Funzionare o esistere?
L’attuale disagio dei bambini e degli adolescenti, esploso durante la pandemia, ci chiede di fermarci a riflettere e a interrogarci se gli strumenti e le terapie che offriamo loro siano utili per la cura e per immaginare il futuro, perché i giovani sono il nostro possibile futuro, che oggi è in crisi.
In questo prezioso libro – Orizzonti immaginativi possibili. La psicologia dell’età evolutiva nel terzo millennio, a cura di Stefania Baldassarri e Maria Claudia Loreti, (Moretti & Vitali 2023) – tre generazioni di analisti dell’età evolutiva provenienti da formazioni diverse, spaziando dalla mitologia alle neuroscienze, sono alla ricerca di nuove soluzioni senza per questo dimenticare l’esperienza del passato.
I grandi cambiamenti sociali avvenuti durante il Covid hanno generato una grande sofferenza nei giovani, che si è vista anche nell’esponenziale incremento del loro accesso al Pronto Soccorso, soprattutto per ideazione suicidaria, depressione e disturbi della condotta alimentare.
Gli autori ci ricordano come nei momenti più drammatici della pandemia la minaccia dell’integrità familiare, la paura del contagio e la socialità interrotta, sono stati fattori che hanno giocato un ruolo sfavorevole all’integrità psicofisica del bambino e dell’adolescente. A mio avviso la pandemia ha fatto da “detonatore” a problemi e processi già in atto, di cui continuiamo oggi a occuparci nei nostri studi. Stiamo vivendo un profondo cambiamento antropologico, per cui si tratta forse anche di trovare una terapia della civiltà, capace di essere critica del tempo in cui viviamo. Tra le questioni collettive da affrontare, oltre alle conseguenze della pandemia, la crisi climatica con la crescente eco-ansia, e le conseguenze della rivoluzione digitale senza controllo.
Non è mai successo nella storia dell’umanità che un cambiamento, come quello della rivoluzione digitale, fosse così veloce. C’è bisogno di tempo per metabolizzare la potenza tecnologica, e conservare “la singolarità del vivente”. Oggi la società invece presta continuamente attenzione alla prestazione, ed è ossessionata dagli obiettivi e vive dentro una realtà digitale che ci vede continuamente connessi. In questo mondo la negatività diventa un ostacolo da eliminare attraverso il progresso, e in quest’ottica non c’è tempo per vivere un’emozione o elaborare un vissuto, ma solo agire una risposta. Per sviluppare una propria autonomia bisogna poter sbagliare e soffrire, per stare bene è necessario accettare la sofferenza, la vecchiaia, la malattia, e la morte. I nostri giovani sono vittime di questa idea di progresso che li ha travolti. Agire per non pensare, è una tipica “postura” border della nostra contemporaneità, come possiamo vedere ogni giorno dai fatti di cronaca.
La sensazione diffusa è l’assenza di futuro, anche questo spiega il loro rifugiarsi nel mondo virtuale. Esemplare, in questo senso, il film di Spielberg Ready Player One del 2018. Ci sono infatti ragazzi che vivono chiusi in casa attaccati ai cellulari, e per i quali il contatto con il mondo esterno avviene solo attraverso i social, protetti da uno schermo. È anche a causa di questo “abuso”, di questa “dipendenza”, che i giovanissimi pazienti che giungono oggi in analisi sono sempre più impulsivi, ipercinetici e privi di interessi. Il desiderio è di “smanettare” con quei dispositivi, senza i quali dicono di annoiarsi. È un paese dei balocchi nel quale tutto è possibile, il senso dell’onnipotenza e la percezione dell’assenza di ogni limite prevalgono. Uno spazio in cui vivono esiliati, oltre che dall’universo reale e dal corpo, anche dal loro mondo psichico.
Questo è anche uno dei motivi per cui troppo spesso, a dominare nelle loro azioni, sono l’impulsività e il non senso del limite. Ne seguono un’angoscia e una tristezza che assumono forme diverse: dagli attacchi al proprio corpo fisico col tagliarsi per sentire il corpo e/o per attenuare il dolore psichico, all’anoressia-bulimia; dalle idee/atti suicidali ai problemi d’identità sessuale, che appaiono già intorno ai 12 anni, alla dipendenza da alcool e droghe, dall’ipercinesia ai disturbi dell’attenzione e della concentrazione in aumento esponenziale già nelle scuole elementari. I giovani vivono un sentimento di inadeguatezza di tipo narcisistico per cui possono diventare facilmente preda di attacchi sui social, su cui passano la loro vita. I giovani lamentano anche una strana “stanchezza”, che è mentale, e una fragilità che si esprime attraverso i loro corpi. Di che stanchezza si tratta? Come prendersene cura? I sintomi con i quali ci troviamo ad avere a che fare sono, a mio parere, relati anche a aspetti collettivi di una società dell’azione e della prestazione, che vede al contempo l’evaporazione dei “padri” e delle regole. I ragazzi chiedono un limite e regole che li aiutino magari a ribellarsi, ma anche a riflettere a cosa si stanno ribellando e a chiarirsi.
Di fronte a cosa ci troviamo oggi? Ci vengono in aiuto due studiosi della contemporaneità: Byung-Chul Han e Miguel Benasayag, i loro libri titolano quello che stiamo vivendo. Byung-Chul Han con La società della stanchezza; La società senza dolore; Benasayag con Il cervello aumentato, l’uomo diminuito; Funzionare o esistere.
Nel saggio La società della stanchezza – citato anche dagli autori – Byung-Chul Han sottolinea come l’archetipo della società attuale sia Prometeo: prototipo dell’essere umano che si esaurisce nell’illimitato bisogno di prestazione. Il lavoro di Byung-Chul Han si focalizza sul disagio dell’individuo in una società sempre più dominata dalla competizione, dall'appiattimento delle contraddizioni e dal venir meno della negatività, e con un eccesso di idealizzazione, per cui bisogna essere perfetti. Da questa ossessione per l'iperattività, per cui non ci si riesce mai a fermare, e dalla tendenza al multitasking, ne conseguirebbero disturbi di natura depressiva e nevrotica. Malessere e "stanchezza" vengono interpretati come conseguenze dell'incapacità del soggetto di sostenere i ritmi dell'iperproduzione.
Com’è una settimana media di un ragazzo? Piena di attività da fare nelle quali riuscire e “performare”. Riempiamo di impegni il tempo dei nostri figli per il terrore di non stimolarli abbastanza. Attività interessanti certo, ma che tolgono quel tempo “vuoto” così prezioso per l’emergere del vero Sé – l’essere soli alla presenza di qualcuno – di cui ci ha magistralmente parlato Winnicott, senza il quale viviamo esuli da noi stessi, e sviluppiamo un “falso Sé” compiacente alle richieste del mondo. Il terreno ogni tanto deve essere lasciato a riposo: lo psicoanalista Kohut ha parlato della necessità di “lasciare il terreno a maggese”: anche la psiche come il terreno agricolo ha bisogno del riposo per tornare a essere fertile e creativa.
Molto interessante – pensando a quale terapia per il terzo millennio – che Byung-Chul Han riporti anche un racconto criptico di Kafka – Prometeo – offrendo un’interessante reinterpretazione del mito, per cui: “Gli dei si stancarono, le aquile si stancarono, la ferita si richiuse stancamente”. Byung-Chul Han dice che qui Kafka intende una stanchezza che cura, una stanchezza che le ferite le chiude. Dobbiamo allora accettare di essere stanchi, e fermarci?
Confondiamo riposo e distrazione: cerchiamo di distrarci perché siamo stanchi, e quindi andiamo sui social, ma più ci “distraiamo” più facciamo fatica e ci stanchiamo, e il tempo vola. Non siamo mai dove stiamo fisicamente, e questo esserci nell’assenza e non esserci nella presenza è fonte di stanchezza. Non “stacchiamo” mai, non ci fermiamo mai, al punto che anche i bambini non sanno più giocare e leggere. Dicono che è faticoso e che richiede troppo tempo, tempo che passano “giocando” con gli smartphone. E, quando si fermano, si annoiano perché sentono il vuoto dentro di loro, un vuoto che non può essere creativo perché lo fuggono – come lo fuggono i loro genitori – riempiendosi di cose da fare, e creando dipendenze. Una sorta di pifferaio magico sta rubando l’infanzia. I bambini hanno bisogno della rêverie: è sognando che il bambino costruisce il suo mondo interiore e il suo immaginario ed entra in contatto con il suo vero Sé, ma questo viene in qualche modo negato.
Nel mito contemporaneo della performance e della tecnologia che pervade tutto “l’intera umanità appare spinta verso il taglio dal suo radicamento nelle sorgenti inconsce, simboliche della vita e, dunque, dalla sua potenzialità prospettica e creativa rivolta al futuro.”
Ma allora la terapia deve aiutare il paziente ad adattarsi al mondo? A questo mondo? O deve aiutarlo a resistergli? A cambiarlo? Ho sempre pensato che nei percorsi analitici – come ha scritto J. Berger – si tratta di “accompagnare qualcosa/qualcuno alla sua incalcolabile destinazione”, e non a un “adattamento” compiacente.
Come “resistere creativamente” a questa società prometeica? Chi cura a cosa deve guardare?
L’inconscio è il filo rosso che collega tutti i contributi di questa opera. Una realtà psichica che si manifesta con i suoi linguaggi misteriosi nel corpo e nell’anima sia individuale che collettiva, in forma creativa e patologica.
Scrivono le curatrici Stefania Baldassarri e Maria Claudia Loreti: “Per Jung, l’inconscio non è solo l’effetto della rimozione, ma è anche la materia vivente da cui originiamo. La pratica dell’ascolto di ciò che dal profondo si manifesta naturalmente nei sintomi disturbanti, patologici, nei sogni, nel gioco dei bambini, nella violenza e bellezza della vita, attiva nell’analista quella dimensione simbolica del vivere che coglie, anche nel male, le potenzialità trasformative insite in quella disarmonia/armonica”. Gli Autori ci ricordano che, in linea con quanto detto da Jung, al di là di ogni tecnica e teoria, “ogni psicoterapeuta non ha soltanto il suo metodo: è egli stesso quel metodo”, nel senso che il fattore di guarigione è la personalità del terapeuta, e non è solo una questione di tecnica, ma di vita e di etica. Desidero sottolinearlo perché viviamo in un tempo dove i protocolli e gli strumenti stanno prendendo sempre più potere rispetto alla persona umana, all’esperienza e alla “singolarità del vivente”.
Credo che ci sia sempre più bisogno di una cura che si rivolga al “fondo poetico della mente” che vada a risvegliare le immagini addormentate dentro i giovani, sepolte da immagini spazzatura, perché, in un tempo in cui — come ci insegna Calvino nelle Lezioni americane — si sta di fatto verificando la perdita di “(...) una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme (...) di pensare per immagini”, diventa urgente recuperare questa facoltà umana che sta all’origine del nostro essere umani, e metterla a fondamento della pratica clinica.
A partire dalla mia esperienza clinica con i bambini e gli adulti ho potuto toccare con mano che l’immaginazione è oggi profondamente in crisi, e questo è pericoloso perché ci rende meno liberi, meno umani. Come curare tutto ciò? Giocando. immaginando. Favorendo la crescita di quello spazio “transizionale”, coltivando l’immaginazione come organo di senso e di percezione.
Le immagini interiori per formarsi chiedono tempo, spazio e ascolto.
Byung-Chul Han sostiene che dobbiamo le attività culturali dell’umanità a una profonda attenzione contemplativa, che è molto diversa dall’iper-attenzione e dalla pratica diffusa del multitasking, caratterizzata da un’attenzione dispersa, che ha una tolleranza bassissima per la noia, che è invece un fattore rilevante nei processi creativi. “Se il sonno è il culmine del riposo fisico, la noia profonda sarebbe il culmine del riposo spirituale”. Walter Benjamin definisce questa noia profonda un “uccello incantato, che cova l’uovo dell’esperienza”, e lamenta che questi nidi di riposo e di tempo stanno scomparendo dalla modernità. Se lo diceva Benjamin, noi allora oggi cosa dovremmo dire?!
Se come ha scritto Hillman “siamo tutti pazienti della immaginazione” – e come diceva una mia giovane paziente “l’immaginazione è come il sistema immunitario” – come possiamo fare oggi?
Non avere la capacità di immaginare è come non avere un sistema immunitario capace di metabolizzare l’esperienza. L’immaginazione è una strada per riuscire ad affrontare le sfide della vita, la paura e la morte. In questo senso, il Gioco della Sabbia – di cui gli Autori parlano – dove corpo e immaginazione sono al centro, può essere una cura per il nostro tempo e per i nostri giovani disanimati e “spenti” dai cellulari. Il gioco – play – dove il corpo e la materia sono protagonisti – come facevano gli alchimisti – è quello spazio intermedio, come l’immagine tra corpo e mente, materia e spirito si possono incontrare, al contrario del game, che nega il corpo e l’altro, e dove non c’è limite di tempo e spazio. Ci ricordano che “ancora Platone ci dice che l’uomo assomiglia a un dio quando può giocare, quando conosce il giusto mezzo tra il faceto e il serio, tra l’aspetto tragico dell’esistenza e l’abbandono sereno e fiducioso al gioco della vita. La creazione quindi non può essere che opera di un fanciullo.”
Compito del processo terapeutico è dunque quello di giocare e rigiocare nella stanza d’analisi – attraverso l’incontro terapeuta paziente – l’ostacolo, il cortocircuito narrato dal sintomo.
Gli Autori infine, parlando di un senso di responsabilità verso le generazioni future, riprendono le parole di Langer per cui mai una generazione avrebbe avuto tanta responsabilità e tanto potere sulle proprie azioni quanto la nostra. L’impatto dell’umanità – l’antropocene – sta cambiando il nostro pianeta. Anders nel 1963 annotava: “Il futuro non viene più; non lo consideriamo ‘come qualcosa che viene’: lo facciamo. E lo facciamo in modo tale che esso contiene in sé la propria alternativa: la possibilità della sua cessazione, la possibile assenza di futuro”.
Lentezza, tempo vuoto e durata, diventano cura. I tempi del racconto – passato, presente e futuro – sono i tempi della cura. In questo modo, si rivisita il passato alla luce del presente per ridisegnare un nuovo futuro, che non sia coazione a ripetere, né ri-produzione ma pro-creazione. Il tempo della cura è il futuro anteriore. Incrocio di dimensioni temporali che si attualizza nel transfert, capace di generare un nuovo futuro anteriore fecondo nel qui e ora.
Bisogna ridare valore alla fragilità – alla singolarità del vivente – che resiste creativamente al mito prometeico della prestazione, e della perfezione dell’algoritmo. La negatività non è un ostacolo, ma fa parte della vita. E come scrive Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, si tratta di trasformare il negativo non nel positivo, ma nell’essere.
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