehors con tovaglie a quadretti rossi e bianchi, sorseggiando la solita bevanda arancione buona per ogni occasione mondaneggiante e spiluccando con esibita capacità gustativa fettine di salumi e pezzettini di formaggio non meglio identificati, tendenzialmente tutti uguali. Serviti, si sa, su un tagliere d’ordinanza. Quando fa freddo, svolgendosi il tutto più che altro all’aperto, appaiono dei fungoni metallici che sparano impietosa aria calda, e con le mani mal guantate tutti rollano sigarette & affini giusto per fare un po’ di moto – tendenzialmente più mentale che fisico. I turisti, che la fanno da padroni, sorridono felici a ogni ora del giorno e della notte; ancora di più gli improvvisati gestori di questi mille locali tutti uguali; molto meno gli avventori del luogo che, sgomitando in una babele di lingue e di corpi, rivendicano il loro sacrosanto diritto all’aperitivo del tardo pomeriggio. Estremamente decaduto di livello, delle bibite come del servizio, da quando – sono pochi anni ma sembran cento – stock variopinti di gitanti hanno invaso l’intero territorio italico alla ricerca della solita stereotipica autenticità locale, ovvero di quella tipicità onnipresente e onnicomprensiva che sta decretando la morte d’ogni gastronomia degna di questo nome.
Questo accade a Bologna, nel quadrilatero di viuzze a lato di Piazza Maggiore (Orefici, Drapperie, Clavature, Marchesana…), ex zona di botteghe artigiane e banchi di mercato dove, appunto, è sorta questa specie di repubblica che dalle concugine ex sovietiche ricava il proprio nome. Ma paesaggi analoghi che potrebbero rivendicare una medesima denominazione si trovano un po’ dovunque, e non soltanto nel nostro Paese. È la gentrificazione che pigia il pedale di un cibo pseudo autentico e a basso costo, il quale cede le ragioni del gusto all’esigenza di assorbire l’alcol che, scorrendo a fiumi, riempie stomaci poco esigenti. Una trasformazione urbana che apre le porte a un turismo esagerato di cui tutti parlano male e che tutti accettano, poi, in compiaciuto silenzio. Ne viene fuori uno scenario dai tratti precisi e ricorrenti come i trilli dei forni a microonde, il vortice dei trolley, la moltiplicazione dei bancomat, i campanelli cifrati e i lucchetti dei soliti innamorati.
Taglieristan diviene la curiosa antonomasia per indicare questa tale tendenza che sembra delinearsi come il destino dei paesaggi cittadini del presente e, facile preoccupazione, del prossimo futuro, riattualizzando il solito paradosso della moda secondo il quale per distinguersi idiosincraticamente occorre imitare gli altri tendendo all’omologazione generalizzata tanto nell’abbigliamento quanto nei comportamenti d’ogni giorno, ivi compreso dunque il gusto – che, a sentire la fisiologia e l’estetica, dovrebbe piuttosto distinguere e valutare.
È accaduto così che un oggetto banale della vita quotidiana sia divenuto un simbolo, diciamo così, in continuo movimento, in perenne trasformazione ed evoluzione, assumendo i più diversi colori, materiali, formati e, soprattutto, modi d’utilizzazione. In rete se ne trovano dei più vari e per tutte le tasche, mentre nelle stazioni ferroviarie e autostradali o negli aeroporti viene venduto come un souvenir, un gadget tanto spiritoso quanto assai poco funzionale. Chi affetterebbe il provolone su una curvilinea tavola di legno che sorride dicendo “hello!” su cui si trovano mal riprodotti incupiti tortellini? Il tagliere è oggi, per esempio, un dono perfetto per amici e parenti, un presente che strizza l’occhio a una competenza culinaria e gastronomica tanto più rivendicata quanto più assente, ora del donatore ora del donato. C’è chi ne fa collezione, e presto o tardi ne verrà fuori un museo, sempreché già non esista.
Il tagliere ha insomma una storia sociale e una geografia semiotica le cui sorti vale la pena di ricostruire. Innanzitutto ha cambiato destinazione d’uso: da strumento su cui tagliare qualcosa si è trasformato in piatto comune su cui mangiare quelle stesse cose. Ma mangiare è un eufemismo: semmai piluccare, assaggiare consociativamente e alla svelta. Dalla cucina tale oggetto transita dunque alla sala, e dal momento della preparazione passa a quello del consumo. Non è più prerogativa del cuciniere ma del mangiante. Così facendo, perde lungo la strada quel suo compare di sempre che è il coltello: un tagliere serve, ab origine, a proteggere la lama del trinciante, di modo che, senza quest’ultimo, quale diviene la sua funzione? È ovvio: puramente simbolica. Sta lì, accanto agli spritz smezzati e ai portacenere colmi di cicche, per indicare beffardamente il bel tempo che fu, la cucina d’una volta, quella dove le cose non si compravano già affettate e imbustate al supermercato ma occorreva predisporle quotidianamente con scienza e pazienza: a partire perciò, in linea di principio, da prosciutti interi, da immense forme di parmigiano o quel che è.
C’è dietro un’idea ben costruita di artigianalità, dello sfuso come garanzia di genuinità, dove non ha alcuna importanza, né per l’avventore e meno che mai per il ristoratore (ma forse un po’ più per l’osservatore esterno) se tale artigianalità e genuinità siano reali o solamente significate. Così facendo, anche il senso della cucina si modifica: non più passaggio dal crudo al cotto, ma semmai, seguendo le note categorie di Lévi-Strauss, dal crudo al putrido – se, come si sa, il formaggio è in primo luogo l’esito di una fermentazione naturale ben gestita e i salumi, grosso modo, il risultato di una lavorazione sapiente di carni che non devono assolutamente vedere il fornello. Salta inoltre l’idea del pranzo e della cena, ma soprattutto dei loro orari canonici, dato che la cosiddetta apericena prodotta e insieme significata dal tagliere è per definizione un fuori pasto, ossia un pasto che sta al posto – e al tempo – di un altro. Si istituisce il regno della convivialità facile e con essa della socializzazione casuale e momentanea, dato l’avventore non è più un ordinato commensale ma un banale flâneur che tende a incontrare, il tempo d’una sigaretta e d’un finger food preso al volo, chi capita in quel momento e solo in quello. In questo regno dell’informalità ricercata il tagliere diviene oggetto invadente, straripante, unico, scacciando via dalla tavola tutto ciò che normalmente vi starebbe: tovaglia, piatti, posate e così via.
Possiamo continuare. Ricordando ad esempio che, se e quando il tagliere fonda il taglieristan (che nel frattempo è pure divenuto nome comune), tende inevitabilmente a dimenticare l’ideologia che un tempo lo sosteneva: quella dell’igienismo. Si sa difatti che quest’oggetto, se in legno, non deve essere lavato con il detersivo e meno che mai va ficcato in lavastoviglie; al punto che, credo, esistono precise norme salutiste che impongono, nei ristoranti seri, di usarlo solo se in acciaio. Nei taglieristan di tutto il mondo, possiamo giurarlo, tutto questo non accade. La connotazione di fantomatica genuinità la vince, insomma, su quella di necessaria salute.
A questo proposito, condendo il tutto con un po’ d’humour nero, va ricordato che il tagliere ha un antenato di tutto rilievo: ed è il ceppo del boia. Su di esso si mal secavano i colli e cadevano le teste. Ricordiamolo quando prendiamo l’aperitivo.
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