Lo sguardo inginocchiato di Nicola Russo
“Chi sta in strada lo sa che il caso non esiste… sono le altre persone che non lo sanno vedere perché non stanno mai fermi. Dalla mia posizione in ginocchio per terra, io avevo imparato a riconoscerlo il caso”. Così dice Christophe – nello spettacolo Christophe o il posto dell’elemosina del regista romano Nicola Russo, che è stato in scena al Teatro dell’Elfo di Milano dal 21 marzo al 7 aprile.
Christophe è Sami, un ragazzo tunisino di 28 anni che vive per strada, un sans papier, che il giovane Nicola incontra per caso a Parigi nell’estate del 1995, e che quando può si concede una stanza in un piccolo hotel, dove gli conservano gentilmente alcune sue cose, e dove si fa arrivare la corrispondenza. L’incontro tra Nicola e Christophe è un incontro che dura il tempo di uno scambio di un volantino in un bar e di una cena qualche giorno dopo, quando si incontreranno di nuovo per caso per le strade di Parigi. Ma questo breve intenso incontro darà il via a una corrispondenza tra i due. In un’epoca in cui i clandestini sono percepiti come una massa pericolosa e senza nome, questo lavoro racconta il mondo interiore di uno di loro che proprio grazie a quella corrispondenza è riuscito a oltrepassare un confine.
Quasi trent’anni dopo il regista, uomo maturo, ritrova in una scatola queste lettere e sente l’urgenza di occuparsene, e costruisce il suo testo teatrale come se fosse Christophe a parlare in prima persona. Ha sentito che Christophe gli passava il testimone: “racconta la mia storia”, e ha così reinventato la storia del suo amico sans papier, piena di disagi ma anche di grande libertà di ascoltare il mondo, e che non chiede l’elemosina, ma, come dice lui, fa l’elemosina.
Questo spettacolo ha vinto il premio Le Cure della Caritas, e cosa assolutamente inedita l’arcivescovo di Milano Mario Delpini è andato a vederlo, e ne è stato profondamente toccato.
Il cardinale Ravasi, nella motivazione al premio, ha affermato che hanno ritenuto di assegnarlo: “perché non solo mette in risalto il disagio sociale di chi si sente isolato, ma perché fa apparire i due aspetti del linguaggio umano: il primo come strumento di alienazione e il secondo come strumento di dialogo e di senso” e ha aggiunto, citando Bertolt Brecht, che: “il compito del teatro è ‘ricreare’ la gente: cioè divertirla, ma anche rigenerarla, lasciando in essa una ferita interiore, artigliandole la coscienza”. E Russo riesce con questo lavoro ad artigliare le coscienze.
Prima però di poter parlare di Christophe, dobbiamo parlare di Nicola Russo, del suo percorso e di cosa lo ha portato a sentire l’urgenza, dopo trent’anni, di parlarci di questo incontro.
Nicola Russo, regista e attore, nasce a Roma nel 1975, e fonda nel 2010 la compagnia MONSTERA. Come attore è stato protagonista di molti spettacoli teatrali, e come ha scritto il giornalista e saggista Gianfranco Capitta, Russo “è cresciuto e si è fatto conoscere negli spettacoli dell’Elfo, tutti anticonvenzionali e brucianti”. Tra questi, è stato Puck nel Sogno di una notte di mezza estate, regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, e Romeo in Romeo e Giulietta di William Shakespeare, regia di Ferdinando Bruni.
Ha lavorato come protagonista con Luca Ronconi in Peccato che fosse puttana di John Ford, con Marco Bellocchio nel Macbeth di William Shakespeare e con Eimuntas Nekrosius in Anna Karenina di Lev Tolstoj. “Da qui, dopo un po’ di tempo almeno per il pubblico” – dice Capitta – “l’attore si è fatto autore, cominciando una sorta di circuambulazione attorno all’umano”.
Cosa c’è dentro il teatro di Nicola Russo regista? È un teatro che mette a nudo le fragilità, il nostro essere creature. Il suo è uno sguardo asciutto e aperto che mostra. Non si compiace e non si attarda. Sa guardare e sa ascoltare quello che vede, uno sguardo aperto che sa aspettare. E allora i puntini collegati diventano un’immagine, un racconto. Già in Elettra, biografia di una persona comune (2010) Russo infatti si domanda cosa sia possibile raccontare della propria vita. Qual è il senso di una biografia? Come colleghiamo i puntini della nostra esistenza? Il testo, in cui passato e presente si intrecciano, è una riflessione sul senso del racconto di una vita e nella fisicità dello spettacolo questo racconto diventa un monologo a due voci, con un controcanto alle loro spalle: un video silenzioso con il volto di Elettra oggi mentre guarda un film di cui si vedono solo i riflessi sul suo viso. La vita guardata alla luce della traccia che ha lasciato su noi stessi. La narrazione è portata come se gli attori ricordassero i ricordi di un altro, e questi diversi ma complementari modi di raccontare una vita compongono una biografia, anche e soprattutto grazie allo sguardo di un altro, uno sguardo lungo nel tempo.
Il teatro di Russo ricorda la temporalità paradossale del transfert nell’hic et nunc della seduta analitica – c’è una prima volta e c’è una ripetizione – che descrive la complessa temporalità del nostro presente. Degli eventi del passato che noi cerchiamo di ricostruire nelle analisi possiamo dire: “sarà stato in questo modo”, indicando con il futuro anteriore sia la natura immaginale della nostra costruzione sia la caratteristica di temporalità vivente in essa iscritta, che apre anche a un futuro interiore. Nei ricordi che affiorano, il passato va montato come in un montaggio cinematografico perché una nuova storia sia possibile. Forse, proprio per questo, il transfert e la relazione analitica – come anche il teatro con le sue storie – sono un luogo della cura: perché permettono l’accesso a quel futuro interiore che dà senso e direzione. Come scrive John Berger: “Come fa la poesia a incitare alla cura? […] Il compito di questa impresa incessante è rimettere insieme ciò che la vita ha separato o la violenza fatto a pezzi. […] La poesia non può rimediare a nessuna perdita, ma può sfidare lo spazio che separa. E lo fa attraverso l’opera di rimettere insieme ciò che è stato disperso”.
Lo vediamo nel lavoro Anatomia comparata (2021). Nicola Russo si chiede qui come raccontare un amore che non c’è più. Elena e Diane hanno venticinque anni di differenza, e si sono amate. Ora Diane non c’è più, ed Elena compie cinquant’anni, e in una temporalità dove passato e presente coesistono, si incontrano di nuovo. Insieme ricordano. Nei suoi lavori Russo immagina un passato e un presente che si incontrano attraverso la memoria. Una memoria che è rimembrare e far vivere di nuovo.
I suoi lavori partono da lontano e hanno lunghe incubazioni. Scrive per rielaborare quello che non c’è più, per salvarlo. Osa andare a visitare luoghi come la solitudine e la morte. Carl Gustav Jung si rese conto che, se non veniamo a patti con i morti, non possiamo vivere perché la nostra vita dipende dalle risposte che sappiamo dare alle loro domande che sono rimaste senza risposte. Si tratta anche per Russo – come ha detto Jung – di “aprire la bocca ai morti”, perché abbiamo una responsabilità verso chi non c’è più. E Russo si rivolge proprio a chi non è più qui, ricostruendo narrazioni dove il passato, insieme a chi non è più qui, si mostra nella sua verità solo alla luce del lavoro che ha fatto il tempo. Lo vediamo nello spettacolo Io lavoro per la morte (2017). L’autore ha lavorato a un personale dialogo con una madre che è morta, ma che è ancora molto presente dentro di lui. Un’assenza tremendamente presente. Un dialogo impossibile, una riflessione su quel che resta dopo la morte, su come a volte solo l’assenza di una persona riesca a farcela incontrare nuovamente grazie a qualcosa di indelebile. Gli oggetti che l’hanno guardata sembrano ancora parlare di lei e di noi insieme a lei.
Ritroviamo tutti questi elementi anche in Christophe o il posto dell’elemosina (2019) che – come tutti gli altri suoi lavori da regista – ha questa cifra e risponde a questo bisogno di raccontare le storie che lo riguardano e che trovano un aggancio con dimensioni profonde della psiche.
A trent’anni di distanza Russo decide di partire da ciò che resta di questo incontro, le lettere – che sono scritti non convenzionali, pezzi del diario di Christophe, oggetti, farfalle di carta, poesie che esprimono un grande bisogno di comunicare ed essere ascoltato – per raccontarci questa storia che è personale e universale.
Dice Christophe: “Non sono qui veramente. Provo a spiegarmi meglio. Sono qua ma venticinque anni fa. Mi chiamo Christophe [..] Volevo stare vicino al mondo, per questo sono arrivato fin qua, dove tutto il mondo passa, per vederlo passare, il mondo”.
Nicola Russo sembra Christophe che si muove nelle strade di Parigi – in uno spazio libero ideato dall'artista Giovanni De Francesco, senza divisioni tra palco e platea – e ci trasporta lì. Nicola/Christophe si muove tra gli spettatori e interagisce con loro – come quando dona una gru origami che fa in scena – e un video girato a Parigi, a livello della strada, ci fa fare l’esperienza di un sans papier in ginocchio, restituendoci il suo sguardo sul mondo. Uno sguardo inginocchiato.
Christophe ci svela la sua vita da mendicante, i segreti dell’arte dell’elemosina, raccontando i luoghi dove sceglie di fare l’elemosina – perché la gente dovrebbe essere educata all’elemosina –, e Nicola scopre la cultura di Christophe poliglotta, che dice di doversi esprimere male, fingendo di non conoscere gli articoli determinativi, per sembrare come gli altri che vivono in strada, e per questo dice: “sono il straniero”.
Vorrei qui ricordare un momento nello spettacolo di Russo che mi ha particolarmente toccato – anche perché riguarda tutti coloro che non sono stati visti ed ascoltati – ed è quando Christophe si vede per la prima volta allo specchio.
Ma vorrei che fosse Christophe a raccontarlo.
“Qualcuno aveva appeso uno specchio. Ho cercato di ignorarlo. Era troppo tempo che non mi guardavo in un vero specchio che non fosse il fondo di un cucchiaio. Poi un giorno per sbaglio, per un riflesso condizionato, per un’abitudine non mia, sono andato a cercare la mia immagine allo specchio. Ma non c’era. Quel giorno non c’era nessuno dentro lo specchio. […] Non mi vedo nello specchio, deve essere perché nessuno mi parla. Allora tornavo in mezzo alla gente ma nessuno mi parlava ed io non parlavo mai a nessuno perché l’elemosina si fa in silenzio”.
Dopo l’incontro con Nicola, dopo che è stato ascoltato e visto, Christophe si vede allo specchio: “Prima di andare via, dopo aver chiesto il conto mi alzo per pagare e, mentre il ragazzo mi aspetta di fuori, vado alla toilette. Nello specchio sporco sopra il lavandino mi aspetta Christophe. Non lo vedevo da così tanto tempo che fatico a riconoscerlo, ha la faccia stanca ma in generale ha un bell’aspetto. Mi viene da piangere a rivederlo, ma lui allunga una mano, mi asciuga una lacrima e mi fa una carezza”.
A un certo punto la corrispondenza si interrompe e di Christophe Russo non ha più notizie. Desidera immaginarselo tornato in patria.
Nei testi di Nicola Russo c’è la ferita e c’è la cura, cinismo e tenerezza, la ricerca di uno sguardo che, se non può essere cura, sia almeno balsamo.
Come i veri artisti Russo è capace di portare le proprie ferite in teatro per curare le ferite altrui. Il guaritore è ferito e per questo ha cura dello sguardo e il suo sguardo cura. E c’è l’immaginazione, perché come ha scritto James Hillman: “siamo tutti pazienti dell’immaginazione”.
Uno sguardo inginocchiato che ci spalanca gli occhi su noi stessi e sul mondo, e come ha detto lo psicoanalista Ernst Bernhard ci aiuta a diventare consapevoli del nostro destino, in un un rapporto dialettico tra l’autore e l’attore, così che, recitando il nostro copione, siamo in grado di differenziarcene. Russo in questo spettacolo è attore, spettatore e autore.
Ricordo il teologo Raimond Panikkar quando diceva che per diventare le mani del proprio destino dobbiamo interpretare tutti e tre i ruoli insieme: autore, attore e spettatore. Solo così, forse, ciascuno di noi diventa libero di interpretare il proprio destino e rendere possibile una seconda storia. Così è anche nel lavoro analitico.
Ma cosa c’era scritto su quel volantino che il straniero diede al giovane Nicola in quel bar, e che lui non aveva letto perché pensava fosse solo una pubblicità, e lo aveva strappato? “Quante possibilità ci sono di incontrare lo stesso ragazzo due volte?” Questo Christophe aveva scritto.
Il teatro di Nicola Russo è fatto da una comunità di sguardi – compresi quelli degli spettatori – di sincronicità di incontri che diventa comunità di destino. Ciascuno toccato, perché ferito delle stesse ferite, e curato dalla lente della sua scrittura che, montando passato e presente, apre al futuro. Come ha scritto John Berger: “Ciò che ci separa dai personaggi di cui scriviamo non è la conoscenza, oggettiva o soggettiva, ma la loro esperienza del tempo nella storia che stiamo raccontando. […] Il tempo e dunque la storia appartiene a loro. Eppure il significato della storia, ciò che la rende degna di essere raccontata, consiste in ciò che siamo in grado di vedere e che ci ispira perché siamo al di là del suo tempo. [...] La lente è il segreto della narrazione, e viene rimessa in posizione in ogni storia, tra il caduco e l’eterno”.
Le fotografie sono di Laila Pozzo, eccetto l’ultima, di Paolo Benvenuto.