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Scarabocchi: tutto ha volto

28 Agosto 2024

I bambini mettono occhi e bocca a ogni cosa: sole, nuvole, alberi, divani, scarpe e cuori. La nuvola parla col sole; l’albero con lo scoiattolo che salta da un ramo all’altro; la cinciallegra cinguetta col fiore. I bambini sanno che non sono solo loro a guardare il mondo: la luna e la sedia li guardano, e hanno qualcosa da dire: “veglio su di te nella notte”, oppure “siediti piano o mi fai male”. La realtà è animata, ed è naturale attribuire intenzioni anche alle cose.

La magia di questo sguardo appartiene al mondo pre-verbale, ma i primi utilizzi del linguaggio la portano ancora con sé. Dotare le cose di occhi e bocca, è dare loro la possibilità di esprimersi e provare a comprendere le intenzioni della natura e degli animali, addomesticarli come fa la volpe del Piccolo Principe. Addomesticare è creare un legame con il mondo. Quel faggio è triste o felice? La nuvola fa piovere perché è arrabbiata? Mi è amica? Tutto ha volto e i volti sono vivi.

Che distanza c’è tra lo sguardo dell’animale e quello dell’uomo? Come ti guardano le cose? Stefano Carta, in Umana Natura, racconta l’incontro con un elefante selvaggio nella boscaglia “prima di abbassare immediatamente e con il dovuto rispetto il mio sguardo, ci siamo fissati negli occhi per un istante” e “nei suoi occhi mi sembrò di intravedere qualcosa d’altro, qualcosa d’oltre”. L’animale vede l’uomo come paesaggio. Vede l’aperto, come ha scritto Rilke: “Quello che c’è fuori, lo sappiamo soltanto dal viso animale”. E dai bambini! Crescendo gli occhi degli adulti si chiudono, guardano ma non vedono quello che i bambini sanno ancora percepire.                                                                                                      

I bambini sono ancora vicini al mistero. Sevim Riedinger in Le Sacré et l’Enfant scrive che questi piccoli esseri, fragili e terribilmente dipendenti, così presenti a ciò che è, incarnavano nell’antica Persia il passaggio dall’invisibile al visibile. Del resto le Upanishad, testi sacri dell’antica India, dicono che il bambino nasce con il segreto della conoscenza, ma che presto lo perde, e che tutta l’avventura umana sarà cercare di ritrovare questa conoscenza dimenticata. Anche nella tradizione ebraica si racconta che quando un bambino viene al mondo, un angelo si china sulla sua culla, e con l’indice puntato sulle labbra gli dice: “zitto, non rivelare il segreto che porti dentro di te”.

Tutto questo è visibile dai disegni che i bambini fanno, e da quello che dicono. 

Alice, 7 anni, indicando la bambina di colore che aveva messo nella sabbiera – durante il suo percorso con il Gioco della Sabbia – mi dice: “Lei che è nata da sola, sa cosa c’è di là”, e aggiunge “Solo i bambini vedono”. Nel suo quadro di sabbia “di qua” c’è una città, la città in cui vive, mentre “di là” un mondo misterioso e segreto da scoprire, pieno di tesori. Per poter accedere a questo luogo – mi dice – bisogna viaggiare e superare un muro di pietre e d’acqua. Aprire lo sguardo, la barriera che ci impedisce di vedere. Ho subito pensato a Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, dove solo i bambini vedono gli angeli, vedono l’invisibile. 

In un altro momento della terapia, Alice disegna – senza accorgersi – la testa di una figura femminile, con occhi e bocca, a forma di cuore. Poi la guarda e dice: “ho sbagliato, la testa non è così”. E la cancella. Vince in lei la ragione, ma era il cuore ad avere parlato per primo: aveva disegnato con il cuore. 

Enrica, 8 anni, un giorno arriva con un disegno per me: in mezzo al disegno delle sue due mani c’è un cuore con occhi che mi guardano, facendomi l’occhiolino. Di nuovo lo sguardo del cuore? 

“Oh se potesse l’arte ritrarre l’indole e il cuore! Nessun quadro al mondo sarebbe più bello” scrive Marziale (Epigrammi, X, 32). I bambini disegnano così, c’è una trasparenza nell’infanzia, grazie alla quale il bambino dona il mondo interiore con generosità a chi lo sa ascoltare. A chi lo sa vedere. 

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Ho sempre riconosciuto nello sguardo dei piccoli che vengono nel mio studio – quando è stato permesso loro di essere bambini – quelli che Christian Bobin chiama “gli occhi d’oro”, occhi appassionati e immaginali che vedono oltre, e sono aperti all’interiorità. Davvero possiamo comprendere le cose solo nella loro trasfigurazione, e forse per questo i cuccioli – dell’uomo e dell’animale – hanno occhi più grandi, in proporzione al viso, rispetto agli adulti, poi, crescendo, mutano le proporzioni e il rapporto tra occhi e viso, e cambia il volto. L’anima emerge sul viso e lo trasforma in volto. “Se nel volto per gli occhi il cor si vede” – come scrive Michelangelo – è proprio vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima.

Ma anche le cose, i paesaggi sembrano avere occhi, per i bambini, e per chi sa guardare il mondo come loro. Il vedere dà forma, e per questo tendiamo a vedere forme vive in oggetti inanimati, una lotta contro l’inorganico, come ci ha detto anche Konrad Lorenz. Prova ne è il gioco, che è il trionfo del vivente sulle forze inesorabili dell’inorganico. Il bambino col gioco e col disegno lo fa continuamente: facendo parlare gli oggetti, e dando un volto a ogni cosa, anima e cerca di farsi amico il mondo.

Questa ricerca appassionata del volto in ogni cosa è antica, se anche l’uomo primitivo ha raccolto e conservato un ciottolo a forma di volto. Un ciottolo di jaspilite rossa a forma di volto trovato nel 1975 dall’antropologo Raymond Dart a Makapansgat in Sudafrica – vicino allo scheletro di Australopitechus africanus – gli fece presumere che l’ominide raccolse quel ciottolo perché attratto dalla forma del sasso che somigliava a un volto e che lo portò con sé, manifestando un pensiero proto-simbolico coniugato con un senso estetico. 

Barbara Massimilla racconta in Umana Natura dello sguardo che intercorse tre lei e il corallo, un incontro che sarebbe stato indelebile nella sua memoria; e Agostino De Rosa ci propone la suggestiva e rivoluzionaria immagine che arriva da una goccia di rugiada su una foglia che riflette il cielo. Come a dire che il primo sguardo proviene dalla natura. È con questo sguardo che il bambino è ancora in contatto? Lo sguardo del corallo e della goccia di rugiada sulla foglia?

Esiste una lingua delle cose? Uno sguardo delle cose? Mi sono spesso interrogata – guardando i volti dei bambini e i loro disegni – sul linguaggio della materia, degli oggetti. L’affascinamento tra il pittore e le cose, tra lo sguardo e le cose: l’immagine che guarda. Seguendo questo sguardo, la pittura non rappresenta il visibile, ma lo presenta. Walter Benjamin parla di lingue innominali, inacustiche, di lingue del materiale, una lingua del corpo, silenziosa, parlata dai bambini. 

Come evolve la rappresentazione del volto nei disegni dei bambini?

La prima cosa che un bambino disegna sono dei cerchi, e la conquista del cerchio è la premessa per il primo disegno intenzionale del bambino: la rappresentazione dell’uomo – l’omino palla – tutto volto con occhi e bocca. Orecchie, naso, gambe e braccia arriveranno più tardi. Disegnare l’uomo con un cerchio è già un tentativo di disegnare la parte più importante – il volto – per il tutto. La fase dell’uomo-palla, uomo-mondo durerà un po’. Per il piccolo, l’uomo è il suo volto.

Perché quest’attenzione al volto? Perché cercare un volto in ogni cosa? 

I neonati sono attratti dal volto di chi li guarda, e riconoscono il volto del genitore dall’espressione. Il nostro volto è la parte a noi più sconosciuta, ma è anche quella con cui ci presentiamo al mondo, la più nota agli altri. Nasciamo nello sguardo di un altro. Esistiamo perché qualcuno ci vede, e ci restituisce con lo sguardo quello che siamo. Forse per questo Narciso – non visto e mai riconosciuto – non riconoscendosi mentre si specchia, annega nello sguardo di sé, quando si vede, pensando di andare verso l’altro. In fondo fanno lo stesso gli adolescenti quando si fanno dei selfie: non c’è stata la mediazione dello sguardo di un altro, la messa al mondo grazie allo sguardo di un altro. Perché è lo sguardo dell’altro che rende un viso, volto. Lo fa esistere. 

Ricordo tanti anni fa una giovane paziente anoressica che mi disse che l’unico momento in cui lei si sentiva bene era quando faceva il bagno nella vasca con la schiuma che l’avvolgeva in un abbraccio, e il suo gatto sul bordo della vasca silenzioso e immobile la guardava.

Quale sguardo ti permette di esistere? Lo sguardo che la faceva esistere era uno sguardo che le permetteva l’esperienza – di cui ci ha parlato Winnicott – di essere solo alla presenza di qualcuno. Quello sguardo, con cui la madre intrusiva non riusciva a guardarla – e quindi non la vedeva – lo trovava paradossalmente nel gatto.

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Forse solo lo sguardo dell’animale ha la capacità di tollerare di non sapere. Uno sguardo sognante che sa vedere gli esseri e le cose non in rapporto a sé, ma permette a tutte le cose di essere quello che sono senza giudizio. Noi adulti spesso o non vediamo o vediamo quello che vogliamo vedere, solo i bambini – come mi disse Alice – vedono. Il nostro modo di vedere le cose è influenzato da ciò che sappiamo o crediamo. Bisogna che impariamo a guardare cosa è figura e cosa è sfondo: ogni volta può essere diverso, e questo dipende anche dalla visione che ho dentro. Dobbiamo imparare a spiazzare lo sguardo e a moltiplicare gli sguardi. È importante comprendere con quale sguardo sto guardando, e cosa sto cercando di vedere: lo sguardo del pittore o quello del geografo? Anche le macchine medicali hanno occhi per vedere cose diverse: i raggi X vedono le strutture, le ossa; le ecografie rivelano i tessuti, muscoli e organi; l’ecocolordoppler il calore e i fluidi.

Una Fiaba boscimana raccontata da Laurens van der Post ci aiuta a comprendere cosa significa vedere: “Un uomo che possedeva una mandria di mucche scoperse una notte che delle giovani donne del popolo celeste scendevano da una corda che calava dalle stelle e mungevano le sue mucche. Catturò la più bella e ne fece la sua sposa. Erano felici, ma la donna, che possedeva una cesta, lo pregò di non guardarvi dentro per nessun motivo, altrimenti avrebbero patito un’immensa sciagura. Un giorno l’uomo, afferrato dalla curiosità, sollevò il coperchio della cesta e scoppiò a ridere, dicendo alla sua sposa: “Perché facevi di questa cesta un così grande mistero? Dentro non c’era niente!” La donna si allontanò verso il sole del tramonto e svanì per sempre. Allora la nutrice aggiunse: “La donna non se ne andò perché l’uomo aveva infranto la sua promessa, ma perché, guardando nella cesta, non vide nulla”. 

Un guardare che sia immaginare, dove il rapporto tra significato e significante diventa intermittente, oscillante e generi risonanze che aprono nuove possibilità di comprensione. Sguardare. Vedere è comprendere a un altro livello, è saper cogliere l’invisibile – renderlo visibile – dentro la scena che ci sta di fronte. 

Perché non potrebbe esserci vita in qualcosa e non solo in qualcuno? si chiede Felice Cimatti in L’occhio selvaggio. Forse c’è qualcosa che ci impedisce di vedere come viventi altre forme di vita, solo perché sono radicalmente diverse dalla nostra? “Se ci permettessimo questo pensiero impensabile, che possa esserci vita anche nel qualcosa, e non solo nel qualcuno, ecco allora che si apre uno spazio immenso di visibilità”. Solo così il mondo diventa un infinito incrocio di sguardi e il visibile l’insieme infinito di tutti questi punti di vista.

I bambini – che mettono occhi al mondo e danno un volto a ogni cosa – forse sanno ancora vedere questo sguardo delle cose, quello che c’è nell’invisibile, che per cercare di vedere dobbiamo guardare a testa in giù o di nascosto, o socchiudendo gli occhi, come solo loro e gli artisti sanno fare. 

John Berger, maestro di sguardo, scrive: “Tuttavia può accadere che, di colpo, inaspettatamente, e quasi sempre nella semi-oscurità fugace di uno sguardo, intravediamo un altro ordine visibile, che interseca il nostro pur non avendo a che fare con esso. (…) Ci imbattiamo in una zona del visibile che non era destinata a noi. Forse era destinata agli uccelli notturni, alle renne, ai furetti, alle anguille, alle balene... L’ordine visibile cui siamo abituati non è unico: coesiste con altri ordini. (...) I bambini lo avvertono intuitivamente perché hanno l’abitudine di nascondersi dietro le cose. Lì scoprono gli interstizi tra i diversi ordini del sensibile”. 

Se tutto ha un volto – come i bambini ci mostrano – allora mettiamoci a testa in giù o a gattonare, e andiamo a caccia del volto nascosto sotto la superficie delle cose. 

Accettare la realtà non vuol dire smettere di immaginare. Abbiamo il diritto alla “rêverie”. Proviamo a ritrovare questo sguardo delle cose, a ricordare questa lingua, guardando i disegni dei bambini e il volto che vedono in ogni cosa. 

 

Qui il programma dell'edizione 2024, dal 15 al 17 settembre a Novara.

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