L'arte di far lavorare i sogni
Il dolore ci può abbruttire e rendere disumani, ma se lo accogliamo e lo sappiamo ascoltare, e se ci lavoriamo intorno – come fa l’ostrica quando entra nel suo guscio un granello di sabbia – lo possiamo trasformare in perla. Ma per questo abbiamo bisogno di un ascolto che ci aiuti a rimettere insieme i nostri frammenti, e allora la ferita, come nell’arte del kintsugi, diventa preziosa.
Perché il vuoto diventi un’anfora, ci vuole lavoro e immaginazione.
È quello che ha cercato di fare Lorenza Ronzano, nata ad Alessandria nel 1977 e scomparsa prematuramente nel 2021. Questo ascolto ha preso la forma di un romanzo in forma di diario, da poco pubblicato da Miraggi Il buon auspicio (2023, p. 512).
Ronzano, psicologa – anche se diceva di non esserlo, e che l’unica cosa che le interessava era “dare voce all’umanità” – insegnava letteratura in diverse scuole pubbliche e private, ed era consulente filosofico al reparto psichiatrico dell’ospedale di Alessandria e della Procura di Milano.
Parole forti e autentiche quando descrive il suo ruolo nel reparto psichiatrico: “Sto qui in ospedale a chiacchierare, mi metto a disposizione dei cosiddetti pazienti psichiatrici, loro mi chiamano Dottoressa, ma io sono il loro grande orecchio, la loro cassa di risonanza. Voglio sdoganare la follia, per questo ho deciso di lavorare contro una visione del mondo proprio nel luogo in cui questa visione viene creata. Sono l’anticorpo del sistema in vigore.”
Tutto inizia quando a diciannove anni, dopo un colloquio di sedici minuti, a Lorenza viene diagnosticata una schizofrenia paranoide, di cui sembra soffrire anche il padre. Le dicono che è come suo padre, che la schizofrenia è genetica ed ereditaria: “la tua stranezza, ripeté, è figlia della stranezza di tuo padre, e come la sua stranezza anche la tua stranezza io la chiamo schizofrenia.”
Ma Lorenza ha delle voci in testa che non credono al parere del medico, e decide di ascoltarle: “Lorenza non ebbe alcun dubbio, le voci udite erano molto più seducenti e degne di fiducia dello psichiatra che l’aveva appena visitata.”
Per questo motivo promise a se stessa di rimetter piede in un reparto di psichiatria soltanto “dall’altra parte della sponda ovvero come spia/professionista /infiltrata e non come paziente.” In missione.
La diagnosi è un destino che Lorenza rifiuta, e noi sappiamo quanto le diagnosi possano segnare il destino di una persona: sei l’etichetta che ti appiccicano addosso e smetti di essere una persona. E se questo vale anche per le malattie organiche, lo è ancora di più per quelle psichiatriche.
Scrive lo psichiatra Eugenio Borgna, in I grandi pensieri vengono dal cuore. Educare all’ascolto, che “se il cuore non pulsa in noi, non saremo di aiuto a un paziente: alla sua fragilità e alle sue insicurezze, alle sue ansie e alle sue ferite dell’anima, alla sua tristezza e alle sue inquietudini, alla sua disperazione e alla sua fascinazione della morte.”
A Lorenza il cuore pulsa, grazie alla sua ferita.
Infatti scrive Lorenza: “ho delle scorie d’amore non consumato nella gabbia toracica, e l’amore non consumato è il peggior veleno per il cuore. Come lo smaltirò?”
Da questo incidente, la diagnosi di schizofrenia, origina un lavoro su di sé, e questo romanzo – nato ascoltando il dolore degli altri – che è la vita vissuta e il diario della protagonista. Oggettivazione della psiche in un collage apparentemente casuale di cose sovrapposte, in cui ricostruire qualcosa di unitario più che impossibile risulta inutile.
Lorenza è in un continuo dialogo con se stessa, e la scrittura è la forma che prende questo dialogo.
Umanità e ascolto. Colloqui esistenziali e non medicalizzazione della cura, perché il paziente non è la sua malattia. Ritroviamo nel lavoro di Ronzano l’eredità di due grandi psichiatri – Franco Basaglia ed Eugenio Borgna – portata alle estreme conseguenze.
Scriveva Basaglia: “La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. (…) abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. (…) non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare.”
Ronzano ha cercato questo altro modo. Ascoltare la voce silenziosa del cuore. Gli ingorghi.
A questo proposito ancora Borgna scrive: “ma il destino della psichiatria nella sua ultima radice non è forse quello di essere in dialogo senza fine con la solitudine, e con la follia, nel suo mistero, e nelle sue inquietanti domande sul senso del vivere e del morire?”
E ricorda le parole di Rainer Maria Rilke in una delle sue Elegie duinesi sul destino:
“Questo è il destino: stare di fronte
e nient’altro che questo e sempre di fronte”.
Ronzano sta di fronte. Dialoga, col mistero della sua vita e delle persone che ascolta.
Con questo romanzo Ronzano – scrive all’editore – “volevo imitare quel secchiello raccapricciante, volevo anch’io il mio secchiello mostruoso, simbolo di questa esistenza mondana.”
Racconta di un secchiello che un’amica, quando era bambina, aveva riempito per divertimento di una grande quantità di cose: petali, insetti, fiori recisi, bacche, una farfalla con le ali spezzate. E aggiunge che trovava quel secchiello “desiderabile e ripugnante. E successivamente comprese che quel secchiello era “l’emblema del mondo”.
Afferma di avere sentito il dovere di scrivere perché convinta di essere il ricettacolo della “cosiddetta volontà dell’arte”, che a suo avviso desidera che si porti alla luce qualcosa di brutto, ma non il brutto mostruoso, quello miserevole che c’è nella anonima quotidianità. Il male di vivere. Dare voce al mostriciattolo che abita in noi “Il mostriciattolo è il mio io più profondo e arroccato. lo difendo strenuamente non gli permetto mai di esprimersi in società. Evito di lasciarlo affiorare persino nei rapporti con i miei amici più intimi, tuttavia gli concedo ascolto. Inoltre tengo una specie di diario in cui gli presto la mia voce le mie parole affinché possa pronunciarsi anche lui.”
Stare di fronte a quello che fa voltare gli altri dall’altra parte.
L’autrice con il suo racconto ti trascina in un vortice, ti fa toccare abissi e vette. Mentre leggi ti sembra di correre e ti ritrovi in apnea, per poi fermarti di colpo. E il cuore batte sempre forte mentre leggi.
“Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”, scrive la poetessa Szymborska. Sì, perché a battere non è solo il cuore di chi legge, ma anche il cuore del romanzo, in cui tutto è al limite, in un equilibrio che sembra sempre pronto a rompersi. La visione del mondo di Lorenza travolge e stravolge senza risparmiare nessuno, perché Ronzano sembra applicare lo stesso metodo a ogni cosa: cercare di forzare la superficie del mondo visibile, non importa cosa stia raccontando. Il romanzo è costantemente in fieri, narra in prima persona e in presa diretta, come in una stenografia del reale, le vicissitudini di Lorenza, che ascolta le storie di vita e di sofferenza dei pazienti. Lo scopo è raccontare una storia il più possibile fedele alla vita. “Innestati tra le annotazioni diaristiche, l’opera ospita materiali multiformi che sconfinano da un genere all’altro: i resoconti della vita psichica della protagonista; l’assidua trascrizione dell’attività onirica; la sbobinatura dei racconti dei pazienti; la stravagante narrazione delle avventure della protagonista, il cui orientamento sessuale è un’ambigua mescolanza di misticismo e pornografia; fino alla dimensione dell’appunto e della mera registrazione contabile degli esercizi ginnici e dei cibi consumati in una giornata.”
Anche l’assenza di una trama sembra avere l’obiettivo di imitare l’incoerenza della vita, alludendo al fatto che gli eventi non si susseguono come fossero stati premeditati a tavolino. La vita accade.
L’inconscio è a cielo aperto, per cui non distingui più cosa è sogno e cosa è realtà, e come nei quadri di Escher non capisci dove una scala inizia e dove finisce, perché è tutto collegato. Il sogno è fondamentale per Lorenza, perché i suoi sogni sconfinano con la realtà e la contagiano. “Il sogno, come una foglia da tè rilasciata in acqua, conferisce una pigmentazione onirica al reale. Il sogno è una impollinazione del reale, che diviene saliente e gravido. Ecco, così finalmente la realtà sembra promettere qualcosa in grado di allacciare il visibile all’invisibile. Ingravidati dal sogno, i miei giorni trovano il loro disegno, possiedono una volontà.”
Il buon auspicio è un romanzo onirico, Lorenza assembla le cose come farebbe l’inconscio, regista del sogno. Ronzano scrive parole straordinarie sul sogno.
“Voglio dire che i sogni sono i generatori della vita, sono la matrice dell’esistenza desta. Sono come il negativo da cui si sviluppano le fotografie. Qualcosa che risiede nel buio, qualcosa di inscritto nell’oscurità che io, attraverso la pellicola del mio corpo, srotolo alla luce e faccio sbocciare alla luce. La vita reale è una pergamena di luce, il sogno è l’iscrizione perenne.”
Ma chi è Lorenza che scrive un diario raccontando dei pazienti di un ospedale psichiatrico in cui è consulente filosofica?
È l’autrice o un alter ego? Forse tutte e due. Lorenza vive contemporaneamente nella realtà e nell’immaginazione. “Io sono perennemente reale e perennemente immaginaria. Faccio incessantemente la spola tra realtà e immaginazione e la forma bastarda è il miglior simbolo che mi viene in mente per questo mio irrisolvibile centro dell'identità. A me non interessa scrivere una storia, ma penetrare la storia. (…) Sì, voglio che il mio romanzo sia un autentico infarto di ingorghi narrativi.”
Scrive Antonio Moresco: “Il buon auspico è un libro inclassificabile, debordante, scorretto, impudico, lacerante, temerario, traumatico che nasconde dietro la spavalderia e sfrontatezza una persona complessa, piena di fragilità e dolore.”
E lo si vede dalle parole di Ronzano quando scrive: “Ho l’impressione di non essermi ben formata, di non essermi assestata in un preciso stampo. Mi sento più simile a un impasto in fase di lievitazione che a una persona. E da un impasto non si sa mai cosa potrà venirne fuori, si deve sempre badare all’umidità, aver cura di coprirlo con uno straccetto, riporlo in un luogo asciutto e riparato, perché basta un piccolo sbalzo della temperatura, e tutto smonta.”
Ma come è arrivata Lorenza a tutto questo? A partire dall’ascolto della sua ferita.
Lorenza inizia un lungo apprendistato nel quale vive e analizza la malattia che lei non considera tale, rileggendo i sintomi, trovando “in questi un nuovo e insolito sistema di segni espressivi dell’umano. L’ambizione della protagonista è quella di rivalutare la follia come prestigiosa qualità umana”. E ci riesce.
Quello che ha scritto la poetessa Chandra Livia Candiani, vale anche per Ronzano. Candiani ci invita a guardare alle ferite in un modo nuovo e fecondo: “Bisogna salvare le ferite. Non lasciarle sole, sperdute nell’idea fissa della medicazione e della guarigione. Bisogna interrogare le ferite e aspettare le risposte. La riposta alla ferita siamo noi. (…) perdere una ferita significa perdere una segnaletica importante per un viaggio dentro le orme dell’esistenza, un viaggio che ci accomuna e ci distingue (…) E poi c’è l’amore. Mi fa spavento scrivere questa parola. Comprende tutti i tipi d’amore.”
Ronzano ha salvato le sue ferite.
Così infatti Francesca, una paziente del reparto psichiatrico a cui è stata diagnosticata una psicosi, dice a Lorenza: “Grazie, dottoressa, non immaginavo neppure che ci si potesse sedere così, davanti a qualcuno, a raccontargli di sé…”, e Ronzano scrive: “la vogliono liquidare come fuori di testa”, ma lei che l’ha ascoltata e guardata negli occhi sostiene che non è pazza. “Questa donna ha sofferto e soffre per la miseria della vita che le è toccata in sorte, ecco la verità. Hanno voluto togliere la dignità al suo dolore chiamandolo follia.”
La vita sentimentale della protagonista è tenuta in scacco dal suo alter ego Lorenzo, molto seducente, che non le si concede mai, tenendo così in ostaggio il suo desiderio. “Più che il mio amato era il mio pretesto, il mio allenatore per l’incontro con Dio.”
L’ossessione di Lorenzo serve, dice la protagonista, per la costruzione di una nuova identità. “Mi sono costituita attraverso di lui. E lui si può dire che nel corso del tempo sia stato lì per me, per testimoniarmi.”
“A volte mi sembra che Lorenzo non abbia avuto altro significato se non per questa sua permanenza questo suo restare a fare da depositario di frammenti (…) È una specie di vaso. Ora il mio vaso è andato in pezzi.”
La scrittura diventa però il suo vero vaso, un contenitore che l’aiuta a trovare una forma per il vuoto. Un’anfora. Un modo per tenersi in equilibrio come un funambolo in bilico sul filo.
“Quando scrivo, per esempio, mi invaso, racimolo i pezzi che reputo significativi, li rastrello e ne faccio un mucchietto, che depongo qui.”
Dice di avere avuto sempre bisogno di qualcuno o qualcosa, al di fuori di lei, che testimoniasse il suo esserci, la sua integrità. Il riscatto di Lorenza passa dunque attraverso la scrittura di questo diario. Il suo desiderio non si realizza nella realtà ma nella scrittura. Forse perché la scrittura è anche sogno. Scrive: “Attraverso il sogno sfondo la realtà per accedere a un mondo più vero. Ricerco ‘la via di fuga dal gioco della realtà’, il labirinto di quadri, scene e livelli le cui cornici vanno intaccate e corrose di vita.” Il sogno nutre la realtà.
Questo ci chiede Lorenza di leggerla, di testimoniarla, e di permettere al sogno di fecondare la realtà. Lo psicoanalista francese Pierre Fedida diceva che il lavoro analitico è “l’arte di far lavorare i sogni”.
Leggiamola e lasciamo lavorare i sogni.
Come dice Eugenio Borgna, quando si parla di psichiatria non si può non accompagnarla con la speranza e l’illusione che possa essere d’aiuto a chi lo legga, “non nell’accrescere le conoscenze scientifiche, ma nell’ampliare la sfera delle sue emozioni e delle sue passioni.” Chi cura deve saper cogliere sguardi, sottintesi, e sapersi nutrire di poesia, le cui intuizioni sono spesso rivelatrici. E soprattutto non si deve rinunciare al senso e al piano simbolico della realtà.
“Non stupisce che vadano parecchio di moda psicofarmaci, pornografia e prodotti dietetici, perché tutti offrono la possibilità di evitare i significati di quello che si sta vivendo, offrono il vantaggio di non dover pensare a quello che i nostri atti comportano in termini di rischi e conseguenze. La loro grande diffusione dimostra che vogliamo vivere e agire rinunciando al piano simbolico della realtà.”
E per Ronzano anche una certa psicologia può essere contraccettivo per la vita. Ma la psicologia che diventa contraccettivo ha tradito se stessa, perché ha perso la connessione con quella che Hillman ha chiamato la “base poetica della mente”.
Ronzano sembra vicina al pensiero di Hillman che ha affermato che la psicoterapia è riuscita a inventare una narrativa che cura, e che la psicoterapia è impegnata a riportare l’anima dalla prosa alla poesia, e a un risveglio del cuore che immagini.
Allora il modo migliore di accompagnare il diario di Lorenza è con la poesia, che è sogno e speranza.
Se io potrò impedire
a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano –
Se alleverò il dolore di una vita
o guarirò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano
(E. Dickinson.)
Ronzano ci ha provato.